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coscienza, memoria, identità o percezione dell’ambiente. Potremmo dire che tale alterazione
della coscienza comune anche in soggetti sani in relazione a particolari condizioni, può
dipendere da una “frattura improvvisa” nel caso di un incidente stradale, solo per fare un
esempio, da una “frattura transitoria” nel caso di assunzione di droghe e da una “frattura
graduale” nel caso di un’intensa attività fisica e sessuale, che creano e amplificano una serie di
stati di coscienza alternativi: in nessuno dei tre esempi la frattura va ad interferire e a
destrutturare in profondità il senso dell’identità dell’individuo. La “frattura cronica” si ha invece
in quei soggetti i cui conflitti collegati a un trauma infantile sono una ferita permanente e
particolarmente disturbante e il cui rifugio dissociativo perde le sue possibilità protettive e
integrative giungendo a dominare la psiche e dando luogo a una patologia che presenta una vasta
gamma di manifestazioni.
Nella Scala di funzionamento difensivo proposta dal DSM-IV (Defense Functioning Scale)
basata sui concetti di maturità e adattività e gerarchicamente organizzata in sette livelli, la
dissociazione é collocata al livello 5, che racchiude le difese nevrotiche di inibizione mentale;
queste difese, “escludono dalla coscienza idee, sentimenti, ricordi, desideri o paure che
rappresentano una minaccia per l'equilibrio psichico.” (Lingiardi, 2001).
Nella dissociazione un particolare affetto o impulso di cui il soggetto non è
consapevole, agisce nella vita, al di fuori della coscienza; sia l’idea che l’affetto o
l’impulso restano inconsci, ma allo stesso tempo si esprimono attraverso
un’alterazione della coscienza, ciò può comportare la perdita di una funzione o un
comportamento inconsueto. Benché il soggetto possa essere debolmente consapevole
che qualcosa d’insolito ha luogo in tali occasioni, è del tutto ignaro che i propri affetti
o impulsi siano espressi. Il materiale dissociato è comunemente vissuto come troppo
minaccioso, troppo conflittuale e troppo ansiogeno per essere ammesso
nell’esperienza conscia: quindi la dissociazione consente l’espressione dell’affetto o
impulso alterando la coscienza, cosa che permette all’individuo di sentirsi meno
colpevole o minacciato (Lingiardi & Madeddu, 2002).
La dissociazione quindi è un meccanismo di difesa che occupa un posto centrale nel processo
di gestione immediata del trauma, è un modo di organizzare le informazioni, un meccanismo
cognitivo “ad alta velocità” che fa scivolare i dati emotivi e sensoriali in una sorta di “buco nero
della mente”. Si tratta di un fenomeno che si produce come difesa contro le emozioni eccessive e
troppo intense che derivano da esperienze traumatiche, che non possono essere fronteggiate e
integrate nell’esperienza della coscienza ordinaria. Questa funzione di creare stati alterati di
coscienza, cioè di dissociarsi, rappresenta un meccanismo difensivo certamente molto adattivo se
utilizzato nel corso dello sviluppo, quando il bambino dispone di pochi strumenti semplici per
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proteggersi, o in età adulta quando l’individuo si trova in situazioni di particolare stress e
difficoltà emotiva. Ma diventa gradualmente disadattivo quando, a causa di maltrattamenti o
traumi ripetuti, il ricorso alla dissociazione è molto frequente e lo stato alterato di coscienza può
prendere vita propria; se il processo va avanti, possono svilupparsi diverse identità o mondi a sé
stanti. In altri termini, quando la dissociazione diventa una modalità esistenziale primaria, essa
perde le caratteristiche adattive e protettive diventando una vera e propria patologia
Questo studio affronta i fenomeni dissociativi da una prospettiva dimensionale, e cerca di
analizzare e comprendere i vari aspetti di questo costrutto: dalla sua storia, alla sua
fenomenologia, agli strumenti che si utilizzano per misurarla, alla eziologia, fino ai criteri
diagnostici e alle prospettive terapeutiche elaborate per diagnosticarla e curarne il versante
patologico.
