Il mio intento è quello di consentire al lettore di ripercorrere le complesse e
mutevoli ideologie, le motivazioni, gli atteggiamenti estetici e i gusti che hanno
accompagnato – nonché alimentato – il rinomato fenomeno del Grand Tour
lungo il corso di oltre due secoli.
Il “viaggio” inteso come spostamento nello spazio, come visita e conoscenza
dei luoghi, con l’individuazione delle soste rituali nelle città più famose,
costituisce ulteriore argomento di tale relazione.
Attualmente il viaggio turistico tende a rappresentare, non più un rischio e
un’avventura, bensì una normale manifestazione dell’agire sociale, una
modalità di espressione dei bisogni dell’uomo e dà origine a una serie di
iniziative, di contatti e attività. Con tale consapevolezza, non credo di
commettere errore nel ritenere che, nella stragrande maggioranza dei casi il
viaggio oggigiorno viene concepito come un celere spostamento da un luogo
all’altro del pianeta; viceversa, un tempo esso era un’esperienza che esigeva
una paziente preparazione e grandi abilità organizzative.
La buona riuscita di un viaggio di mesi – se non di anni come il Grand Tour –
dipendeva infatti dai ritrovati della tecnica e dall’ausilio delle arti minori.
Carrozzieri, ebanisti, fabbri, sellai, tappezzieri sono alcuni degli artigiani
impegnati a costruire veicoli agili e resistenti e a realizzare nécessaires de
voyage atti a rendere meno disagevole lo sconnesso procedere per le strade
d’Europa.
È dunque all’aspetto materiale del viaggio che ho voluto dedicare parte di
questo elaborato, per poi trattare gli aspetti più economici del Grand Tour nella
sua sezione finale.
Viaggiare, ieri come oggi, significa imbattersi in realtà diverse, inusuali, spesso
sconosciute. Il viaggio ha dato e dà l’opportunità di confrontare la nostra civiltà
con quella degli altri, contribuendo così a farci conoscere meglio i nostri
comportamenti o valori.
Interessante mi è sembrato dunque, un confronto tra il viaggio di ieri con quello
di oggi, per sottolineare analogie e discordanze. A tale argomento ho pertanto
dedicato le ultime pagine del mio scritto.
In definitiva, il Grand Tour con “le sue pene e le sue delizie” è una metafora del
viaggio della vita, considerato da civiltà diverse come quella britannica, quella
germanica o quella fiamminga come un’arte, un’attività da praticare con
dedizione in ogni sua parte.
“Non sono stato
spinto soltanto dal
desiderio di una vita
errabonda, bensì dalla
brama di far
conoscenza di altre
lingue e di altre razze;
di ammirare le
meraviglie dell’arte
classica e di quella
medievale;
di osservare paesaggi
famosi e di cogliere
l’aura magica delle
grandi associazioni
storiche;
per farla breve, per
procurarmi
un’educazione più
completa e più varia
di quella che il mio
stato e le circostanze
della vita mi
avrebbero permesso di
ottenere in patria”.
Bayard Taylor
1
CAPITOLO 1
LA TRADIZIONE DEL GRAND TOUR
1. La nascita del Grand Tour
1.1 Il viaggio in Italia prima del Grand Tour
Il viaggio in Italia ha radici lontanissime. Dal Medioevo, epoca cui l’itinerare fu
estremamente congeniale, le strade d’Italia sono state battute da tanti pellegrini,
poi da mercanti, da artisti, predicatori, studiosi, oltre che da banditi, nullafacenti
e avventurieri, di cui sempre lo spazio è teatro. Il viaggio a Roma, in particolare,
anche quando vennero meno i dominanti caratteri penitenziali, restò una tappa
fondamentale nella vita di molti nuovi viaggiatori, divenendo occasione
mondana e, nel corso del XV secolo, viaggio laico ed erudito. A Roma si
affiancarono presto città nuove: Milano, Venezia, Firenze, Bologna.
Altre componenti vennero messe in evidenza sul versante culturale, della
curiosità intellettuale e su quello psicologico. Ma, assorti nei libri devozionali o
di conto, i viaggiatori spesso guardavano a stento ciò che li circondava e, se lo
facevano, davano alla loro testimonianza un carattere pragmatico (un libro di
conti, per esempio, che ci informa sulle merci e sui prezzi in vigore) o parziale
(una raccolta di mirabilia, per esempio, da cui l’uomo medievale era incline a
vedersi circondato): il dato numerico dei viaggiatori non corrisponde ad analogo
dato informativo (anche senza voler badare ai pregi letterari delle relazioni).
