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La via da me scelta, quella di indagare circa i rapporti di genere soffermandomi con
determinazione e puntiglio sul mio, non è la più semplice sicuramente. Non lo è
perché il tema è per sua natura “paludoso”: come è difficile procedere nelle
argomentazioni, così è probabile che alla fine si resti con un pugno di mosche e
basta; non lo è perché entro il dipartimento di sociologia dell’università di Padova, le
tematiche che vedono la donna al centro dell’attenzione sono particolarmente
affrontate e vedono un seguito di esperte-esperti considerevolissimi sul piano delle
conoscenze che rappresentano per me un manipolo di cecchini pronti a giustiziarmi
appena rimango sufficientemente scoperto; non lo è, infine, perché non scrivo una
tesi di laurea a stagione, al momento questa è la prima...
Perché allora scegliere un percorso simile? Dire che il tema mi piace, basterebbe per
rispondere a me stesso anche se poco convincente di fronte al monito degli amici: “...
ma il gioco vale la candela?”. Per convincere questi mi è indispensabile raccontare
una storia.
Quando frequentavo le scuole elementari, uno dei fratelli della mamma, il più
vecchio, mi raccontava delle sue passeggiate da ragazzino con il nonno nella sua
città: Bologna… e pochi, a dire il vero, sono i contenuti che ricordo al di là del
delizioso clima di intimità e amicizia che si instaurava in quel momento fra zio e
nipote.
Una volta, parlando della seconda guerra, mi raccontò di una passeggiata in pieno
clima fascista interrotta dagli altoparlanti posti nelle piazze per la propaganda di
regime che annunciavano con toni solenni e perentori l’entrata dell’Italia in guerra a
fianco della Germania. La reazione del nonno? Un, a sua volta, perentorio e solenne
“ma!?”.
Ed è proprio forte di quel “ma!?” che mi accosto a scrivere questa tesi di laurea: con
la paura, la desolazione, e la cecità di chi deve muoversi in territori nuovi, sconosciuti
che non gli sono affatto propri nella loro ricca eterogeneità… ma in virtù di questo
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forte della curiosità del bambino che apre i regali a Natale, del coraggio (e
dell’avventatezza) del marinaio di turno che affronta la suadente voce della Sirena…
convinto più che mai che cedere alla tentazione implichi una serie di pericoli mortali,
ma resisterle implichi comunque una perdita, una rinuncia, una possibilità
abbandonata, destinata a denotare percorsi inesplorati, e rimpianti.
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2. PRELIMINARI
“...memento audere semper”
(G. D’Annunzio)
Prima di entrare nel vivo della questione, sono indispensabili alcune delucidazioni
circa le motivazioni, gli stimoli, le “forze” che mi hanno indotto a scrivere dei
“rapporti di genere” con particolare riferimento agli uomini. E sono altresì
indispensabili alcuni approfondimenti generici circa questo vasto oceano su cui mi
sono messo a pescare, circa l’area scelta per gettare le reti, circa le effettive qualità, o
rispettabili requisiti che dir si voglia, del sottoscritto come “pescatore”... ma bando
alle metafore, prima di tutto va detto che: io sono un maschio, non una femmina; io
sono un uomo, non una donna.
In quanto tale, infatti, grava nella mia persona un enorme quantità di contenuti di
“senso comune” circa il sesso altro da me, che inevitabilmente contribuiscono alla
costruzione del pensiero, sullo stesso, del sottoscritto.
Poiché il senso comune è essenzialmente sociale, è utile rivolgersi alle scienze sociali
per comprendere fino in fondo in che cosa esso consista; esse ne mettono in luce
diversi aspetti complementari tra loro. Alla fine si può dire che il senso comune è una
costruzione sociale (cioè qualcosa che attivamente è riprodotta dai singoli nel corso
di ogni interazione) almeno tanto quanto è una memoria (cioè un insieme di
oggettivazioni, di regole e significati sedimentatisi che appaiono a ciascuno esistenti
al di fuori del suo volere): per quanto gli effetti delle interpretazioni di ciascuno
sedimentino nel tempo, dando luogo all’apparenza di un universo stabile, accordarsi
al senso comune è molto più un “fare insieme” che un “sapere insieme”.
