7
pubblici decisori, la crescente attenzione per le esternalità positive
associate all’attività agricola.
Scopo della presente tesi è di indicare le possibili vie che
consentano la valorizzazione dei territori rurali in una logica di
sviluppo sostenibile. In particolare, nella presente tesi viene esaminata
la certificazione ambientale territoriale come strumento che, inserito
all’interno di un’opportuna strategia di marketing del territorio, può
favorire la concreta attuazione di un modello di sviluppo endogeno,
capace di garantire l’integrazione fra politiche agricole ed ambientali.
Nella prima parte della presente tesi vengono ripercorse le tappe
della caduta del mito della crescita economica illimitata e della nascita
dello sviluppo sostenibile come paradigma economico alternativo.
Quindi, viene presentato un excursus sulla Politica ambientale europea
e, in particolare, sulle nuove strategie di tipo volontario che, oltre a
chiedere il rispetto dei limiti ambientali imposti dalle leggi, affidano
un ruolo importante all’azione di prevenzione.
Fra le attività antropiche in grado di generare impatto
sull’ambiente si prende in considerazione quella agricola per la
complessità del rapporto fra agricoltura ed ambiente, caratterizzato
dalla contemporanea presenza di effetti nocivi ma anche di
innumerevoli esternalità positive. Le certificazioni ambientali ISO
14001 ed EMAS, ampiamente illustrate nella loro operatività nel
quarto capitolo, vengono quindi analizzate come strumento in grado di
valorizzare il ruolo multifunzionale dell’agricoltura e, quindi, di
partecipare al processo di sviluppo locale endogeno dei territori rurali.
8
A questo proposito, viene analizzato il caso della recente
certificazione ambientale del comune di Montalcino, considerando
come in tale caso siano riscontrabili alcuni aspetti emblematici
connessi alla certificazione ISO 14001, soprattutto in relazione al
contesto rurale e, in particolare, alla volontà da parte
dell’amministrazione di coinvolgere nel progetto le imprese del settore
primario.
9
2. Ambiente e sviluppo
Il nostro compito è guardare il mondo
e vederlo intero. Occorre vivere più
semplicemente per permettere agli
altri semplicemente di vivere.
(E. F. Schumacher)
2.1. La questione ambientale
Negli ultimi cinquanta anni hanno trovato compimento la
costruzione e la decostruzione del concetto di sviluppo inteso come
crescita economica illimitata, l’ascesa ed il declino delle politiche che
ad esso si sono ispirate. L’ideologia dello sviluppo aveva esaltato le
virtù taumaturgiche del processo di mutamento nato in occidente con
l’avvento della civiltà industriale ma la diffusione di tale modello di
sviluppo, contrariamente alle aspettative, non ha risolto il dramma
della povertà del Sud del mondo ed ha causato ovunque il
depauperamento delle risorse naturali e compromesso i delicati
equilibri ecologici che governano il nostro pianeta.
La crescita economica è avvenuta a scapito dell’ambiente, del
sacrificio dei lavoratori, dell’esclusione dei gruppi più deboli e
svantaggiati e dello sfruttamento del Terzo Mondo che oggi rivendica
con forza la partecipazione ai benefici dello sviluppo e non è disposto
ad abbandonare il mito della crescita illimitata. (Gisfredi, 2002).
La questione ambientale è emersa nell’ambito dei paesi
occidentali industrializzati intorno agli anni settanta. Nel periodo
precedente, il discorso dello sviluppo non includeva la dimensione
10
ambientale: l’ambiente costituiva una dimensione latente ed esterna al
processo produttivo e non rappresentava un limite all’espansione
dell’economia industriale su scala mondiale. Esso acquista una sua
rilevanza e visibilità solo in seguito all’aggravarsi dell’inquinamento e
all’impennata del prezzo del petrolio ed incomincia ad essere
considerato un problema proprio dai Paesi che fino ad allora avevano
preferito ignorare l’esistenza di limiti ed equilibri ecologici ed
avevano fondato la propria crescita sullo sfruttamento intensivo delle
risorse naturali e l’emissione incontrollata di sostanze inquinanti.
Fondamentali sul piano teorico alla caduta del mito della crescita
indefinita e dell’altrettanto indefinita possibilità di prelevare risorse
dall’ambiente e di rigettarvi i residui delle attività di produzione e
consumo, sono i contributi di Kenneth Boulding (1966) e
dell’economista rumeno Nicholas Georgescu-Roegen (1971).