A questo punto, vorrei soffermarmi in maniera più dettagliata sulla struttura di questo lavoro,
diviso in sette capitoli, che affrontano tutti gli argomenti precedentemente elencati.
Il Primo Capitolo riguarda la storia del concetto di dissociazione fondamentale per
comprendere l’origine del suo duplice significato: meccanismo di difesa indispensabile e
funzionale nel processo di gestione del trauma e comportamento involontario appreso che
progressivamente acquisisce la natura di un sintomo psicopatologico. La storia della
dissociazione può essere divisa in tre fasi: Janet (1889) da vita al concetto di “dissociazione” che
viene accolto dalla comunità medico-scientifica del tempo e adottato dal primo Freud(1892/95);
intorno al 1910 viene poi completamente abbandonato e cade nell’oblio fino al 1980, periodo in
cui, in seguito agli studi sui disturbi post-traumatici, viene riscoperto e riportato al centro del
dibattito.
Il Secondo Capitolo descrive il continuum dissociativo secondo i modelli di Putnam (2001) e
soprattutto dalla Steinberg (2001), che costituiscono uno dei punti teorici di riferimento più
importanti di questo lavoro. I cinque fenomeni dissociativi fondamentali (amnesia,
depersonalizzazione, derealizzazione, alterazione dell’identità e confusione dell’identità)
vengono descritti a tre livelli d’intensità (lieve, moderato, grave) così da delineare un vero e
proprio continuum dissociativo. L’ultimo paragrafo di questo capitolo si concentra sulle critiche
fatte a questo modello dimensionale da Waller, Putnam et al. (1996) e la proposta di prendere in
considerazione anche un modello tipologico.
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Il Capitolo Tre è dedicato alla dissociazione patologica, in primo luogo dalla prospettiva dei
sintomi clinici e poi dalla prospettiva dei Disturbi Dissociativi definiti dal DSM. Sono analizzati
i cinque Disturbi Dissociativi inseriti nel DSM-IV (Amnesia Dissociativa, Fuga Dissociativa,
Disturbo di Depersonalizzazione, Disturbo Dissociativo dell’Identità - prima Disturbo di
Personalità Multipla, Disturbo Dissociativo Non Altrimenti Specificato) e anche altri disturbi
strettamente connessi a questi dalla comune eziologia traumatica.
Il Capitolo Quattro continua l’esame dei Disturbi Dissociativi: vengono descritti i criteri
diagnostici dei cinque Disturbi Dissociativi evidenziandone i cambiamenti rispetto alle varie
edizioni del DSM, con un breve accenno all’ ICD-10. E’interessante notare che l’introduzione
dei Disturbi Dissociativi nel DSM III segna la “scomparsa” del concetto di isteria: si dice che i
Disturbi Dissociativi contengano l’aspetto “mentale” dell’isteria, i Disturbi Somatoformi e da
Conversione quello “corporeo” e che il Disturbo di Personalità Istrionico contenga la struttura
carattereologica di base dell’isterico (Lingiardi, 2001). In questo capitolo viene inoltre valutata la
comorbilità dei Disturbi Dissociativi soprattutto con i disturbi d’ansia, i disturbi alimentari e con
il Disturbo Borderline di Personalità.
Il Capitolo Cinque si concentra sull’eziologia della dissociazione. Il trauma viene considerato
come causa principale della dissociazione della coscienza, che rappresenta un tentativo di difesa
estremo verso esperienze soverchianti e troppo dolorose per essere mentalizzate. Tra i vari tipi di
trauma, viene preso in considerazione soprattutto l’abuso infantile: sappiamo infatti che oltre il
novanta per cento dei pazienti con Disturbo Dissociativo d’Identità (DID) ha subito un abuso
nell’infanzia. Verrà quindi esaminato il concetto attuale di trauma, le sue implicazioni
psicologiche, psicofisiologiche e psicobiologiche, soffermandoci in maniera approfondita sugli
effetti che l’abuso infantile ha sulla memoria, la cognizione e comportamento, senza tralasciare il
ruolo svolto dall’ambiente familiare. Il quadro eziologico sarà inoltre integrato con i risultati
delle ricerche sull’attaccamento disorganizzato, frutto del lavoro di molti studiosi tra cui
soprattutto Giovanni Liotti (1992-2001); e con il modello di dissociazione degli stati
comportamentali separati di F.W. Putnam (2001). Liotti propone l’esistenza di un grave trauma
cronico che agisce su un attaccamento disorganizzato e può essere inteso come precursore dei
disturbi dissociativi. Putnam sostiene che i disturbi dissociativi siano il risultato del fallimento
nella sintesi degli stati di coscienza separati che tutti i bambini sperimentano.