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Le diverse definizioni di senso comune date da vari autori, hanno dei punti di
accordo. Innanzitutto ciascuna concorda sul suo carattere pragmatico: esso non ha a
che fare con la ricerca della verità in quanto tale, ma con il perseguimento e la
stabilizzazione di un accordo fra i soggetti, in vista degli scopi connessi alla loro vita
pratica. In secondo luogo , vi è convergenza sul fatto che il senso comune debba
essere inteso come uno sfondo di presupposti che rendono possibile la vita in
comune.
Questo sfondo rappresenta un vincolo perché ci connette ad una tradizione e a delle
regole che ci forniscono una classificazione cognitiva della realtà e che quasi
delimitano quello che siamo in grado di vedere, ma anche una ricchezza nella misura
in cui ci permette di comunicare e di interagire con altri adattandoci di volta in volta
ai contesti e alle situazioni. In questo andirivieni di domande e risposte entra in gioco
anche una componente affettiva. L’adesione di ciascuno a un senso comune comporta
la formazione di un sentimento di radicamento elementare nel mondo, cui non è
estranea l’espressione di un sentimento di fedeltà verso coloro con i quali si
condivide tale radice.
Il legame affettivo che lega il singolo alla cerchia sociale in cui il senso comune è
primariamente appreso carica dunque i suoi contenuti di un bagaglio emozionale che
ne trascende il mero valore strumentale. Ogni dubbio che metta in questione il senso
comune deve essere visto così come una minaccia tanto al proprio radicamento
elementare nel mondo, quanto al proprio legame con queste figure fondamentali, alla
propria appartenenza originaria: una mancanza di lealtà, un tradimento.
Quello che crediamo senza discussioni nel nostro agire quotidiano, è esattamente ciò
che diamo per scontato all’interno del senso comune: ma questo corrisponde
all’insieme delle assunzioni che noi apprendiamo a dare per scontate nel momento in
cui impariamo a partecipare ai giochi linguistici connessi alla forma di vita della
nostra comunità. Di ciò che crediamo evidente nessuno è chiamato a fornire
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dimostrazioni: si tratta piuttosto di essere convinti, e questo consiste a sua volta, più
che alla capacità di non dubitare, nella capacità di porre le domande giuste.
Precisato il significato di “senso comune” va detto che, storicamente, l’accordo circa
i contenuti e le forme dello stesso è il frutto di un “fare assieme” tutto di segno
maschile in virtù della storica subordinazione della donna nei confronti dell’uomo.
Tutto iniziò con la divisione dei compiti secondo il genere. Ci si arrivò a partire
dall’esigenza di aumentare la produzione di cibo e dalle necessità di allevare i piccoli:
si trattò di una soluzione culturale ad un problema tecnico , che comportò dei
mutamenti nell’organizzazione sociale... con il passare del tempo, le soluzioni che
avevano risolto problemi pratici di organizzazione vennero ripetute fino a diventare
consuete, attendibili, e, alla fine, imposte (Bourdieu). I rituali legittimavano queste
pratiche e le trasformavano in norme e usanze solenni. Non erano più la volontà e la
convenienza a determinare i compiti di ciascuno. Invece di basarsi sulle scelte
individuali, basate sul talento e sulle inclinazioni personali, o di cercare di risolvere i
problemi man mano che si presentavano, determinati compiti venivano affidati
sempre a determinati gruppi di persone. Per garantire una certa stabilità nella
distribuzione del lavoro, i componenti della società venivano divisi in categorie
riconoscibili: donne, uomini, ragazze, ragazzi.
Tali categorie caratterizzanti la vita di ogni giorno, arrivarono a riprodurre una
visione della società che stabiliva come ciascuno avrebbe dovuto agire. Le strutture
sociali che ne conseguivano trovavano la propria giustificazione nella religione e
nelle produzioni culturali, ed erano consolidate dalla legge.