Kenneth Boulding, in un celebre saggio del 1966 “The
Economics of the Coming Spaceship Earth”, paragonò l’economia
tradizionale a quella del cowboy che crede di avere di fronte una
frontiera da spostare continuamente e, quindi, risorse praticamente
infinite e l’economia attuale a quella dell’astronauta nella sua
navicella spaziale che deve risparmiare su ogni risorsa e riciclare il
massimo possibile. Questa impostazione presentava l’economia della
navicella spaziale come perfettamente circolare: se tutto veniva
recuperato e riciclato il processo poteva continuare all’infinito.
Mancava alla perfetta comprensione del rapporto fra economia ed
ambiente l’introduzione del concetto di entropia che invece venne
affrontato da Nicholas Georgescu-Roegen.
11
Nella sua opera fondamentale “The Entropy law and the
economic process”, egli sottolinea come l’economia non può sottrarsi
alle leggi fisiche della termodinamica. In particolare, la prima legge
afferma che non è possibile creare o distruggere materia ed energia,
per cui le risorse che vengono utilizzate nel processo di produzione e
consumo non scompaiono ma vengono solo convertite e disperse
nell’ambiente sotto forma di rifiuti ed emissioni.
Il secondo principio della termodinamica ci ricorda che la
materia/energia va irrevocabilmente da uno stato di ordine ad uno di
disordine per cui, in un sistema chiuso come quello terrestre, l’uso
delle risorse energetiche fossili e minerarie ordinate riduce
irreversibilmente le risorse disponibili per il futuro: aumenta l’entropia
del sistema. L’introduzione del concetto di entropia nel ragionamento
economico pone una conseguenza fondamentale e cioè che i processi
sono irreversibili ed esiste una “freccia del tempo”.
La critica più nota al modello di sviluppo tradizionale -e a sua
volta la più contestata- fu quella contenuta nel primo rapporto al club
di Roma realizzato dal MIT (Massachussets Institut of Technology)
dal celebre titolo “I limiti dello sviluppo” (traduzione errata di “
Limits of growth”, ma che rivela l’equivalenza tra crescita e sviluppo
data dall’interpretazione dominante) pubblicato nel 1972 e divenuto
rapidamente assai noto in tutto il mondo. Gli Autori, estrapolando le
tendenze in atto delle principali variabili ambientali -popolazione,
risorse, sviluppo industriale, energia ed inquinamento- giungevano a
prevedere che la pressione demografica e la crescita industriale
avrebbero portato, nell’arco di un secolo, al definitivo collasso
12
economico, ecologico e demografico del sistema mondiale. Le
previsioni contenute furono giudicate eccessivamente allarmistiche e
le misure raccomandate troppo drastiche. A posteriori si può dire che
gli scienziati del MIT peccarono di eccessivo pessimismo e scarsa
fiducia nel ruolo della tecnologia che ha ritardato le loro previsioni.
Al di là delle critiche e delle interpretazioni a posteriori,
l’importanza di questo libro è quella di aver conferito una vasta
risonanza alla questione ambientale e di aver posto in primo piano le
esternalità negative (costi sociali ed ambientali) causate dal processo
di crescita economica dei paesi industrialmente avanzati cui si era
attribuito il ruolo di modello universale e di guida in tutto il mondo.
L’evento più clamoroso ed in parte significativo degli anni
settanta è stata la conferenza sull’ambiente umano promossa dalle
Nazioni Unite a Stoccolma nel 1972. Per la prima volta in sede
internazionale si affrontarono i problemi dell’esaurimento delle risorse
naturali e dell’inquinamento ambientale. La Conferenza in realtà non
portò a risultati concreti ma costituisce in ogni caso una pietra miliare
nella storia ambientale perché per la prima volta il problema ecologico
viene riconosciuto come “problema globale”.
Nel corso della conferenza di Stoccolma venne istituito l’UNEP,
il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, incaricato di
analizzare le interrelazioni tra ambiente e sviluppo, di evidenziare le
contraddizioni e di suggerire i modi per avviare politiche economiche
ambientali sostenibili.