Il Capitolo Sei riguarda la descrizione degli strumenti che utilizzati per valutare la
dissociazione ai vari livelli di gravità e per fare diagnosi. Gli strumenti più utilizzati sono la DES
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(Dissociative Experiences Scale) di Bernstein e Putnam e la SCID-D (Structured Clinical
Interview Schedale for DSM-IV Dissociative Disorders) di M. Steinberg.
Il Settimo Capitolo presenta alcuni dei principi terapeutici del lavoro con pazienti che
soffrono di Disturbi Dissociativi e che sono stati spesso vittime di traumi e abusi. Oltre alle
prospettive terapeutiche suggerite dagli autori più trattati in questa sede (Liotti e Steinberg)
proponiamo altri modelli di trattamento: la terapia cognitiva, la psicoterapia psicodinamica, la
terapia ipnotica, il memory processing e l’arte-terapia.
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RINGRAZIAMENTI
Considero questo lavoro il prodotto ultimo di un percorso fatto non solo di esami e lezioni, ma
anche di convivenze, viaggi in treno, solitudini, passeggiate alla scoperta di Roma e tanto altro
ancora; voglio perciò ringraziare coloro che ho sentito più vicini durante questi cinque anni.
Grazie ai miei genitori, per avermi sostenuta in ogni scelta.
Grazie a Sara, maestra di lentezza, per aver ammorbidito il mio spigoloso senso di disciplina e
per avermi aiutato ad assaporare il gusto di ogni gesto.
Grazie agli alberi del Tondo per avermi spesso accolta ed ascoltata.
Grazie a mia nonna, che mi ha mostrato come trovare l’alba dentro ad ogni imbrunire.
Grazie agli amici del Monte, soprattutto a Babi, per le chiacchiere ed il calore.
Grazie a Cosimo, per la sua vivace, ironica, affettuosa ed insostituibile presenza di questi mesi e
in particolar modo, grazie, per il viaggio che faremo.
Per la stesura della tesi ringrazio, oltre al Prof. Lingiardi, Renzo Butazzi, Elisa Mozzini, Cosimo
Calamini, Cesiano Del Maso e Azzo Canapini.
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I
ORIGINE E STORIA DEL CONCETTO DI
DISSOCIAZIONE
1. La psicopatologia della dissociazione nel XIX° secolo
La maggior parte degli accademici fa risalire la storia della dissociazione ai medici francesi
Jean Martin Charcot (1887) e Pierre Janet (1889). Charcot, il primo professore di neurologia
all’Università di Parigi, è noto non solo per gli studi sull’isteria, ma anche per aver riaffermato
l’ipnosi come oggetto di legittima ricerca scientifica. Janet, un filosofo oltreché un medico, è
stato fortemente influenzato da Charcot. In aggiunta ai suoi pazienti, Janet esaminò anche un
certo numero di casi seguiti da Charcot alla Salpêtrière. Tra questi pazienti famosi, ricordiamo
Achilles, Irène, Isabelle, Justine, Leonie, Lucie, Madame D, Madeline, Marcellene, Marie e
Meb. Dallo studio di questi casi, Janet elaborò le sue teorie e tecniche di trattamento per i
pazienti con sintomi di amnesia, fuga, conversione (sintomi neurologici in assenza di disfunzioni
organiche) e “esistenze successive” (la definizione di Janet degli stati alternanti di personalità).