Oggi lo status quo sfavorevole delle donne permane diffusamente e si consolida a
causa:
1. del carattere invisibile del processo con cui il genere si instaura a garantire il
dominio egemonico dell’ideologia che lo sorregge; e
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2. del silenzio su tale situazione di iniquità, come se il non chiedersi perché una
categoria sociale , che convenzionalmente viene definita degli “uomini”, eserciti
potere nei confronti di un’altra classe, a cui ci si riferisce con il nome di “donne”,
volesse dire accettare l’idea che la dominazione maschile fosse normale, e
condurre quindi le donne, a rassegnarsi a cercarne le cause naturali.
E’ elementare così che il carattere pragmatico, lo sfondo di presupposti che rendono
possibile la vita in comune, la componente affettiva del senso comune imperante
oggi, nei confronti delle donne, assuma colori, tonalità, e sfumature, assolutamente
riconoscibili.
Circa il carattere pragmatico del senso comune, l’accordo tra maschi spinge affinché
le differenti condizioni sociali determinate dal genere siano intrinsecamente diseguali,
e il fine stesso di questa differenziazione è di produrre un’ulteriore differenziazione
strutturale che produca un gruppo che possa essere sfruttato, sia nel mercato che in
casa, come forza lavoro, come oggetto sessuale, come generatore di figli e come fonte
di assistenza in caso di bisogno.
Circa lo sfondo di presupposti che lo compongono, oggi sono più che mai affinati, e
sono: lo sfruttamento emotivo e sessuale delle donne, la loro oggettivazione nella
cultura, la loro svalutazione nelle principali religioni del mondo, la loro invisibilità
nel racconto storico tradizionale e la giustificazione ideologica del controllo legale
esercitato sul loro corpo (la componente patriarcale della disuguaglianza tra i generi).
Per quanto riguardo la componente affettiva, le forme di omosocialità che si
originano, e che hanno visto, e continuano a vedere umiliate, sminuite, talvolta
degradate le donne, sono uno dei motivi che mi fanno essere qui, ora, a scrivere.
Nei confronti di determinate manifestazioni di “senso comune” che avvengono in tali
“branchi di maschi” verso la donna, ciò che provo è una sensazione di disagio e di
inadeguatezza, di non riconoscimento e di disappartenenza nei confronti del mio
branco che dovrebbe invece costituire uno dei referenti principali al mio essere al
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mondo, e questo accade non da qualche mese a questa parte, ma fin dagli albori della
mia pubescenza.
Ricordo che di fronte ai seni lucidi della Fenech e alle allupate elucubrazioni del mai
domo Montagnani, viste a tarda ora nel salotto a casa di amici oramai 15 anni
addietro, mentre i nostri genitori concludevano la festante cena nella cucina accanto a
suon di grappa e canti di montagna, da un lato creavano nei giovanetti presenti
un’aurea di complice trasgressione (il branco si consolida) stimolando i commenti più
carnalmente biechi e voluttuosi (per quanto lo possano essere a 12-13 anni), dall’altro
mettevano a dura prova il mio senso di adattamento e di appartenenza, spingendomi
al silenzio di fronte a certe osservazioni o commenti che la mia sensibilità ed
esperienza mi avrebbero indotto a fare: “...che bruti lineamenti el viso dea Fenech...”,
“... ‘a se sempre a soita trama...”, “...mi sta batuta na me fa da ridar...”, “... bella
Firenze!...”. Oggi è la stessa cosa: se invitato ad una festa presso coppie di amici, mi
viene spontaneo alzarmi ed aiutare la “fiamma del focolare” indaffarata, mentre
magari il caro e dolce neo maritino comodamente seduto commenta incazzato la poca
tenuta atletica e la stanchezza fisica di Del Piero alla televisione assieme agli altri
maschi presenti...
Le tensioni su elencate, rappresentano l’attrito che storicamente sorge tra senso
comune ed esperienza intesa, nelle sue varie accezioni, come qualcosa che conserva il
senso di un vissuto, o di un sapere che appartiene solo al soggetto, e che lo
caratterizza nella sua singolarità. Questa tensione non va intesa come
contrapposizione, nulla sarebbe più errato del pensare che senso comune ed
esperienza siano separati intendendo, magari, il primo come qualcosa di esterno al
soggetto, e la seconda come qualcosa di interno allo stesso. Senso comune ed
esperienza sono piuttosto principi differenti di organizzazione.