13
2.2. Lo sviluppo sostenibile
2.2.1. Storia di un’idea
Le critiche rivolte alla concezione dominante dello sviluppo e le
proposte innovative maturate nei diversi ambiti convergono
gradualmente nel tempo verso la definizione di uno sviluppo
“diverso”, di uno sviluppo più attento alle dimensioni ecologiche e
sociali.
Una prima definizione di sviluppo sostenibile si può far risalire
alla “World Conservation Strategy” elaborata nel 1980 dall’IUNC
(International Union for the Conservation of Nature) secondo la quale
lo sviluppo sostenibile è il risultato dell’integrazione dello sviluppo
economico con la conservazione dell’ambiente attraverso la corretta
gestione dell’uso umano della biosfera.
Tuttavia, la sostenibilità dello sviluppo ha assunto il ruolo di
paradigma innovativo
1
solo con il rapporto finale della World
Commission on Environment and Development, presieduta dall’ex
primo ministro norvegese Gro Harlem Bruntland ed istituita dalle
Nazioni Unite al fine di promuovere uno sviluppo globale ed indicare
all’umanità delle strategie ambientali a lungo termine. La definizione
ufficiale è quindi quella contenuta nel Rapporto Bruntland dal titolo
”Il futuro di noi tutti”: per sviluppo sostenibile si intende uno
1
Punto di vista riconosciuto dalla comunità scientifica che impone una nuova
ottica, per risolvere le dissonanze cognitive che il vecchio paradigma lascia
irrisolte (Kuhn, 1968).
14
sviluppo che soddisfi i bisogni delle generazioni attuali senza
compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i
propri (Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo, 1988, p.
71).
Questa sintetica definizione fa riferimento al concetto di
“bisogni”, esplicita il principio della solidarietà intragenerazionale ed
intergenerazionale e presuppone il riconoscimento dei limiti dati allo
sviluppo, limiti che però “non sono assoluti, bensì imposti dall’attuale
stato della tecnologia e dell’organizzazione sociale delle risorse
economiche e dalla capacità della biosfera di assorbire gli effetti delle
attività umane. La tecnologia e l’organizzazione sociale possono
essere però gestite e migliorate allo scopo di inaugurare una nuova era
di crescita economica.”.
Già da questa definizione appare un grande equivoco che e’
presente nell’intero rapporto, quello di intercambiare, senza alcun
problema, i due termini “sviluppo” e “crescita” che significano cose
differenti, come successivamente preciseranno studiosi illustri di
ambiente ed economia, primo fra tutti Herman Daly, uno dei massimi
teorici dello sviluppo sostenibile.
Per Daly, il temine “crescita” si riferisce ad un aumento nella
scala fisica del flusso di materia/energia che sostiene le attività
economiche di produzione e consumo dei beni. Il miglioramento
qualitativo nell’impiego di una data scala di produzione fisica, che
può risultare o da un miglioramento della conoscenza tecnica o da una
migliore comprensione dell’obiettivo, viene chiamato “sviluppo”
(Daly, 1996). Nella accezione più corrente del termine sviluppo si
15
coglie essenzialmente la nozione dei cambiamenti qualitativi connessi
all’idea dello sviluppo. Si ipotizza, in sostanza, che non esista una, ma
più modalità di sviluppo e che quindi lo sviluppo stesso possa essere
aggettivato (Bresso,1993).
Numerose sono le critiche alla definizione di sviluppo sostenibile
contenuta nel rapporto Bruntland, accusata di essere decisamente
ambigua, in quanto oscilla tra la proposta di una crescita economica
di tipo convenzionale, seppure a ritmo rallentato, e la proposta di uno
sviluppo senza crescita. Bisogna però riconoscere alla WCED il
grande merito di aver ottenuto un ampio consenso politico nei
confronti dello sviluppo sostenibile e di aver ribadito l’urgenza di una
transizione in questa direzione dell’intera economia mondiale.
Il concetto di sviluppo sostenibile ha ricevuto infine la sua
legittimazione ufficiale in occasione del “Summit della Terra” tenutosi
a Rio de Janeiro nel giugno del 1992, a venti anni dal Summit di
Stoccolma, nel quale furono accolte le risultanze del lavoro della
UNCED (United Nation Conference on Environment and
Development). In quella sede il dogma della sostenibilità fu
definitivamente consacrato come strategia mondiale delle Nazioni
Unite. Il summit ha visto la partecipazione di 183 governi e la
presenza di numerose organizzazioni non governative che hanno
assistito all’UNCED in qualità di osservatori o di componenti delle
delegazioni nazionali.