Janet postulò che tali sintomi fossero causati da eventi traumatici o spaventosi, che provocano
reminiscenze traumatiche e scissioni della personalità (“idee fisse subconsce”). Secondo Janet, il
paziente poteva essere curato portando queste idee fisse alla coscienza attraverso le tracce,
spesso di natura simbolica, fornite dai suoi sintomi, sogni o associazioni. Janet riteneva, inoltre,
che fosse possibile rimuovere queste idee fisse attraverso l’ipnosi, la rieducazione,
l’elettrostimolazione o il massaggio. Dobbiamo a Janet anche il termine di “disaggregazione”,
formulato nel 1889, e tradotto da Williams James, l’anno successivo con “dissociazione”.
L’opera di Janet in cui compare la teoria sulla disaggregazione è “L’automatismo psicologico”,
che si presenta come una grande sintesi le cui fonti teoriche basilari sono il magnetismo animale
con la scoperta del sonnanbulismo artificiale e la teorizzazione di Moreau de Tours degli effetti
dissociativi dell’haschisch. Janet è debitore dell’idea della dissociazione a Moreau de Tours che,
dopo aver descritto la modificazione dello stato ordinario di coscienza sotto l’effetto di
haschisch, cerca una parola nuova per
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designare con esattezza questo stato, insieme semplice e complesso, di
indefinitezza, d’incertezza, d’oscillazione e di mobilità delle idee, che si traduce in
una profonda incoerenza…è una disaggregazione, una vera dissoluzione di quel
composto intellettuale che chiamiamo facoltà morali: poiché in questo stato s’avverte
che nello spirito succede qualcosa di analogo a ciò che avviene quando un corpo
qualunque subisce l’azione dissolvente di un altro corpo. Il risultato nell’ordine
spirituale e in quello materiale è lo stesso: la separazione, l’isolamento delle idee e
delle molecole la cui unione formava un tutto armonico e completo. (Lapassade, 1996)
Oltre a Moreau (de Tours) Janet deve le sue teorie a Mesmer a ai suoi “successi terapeutici”
mediante magnetismo animale che conduce a trance convulsiva, indispensabile per la guarigione
del paziente malato. Grazie alle tecniche mesmeriane poi, Puysègur scopre la dissociazione
sonnambulica: magnetizzando i pazienti,essi cadono “nello stato di sonnambulismo più perfetto,
senza convulsioni né dolori” che porta alla guarigione. Si potrebbe dire, che queste due fonti di
Janet (Moreau e Mesmer) erano a loro volta eredi di due grandi tipi di trance tradizionali
conosciute dall’ Occidente cristiano nel corso della sua storia: la trance di tipo sciamanico, da
una parte, il cui tragico sbocco è stato il sabba delle streghe; e la trance di possessione
demoniaca, sfociate “laicizzandosi”, proprio nel magnetismo animale e nella scoperta, dovuta a
Puysègur, della possibilità di produrre volontariamente, almeno con certi soggetti, lo stato
dissociativo designato dalla nozione di sonnanbulismo artificiale (Lapassade, 1996). Janet inoltre
ha beneficiato di altre scoperte del suo tempo concernenti l’isteria, le fughe, le amnesie, gli
sdoppiamenti di personalità; ed è nel punto di confluenza di tutti questi apporti teorici e clinici
che egli ha prodotto la nozione di disaggregazione.
1.1 La désagregation
Pierre Janet utilizzò il termine “dissociazione” (désagregation) per indicare quel fenomeno
mentale tanto comune, quanto perfettamente fisiologico, in base al quale siamo in grado di fare
contemporaneamente due cose: mentre guidiamo l’automobile possiamo contemporaneamente
conversare con un passeggero, per esempio, e il pilota automatico ci conduce a destinazione
senza che dobbiamo prestargli attenzione. Janet riteneva questa possibilità della nostra mente, il
nucleo fondamentale della trance e oggi, dopo più di un secolo sono molti a condividere questa
idea (Janet, 1889). In neuropsicologia, per esempio sono stati assolutamente fondamentali gli
studi sui differenti ruoli funzionali dei due emisferi cerebrali che indicherebbero che la coscienza
della veglia è in realtà, costituita da due coscienze coesistenti e cooperanti, anche se una, la
coscienza dell’emisfero sinistro, ha un ruolo dominante. Non si tratta quindi di utilizzare la
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trance come paradigma per cercare di decifrare la coscienza sofferente, ma per capire quella
fisiologica , come aveva ben capito Janet. Nella trance si avrebbe la sospensione del meccanismo
di dominanza e l’operatività contemporanea delle coscienze dell’emisfero destro e sinistro,
quella della veglia e quella del sogno, una condizione del tutto fisiologica e naturale, che altro
non può essere descritta che col termine proposto da Janet, “dissociazione” in contrapposizione
al suo contrario, “associazione”, che invece potrebbe essere proposto per descrivere il lavoro di
collaborazione cha caratterizza la coscienza ordinaria con il meccanismo di dominanza in piena
attività. Lo stato di coscienza della veglia viene considerato lo stato di riferimento e da questo
aumentando o diminuendo la mole d’informazioni sensoriali che vengono immesse nel sistema
nervoso centrale, oppure aumentando la velocità di elaborazione si possono provocare dei
cambiamenti dello stato di coscienza. Provocano viaggi verso la dissociazione e l’estasi le danze
tribali, che sovraccaricano il cervello con intense stimolazioni uditive e cenestesiche, le danze
intorno dei dervisci, che sovraccaricano i labirinti, le pratiche delle baccanti, che all’uso del vino
aggiungevano quello dei tamburi e delle danze sfrenate e così via. Il sovraccarico sensoriale
provocherebbe il blocco del cervello e creerebbe uno stato di coscienza simile alla catatonia, ciò
si accompagnerebbe alla chiusura dei contatti sensoriali con la realtà esterna: il cervello si isola
in sé stesso, diventa sordo, cieco, insensibile al tatto e perde gusto e olfatto. E’ la condizione
dell’estasi, uno stato nel quale il programma operativo è quello della veglia, ma le informazioni
che vengono elaborate sono del tutto allucinatorie perché non provengono più dall’esterno ma
nascono direttamente dall’interno del sistema nervoso centrale stesso. La dissociazione, quindi è
il risultato dell’eccessivo stress e alcuni individui si mostravano più suscettibili di altri a tale
fenomeno mentale. Secondo Janet, lo scopo principale dell’attività mentale è l’adattamento
all’ambiente piuttosto che la difesa da impulsi interni inaccettabili. L’adattamento all’ambiente si
raggiunge attraverso la "sintesi personale" delle strutture di significato. La sintesi personale di
significati generalizzati, al suo più alto livello, implica il senso del Sé. La dissociazione, secondo
la formulazione originale di Janet del concetto, è il fallimento della sintesi personale, causata non
solo dal trauma psicologico, ma anche da altre condizioni (ad esempio: emozioni violente,
variabili di temperamento, malattie debilitanti). Anche quando i processi dissociativi sono messi
in moto dal trauma - come spesso accade quando la dissociazione raggiunge proporzioni
patologiche - non sono una difesa attiva della mente dalle conseguenze psicologiche dell’evento
traumatico, ma piuttosto proprio essi stessi le vere conseguenze (Liotti, 2001). Un aspetto delle
conseguenze psicologiche del trauma è il crollo dei processi mentali adattivi che portano al
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mantenimento di un senso di Sé integrato. Un altro aspetto correlato è che la memoria
dell’evento traumatico assume uno status subconscio, non come risultato di un meccanismo di
difesa (come ha postulato la teoria di Freud), ma perché non raggiunge mai una piena
rappresentazione nella coscienza. Il divenire pienamente cosciente di un avvenimento è sinonimo
dell’essere in grado di "raccontare la storia" di quell’avvenimento. Raccontare la storia di un
avvenimento in modo coerente corrisponde al maggiore successo possibile di sintesi personale,
che è esattamente il meccanismo con il quale il trauma interferisce. Sotto questo aspetto, il punto
di vista di Janet sul livello di coscienza più elevato possibile (fonction du réel) sembra in accordo
con la recente teoria della coscienza formulata da Edelman (1989), secondo la quale un più
elevato livello di coscienza implica l’integrazione, mediata dal linguaggio, di ricordi del sé
sociale e del non sé sociale (Liotti, 2001).