La Conferenza di Rio aveva lo scopo di costruire uno schema di
azione per portare l’insieme dei paesi della Terra su un percorso di
sviluppo sostenibile e di definire compiti e contributi di ciascuno. In
16
particolare avrebbe dovuto definire l’entità degli aiuti che i paesi
industrializzati avrebbero destinato ai paesi poveri che accettassero di
rendere le proprie economie compatibili con l’ambiente e le modalità
con cui i paesi ricchi si sarebbero impegnati a riconvertire il proprio
processo di sviluppo in senso ambientalmente compatibile.
Il risultato principale della Conferenza di Rio sembra essere stato
quello di aver suscitato un enorme interesse dell’opinione pubblica sui
temi dibattuti, ma gli obiettivi concretamente conseguiti sono stati di
gran lunga inferiori a quelli auspicati e precedentemente fissati dal
mandato organizzativo delle Nazioni Unite. Si sono infatti manifestate
clamorosamente le divergenze tra Nord e Sud e sono emerse delle
vistose differenze anche nell’ambito degli stessi paesi sviluppati,
pertanto gli accordi stipulati sono avvenuti su basi minimaliste
(Gisfredi, 2002). I documenti emanati dalla conferenza non
contengono alcun obbligo assoluto in termini di tutela ambientale.
La Dichiarazione di Rio sull’ambiente e sullo sviluppo è un
documento articolato in 27 punti o principi di quasi esclusiva valenza
politica. Gli elementi di maggior rilievo sono: il riconoscimento della
necessità dello sviluppo sostenibile; l’affermazione della
responsabilità comune ma differenziata degli stati in materia; il
principio di una partnership mondiale nello sforzo comune di
salvaguardia dell’ambiente; l’applicazione del principio precauzionale
per la protezione dell’ambiente. Anche la Dichiarazione sulle foreste
non giunge non va oltre ad enunciazioni di principi, senza mai tentare
di tracciare un preciso percorso di reale attuazione. Di fatto del tutto
priva di valore giuridico, contiene solo dei buoni principi affidati alla
17
volontà dei governi di realizzarli. La Convenzione sul clima contiene
il riconoscimento dell’esistenza di un cambiamento climatico dovuto
all’immissione di gas nell’atmosfera, soprattutto anidride carbonica.
Tale convenzione contiene pochissimi impegni concreti ed è
caratterizzata da una grandissima genericità
2
. Ma uno dei documenti
sui quali sono nati i maggiori scontri è rappresentato dalla
Convenzione sulla Biodiversità a causa degli enormi interessi
dell’industria biotecnologica (Tiezzi, Marchettini, 1999). In essa si
afferma che la diversità biologica rappresenta un prezioso patrimonio
della natura e, in quanto tale, è la base fondamentale per lo sviluppo
sostenibile. L’Agenda 21 invece, è un documento di carattere politico
programmatorio nel quale viene indicato un programma operativo per
una transizione verso uno sviluppo sostenibile, includendo obiettivi,
responsabilità e stima dei costi. Questa parte finanziaria, contenente la
stima dei fondi necessari ai paesi in via di sviluppo per realizzare la
propria parte del programma è stata oggetto di forti discussioni ed è
stata infine sostituita da affermazioni generali.
Nell’estate 2002, a dieci anni di distanza dalla conferenza di Rio,
si è tenuto a Johannesburg il Summit mondiale per lo sviluppo
sostenibile con lo scopo di riesaminare l’attuazione del piano deciso in
quella sede, rinnovare l’impegno per lo sviluppo sostenibile e adottare
un piano di azioni per guidare i governi nell’attuazione dell’Agenda
21. Il Summit si è svolto in un momento di grande incertezza in
quanto gli Stati Uniti non hanno provveduto alla ratifica del protocollo
2
Dei precisi impegni su questo tema sono stati presi successivamente, con il
protocollo di Kyoto del 1997, ma anche questi stentano ad essere rispettati.