Tra il 1890 e il 1910 il trauma e la dissociazione furono i temi portanti delle ricerche in
psicologia e in psichiatra in tutto il mondo. In “Studi sull’isteria” Freud e Breuer presentarono
trattamenti terapeutici basati sul modello trauma (sessuale)- dissociazione contribuendo alla
costruzione del paradigma della trance (con gli “Studi sull’isteria” nel 1985 e l’anno successivo,
con la prima eziologia dell’isteria), (Ross, 1996). Successivamente, nello spazio di qualche
mese, tutto cambiò, il mutamento investì l’insieme delle componenti del paradigma pre-
freudiano: gli stati ipnoidi, la “doppia coscienza”, la pratica dell’ipnosi, il trauma sessuale
infantile. Freud imboccò una strada del tutto diversa e produsse, rompendo radicalmente col
paradigma della trance e della dissociazione, il paradigma della psicoanalisi. La dissociazione
interna alla coscienza, che produce una trance e anche una forma di oblio eliminabile con
l’ipnosi, venne sostituita con la rimozione che costituisce un inconscio e un oblio che non può
essere superato se non con un lavoro d’interpretazione. Siamo a cavallo del secolo, agli albori
della psicoanalisi, che decretano il tramonto del paradigma della trance e l’eclisse momentanea
del concetto di dissociazione, eclisse che si può attribuire alla doppia egemonia, esercitata in
quel momento, dal behaviorismo e dalla psicoanalisi (Ross, 1996). Insieme al concetto di
dissociazione viene abbandonato anche il concetto di trauma psichico, entrambi verranno poi
ripresi in considerazione soprattutto in seguito alla guerra in Vietnam (Bonomi, 2001).
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2. Il declino dell’interesse verso la dissociazione (1910- 1970)
Il crollo dell’interesse verso la dissociazione sopraggiunse per diversi motivi. Prima di tutto
Freud abbandonò la teoria della seduzione e il trattamento ipnotico, e passò dal modello del
trauma reale, che includeva il concetto di dissociazione, a quello del trauma fantasticato che
contemplava un nuovo concetto: quello di rimozione. Dopo gli scritti iniziali dove, la
dissociazione aveva un ruolo rilevante, Freud focalizzò la sua attenzione sulla dinamica conscio-
inconscio, respingendo l’idea dell’esistenza dei diversi centri della coscienza: la scissione della
coscienza era per lui meglio comprensibile come alternanza dei sistemi psichici fondamentali.
Freud sosteneva che fosse la pre-esistente psicologia di una persona a determinare i sintomi post-
traumatici:
sembra altamente improbabile che insorga una nevrosi a causa di un oggettivo
danno (trauma), senza la partecipazione dei livelli più profondi dell’apparato psichico.
(Freud, 1915)
Con questa frase Freud intendeva sottolineare l’influenza delle esperienze infantili nella
fenomenologia della dissociazione. Per Freud l’ereditarietà e la quantità (consistenza e
ripetitività) degli eventi traumatici non erano sufficienti a spiegare la bizzarria dei sintomi che
aveva potuto riscontrare in sede di analisi. Mentre Freud voleva conoscere i dettagli delle
esperienze formative (sviluppo) e il loro significato per un determinato individuo; Janet guardava
semplicemente le conseguenze di eventi soverchianti su individui geneticamente predisposti
(Ross, 1996).
2.1 Il dibattito tra Freud e Janet
Il dibattito tra Freud e Janet continua a ripresentarsi ancora adesso, perché i neo-janettiani
tendono a parlare di “storia perduta”, nel senso che non c’è un semplice dimenticare quando si
subisce un trauma, ma c’è un rinchiudere in una scatola di memorie implicite del trauma e farle
alloggiare, non nella coscienza, ma nel corpo come identificazioni alternative di sé (come vittime
passive o aggressori attivi). Mentre i neo-freudiani enfatizzano l’influenza della psicologia della
persona nei traumi irrisolti (Siegel, 2003). Un particolare modello trifasico spiega la l’operazione
centrale nel momento del trauma: un meccanismo di difesa agisce contro una fantasia sottostante
alla realtà del trauma. E’ stato sostenuto che la concezione di Janet dell’attività mentale è basata,
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come metafora radicale, sulla seconda legge della termodinamica, mentre il punto di vista
freudiano è basato sulla prima legge (Liotti, 2001). Secondo Freud, il lavoro mentale conscio è
basato su una specifica energia mentale, che, se non scaricata in una azione regolata
coscientemente, può rimanere segregata nel sistema inconscio. Se l’energia mentale destinata a
un ricordo represso in maniera difensiva viene allontanata dal sistema conscio, non può essere
scaricata e deve essere trasformata in una parte inconscia di lavoro mentale, per esempio
trasformata in un sintomo di conversione o in un sogno (di qui, la analogia metaforica con la
prima legge della termodinamica, che afferma la conservazione e la trasformazione dell’energia).
Per Janet, invece, il lavoro della mente è (come la vita stessa) una forma di entropia negativa, un
tentativo di creare ordine e significato in opposizione alle tendenze entropiche dei flussi di
informazione molteplice e caotica che continuamente colpiscono gli organi sensoriali (Liotti,
2001). Il fallimento di questo lavoro mentale conscio di formazione di significato, di estrazione
di ordine e unità dall’informazione caotica e varia, lascia qualsiasi tipo di informazione che
sfugga alla sintesi personale (come l’informazione traumatica) nello stato disordinato
dell’elaborazione subconscia. L’enfasi che Janet e Freud hanno posto su queste differenti
metafore radicali del lavoro della mente - la prima e la seconda legge della termodinamica -
potrebbe ritrovarsi alla base di una difficoltà che ancora si trovano di fronte gli studiosi di
dissociazione. Da un lato, il concetto di Janet di dissociazione come crollo basilare, di fronte ad
avvenimenti traumatici, delle funzioni integrative e significanti di coscienza e memoria è di
grande interesse clinico. Dall’altro lato, è difficile ricondurre le idee base di Janet a una relazione
con le tre questioni che, da Freud in poi, sono indispensabili ad ogni approccio dinamico
moderno alla psicopatologia, ma che non hanno interessato molto il grande psicopatologo
francese: lo sviluppo della personalità sin dai primi periodi della vita, le influenze interpersonali,
e le dinamiche spesso inconsce dei processi motivazionali. Secondo Kluft sia la rimozione che
la dissociazione sono meccanismi di difesa in cui i contenuti della mente sono banditi dalla
consapevolezza: nel caso della rimozione si crea una barriera orizzontale e il materiale è
trasferito al livello dell’inconscio dinamico, mentre nel caso della dissociazione si crea una
scissione verticale cosicché i contenuti mentali esistono in una serie di coscienze parallele.
Inoltre la rimozione è stata considerata come una risposta a desideri proibiti (trauma
fantasticato), mentre la dissociazione è stata collegata al trauma reale. Freud, come è noto,
sosteneva la sua teoria basandosi principalmente su due ordini di osservazione: il primo
consisteva nella netta distinzione che i pazienti mostravano tra gli stati di coscienza vigile e
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quelli di trance indotta dalla ipnosi, che lui assimilava poi a quelli dello stato onirico. Il secondo
ordine di osservazione, connesso con il primo, era rappresentato dalla continuità presente tra i
due diversi stati e dalla loro incomunicabilità. Quando si trovavano in stato di veglia i pazienti
ricordavano perfettamente quello che era accaduto nello stato vigile precedente, mentre erano
completamente dimentichi dello stato ipnotico. Viceversa, quando erano di nuovo in trance si
riconnettevano facilmente con lo stato ipnotico precedente ma restando estranei a ciò che era
successo durante la veglia. Da queste considerazioni Freud deduceva che tra conscio e inconscio
esistesse un netto divario e per questo pensava a una barriera che aveva lo scopo di
salvaguardare la coscienza dai contenuti inconsci, da lui definiti regressivi in quanto, essendo da
lui assimilati ad un pensiero onirico, esprimevano un funzionamento mentale più primitivo.