18
di Kyoto, predisposto nel ’97 all’interno della Convenzione quadro
delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. In questo documento è
stato sancito l’impegno globale di riduzione delle emissioni di gas
serra ad un livello pari al 5,2% delle emissioni del 1990. Tali riduzioni
sono state pianificate in modo diversificato tra paesi in via di sviluppo
(con impegni minori) e paesi industrializzati.
Il Summit di Johannesburg, mancando l’appoggio degli Stati
Uniti all’accordo su uno degli aspetti ambientali più significativi, non
ha avuto il peso politico necessario per poter prendere impegni
concreti per la riduzione dei modelli di consumo che stanno
impoverendo i sistemi naturali (Verdesca, 2002). In tale modo, il
vertice ha ulteriormente posto in evidenza i limiti di un sistema di
concertazione politica e cooperazione internazionale incapace di
andare oltre le enunciazioni per intraprendere reali percorsi operativi.
2.2.2. I principi guida dello sviluppo sostenibile
Il concetto di sostenibilità trova le sue radici in tre fondamentali
giudizi di valore (Pitea, 1999):
a) Uguaglianza dei diritti per le future generazioni. Questo
principio afferma il diritto alle risorse della Terra per gli
individui che vivranno in futuro ed assume la giustizia fra le
generazioni come principio guida dell’azione politica
3
.
b) Trasmissione fiduciaria di una natura intatta. Si distinguono in
proposito due posizioni che fanno capo ai concetti di
3
Equità intergenerazionale
19
sostenibilità debole e di sostenibilità forte. La prima presuppone
la piena sostituibilità fra capitale prodotto dall’uomo e capitale
naturale, ciò che bisogna mantenere costante per le future
generazioni è la somma di queste due componenti. Anche danni
irreversibili all’ambiente sono considerati sostenibili purché il
capitale prodotto crei un benessere proporzionato. La seconda
posizione invece, richiede che vengano mantenuti costanti gli
stock di capitale naturale, indipendentemente dal capitale
prodotto dall’uomo in quanto giudicati insostituibili i servizi
che la natura è in grado di offrire. I due tipi di capitali, in quanto
complementari, devono essere mantenuti intatti poiché la
produttività dell’uno dipende dalla disponibilità dell’altro. E
questa visione è quella che accoglie i maggiori consensi tra gli
economisti interessati ai temi della sostenibilità.
c) Giustizia internazionale. All’interno di una stessa generazione
l’uguaglianza di possibilità a livello mondiale deve essere
considerata un elemento costitutivo: ciascun individuo ha diritto
ad un ambiente intatto
4
.
2.2.3. Le dimensioni dello sviluppo sostenibile
Il concetto di sviluppo sostenibile è un concetto dinamico che
comprende tre dimensioni strettamente connesse fra loro: quella
ambientale, quella sociale e, infine, quella economica; si può parlare
4
Equità intragenerazionale
20
di sviluppo sostenibile solo in presenza di un equilibrio tra i diversi
fattori che contribuiscono a garantire complessivamente la qualità
della vita.
La sostenibilità ambientale è alla base del conseguimento della
sostenibilità economica, nel senso che la seconda non può essere
raggiunta a costo della prima. Quindi, fondamentale per lo sviluppo
sostenibile è il riconoscimento dell’interdipendenza tra economia ed
ambiente.
Per perseguire la sostenibilità ambientale:
a) le risorse rinnovabili non devono essere sfruttate oltre la loro
naturale capacità di rigenerazione;
b) la velocità di sfruttamento delle risorse non rinnovabili non deve
essere più alta di quella relativa allo sviluppo di risorse
sostitutive ottenibili attraverso il progresso tecnologico;
c) la produzione di rifiuti ed il loro rilascio nell’ambiente devono
procedere a ritmi uguali od inferiori alla capacità di assimilazione
da parte dell’ambiente stesso;
d) la società deve essere consapevole di tutte le implicazioni
biologiche esistenti nell’attività economica.
Il conseguimento della sostenibilità ambientale ed economica
deve procedere di pari passo con quella sociale e l’una non può essere
raggiunta a spese delle altre. La sostenibilità sociale include l’equità,
l’accessibilità, la partecipazione, l’identità culturale e la stabilità
istituzionale. La giustizia sociale è una precondizione per l’equilibrio
ecologico in tutte le società non totalitarie (Daly, 1981).