Breuer sosteneva invece, che esistesse una condizione “seconde” poiché pensava che
l’esperienza traumatica fosse tenuta in vita non tanto da uno stanziamento nell’inconscio dovuto
all’inammissibilità della coscienza, quanto piuttosto da uno stato di autoipnosi (Bordi, 1998).
Freud non credeva all’esistenza di una isteria autoipnotica perché era convinto, a torto, che la
seduzione infantile non fosse di per sé traumatica e che il suo potere patogeno fosse legato al
sovrapporsi dei desideri sessuali puberali al ricordo dell’esperienza infantile: era allora che, per i
sentimenti di colpa e di vergogna che si venivano a suscitare, si metteva in moto il meccanismo
di rimozione. Tale concezione freudiana considera il conscio e l’inconscio come differenti
potenziali dai quali scaturisce l’energia delle pulsioni ; teorizzazione che oggi è stata
ampiamente superata alla luce dei nuovi concetti mutuati dalla filosofia della mente che
sostengono l’esistenza di un continuum che opera un’ incessante integrazione che coinvolge vari
stati di coscienza (Bordi, 1998).
2.2 Schizofrenia e dissociazione
Un’altra ragione dell’improvviso disinteresse verso i fenomeni dissociativi patologici fu la
creazione da parte di Bleuer dell’entità diagnostica “schizofrenia”nella quale inglobava una vasta
serie di psicopatologie gravi, compresa l’isteria accompagnata da fenomeni dissociativi (Ross,
1996). Bleuer diffuse nella psichiatria continentale, tranne quella francese, la convinzione che
questi fenomeni fossero di pertinenza della grande psichiatria, come si diceva allora e che non
dovessero perciò interessare tutti coloro che, come gli psicoanalisti, si dedicavano
all’osservazione delle neurosi e dei disturbi della piccola psichiatria (Bordi, 1998). Rosenbaum
nel 1980 affermava che molti pazienti con MPD (personalità multipla) furono diagnosticati
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come schizofrenici, anche perché molti psichiatri ritenevano che l'MPD fosse un “artefatto” della
suggestione ipnotica e quindi che non avesse validità diagnostica (c.f.r. p.11 e 61). In più è
evidente che il concetto di “dissociazione” che oggi sta alla base della categoria diagnostica dei
disturbi dissociativi nel DSM-IV veniva spesso confuso con il concetto di dissociazione ideativa
o ideo-affettiva con cui vengono identificati tradizionalmente alcuni disturbi dello spettro
schizofrenico (Liotti, 1993). Il concetto di dissociazione che sta alla base della categoria
diagnostica dei disturbi dissociativi (dal DSM-III in poi) è diverso dal concetto di dissociazione
ideativa o ideo-affettiva con cui vengono identificati tradizionalmente alcuni disturbi dello
spettro schizofrenico. In Europa, il concetto di dissociazione nasce da quello tedesco di
Spaltung- scissione (ad opera di Bleuler) mentre negli Stati Uniti è rimasto ancorato a quello
janetiano di “disaggregazione”: il primo, per evidenziare la frattura dei nessi associativi del
pensiero operante nella schizofrenia, il secondo, per sottolineare la frammentazione dello stato di
coscienza; il primo verrà, fin dalla sua nascita, considerato come un sintomo primario (quindi di
natura sconosciuta), mentre il secondo sarà considerato, da Freud in poi, di natura psicogenetica
(Coons, 1998). Nel Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID) possono presentarsi sintomi simil-
schizofrenici, che sono riconducibili ad attività mentali di un alter colte sporadicamente dalla
personalità primaria del paziente e come tali riferite al clinico- ad esempio con affermazioni
come “sento una voce che mi parla nella testa”, dove la voce può essere ricondotta ai pensieri
dell’alter. Si tratta di sintomi che fanno pensare ad esperienze allucinatorie o deliranti, ma che
non si accompagnano al grave isolamento sociale e all’impoverimento affettivo che
caratterizzano le varie sindromi schizofreniche, né si articolano nei complessi sistemi deliranti
tipici delle sindromi paranoicali (Liotti, 1993).