Le lontane radici del viaggio in Italia, dunque, non hanno sempre prodotto la
letteratura ragguardevole che i secoli XVII e XVIII avrebbero prodotto, e questo
è il primo vistoso elemento che fa riflettere su un fenomeno, che ebbe, a quella
altezza cronologica, le proporzioni di una vera e propria moda.
1.2 Una nuova idea di viaggio
Fu quello infatti un momento in cui, nella storia della mentalità collettiva, il
viaggio acquistò valore per le sue intrinseche proprietà. Indipendente dalla
2
soddisfazione di questo o quel bisogno, si propose esso stesso come unico e
solo fine, in nome di una curiosità fattasi più audace, in nome del sapere e della
conoscenza da un lato e del piacere dell’evasione, del puro divertimento
dall’altro. Questa idea innovativa cominciò a diffondersi in Europa sul finire del
XVI secolo e si incarnò nella voga del “viaggio in Italia” il quale dunque, pur
praticato da molti secoli, si configura come istituzione solo alla fine del secolo
successivo, quando diventa la tappa privilegiata di un “giro” che i giovani
rampolli della aristocrazia europea, gli artisti, gli uomini di cultura, cominciano a
intraprendere con regolarità. Il “giro” presto diventa una moda e ad esso è
assegnata una sua dicitura internazionale: il Grand Tour.
1.3 Il significato del termine Grand Tour
Con questo nome si indicò il viaggio di istruzione, intrapreso dai rampolli delle
case aristocratiche di tutta Europa, che aveva come fine la formazione del
giovane gentiluomo attraverso il salutare esercizio del confronto.
Si pensava che tramite l’esperienza del “grande giro” il giovane acquisisse
quelle doti di intraprendenza, coraggio, attitudine al comando, capacità di rapide
decisioni, conoscenza di costumi, maniere, galatei, lingue straniere; doti e
conoscenze necessarie ai membri di una nuova classe dirigente, sia nel campo
dell’amministrazione pubblica che nell’espletamento delle libere professioni, e ai
rampolli di un’aristocrazia impegnata in una oculata e moderna amministrazione
dei propri patrimoni. «È dovere di ogni cittadino verso il proprio paese osservare
le forme di governo in vigore negli altri stati e di adottare nel proprio quella
basata sulla saggezza e l’autentico senso politico», esordisce Thomas
Robinson alla Camera dei Comuni nel 1734, «Dobbiamo considerare con
estrema cautela la fisionomia della nostra costituzione, poiché quello che può
essere un articolo necessario in uno stato, può rivelarsi deleterio in un altro»1.
Statisticamente la nazione che forniva il maggior numero di affezionati del tour
era la Gran Bretagna.
1
Attilio Brilli, “Quando viaggiare era un’arte. Il romanzo del Grand Tour”, Cap.I
3
Il termine tour, che soppianta quello di travel o journey o voyage, chiarisce
come la moda di questo viaggio si specifichi in un “giro” – particolarmente lungo
e ampio e senza soluzione di continuità, con partenza e arrivo nello stesso
luogo – che può attraversare anche i paesi continentali ma ha come traguardo
prediletto e irrinunciabile l’Italia. Non più l’Italia degli itinerari medievali, certo,
ma l’Italia delle cento città la cui fitta trama urbana diventa la meta prediletta di
un nuovo pellegrinaggio.
2. I luoghi del Grand Tour
2.1 L’amore per l’Italia
Il termine “Grand Tour” compare nel lessico della letteratura di viaggio col
volume di Richard Lassels, An Italian Voyage, or Compleat Journey through
Italy del 1670, sebbene la parola dovesse essere in uso da diverso tempo.
L’espressione “Grand Tour” fu infatti usata per la prima volta per il viaggio in
Francia intrapreso da Lord Granborne nel 1636.
La fortuna del termine divenne tale che sulla sua falsariga si coniò il neologismo
Petit Tour, per indicare di quel “giro” la versione ridotta e scorciata di alcune
tappe. Il Grand Tour prevedeva, secondo i casi, un lungo soggiorno a Parigi o in
un’altra città della Francia, continuava in Italia, toccando Genova, Milano,
Venezia, Firenze e Roma e si concludeva con la visita della Svizzera, della
Germania e dei Paesi Bassi, essendo il resto dell’Europa considerato ancora
incivile.
Se nel Cinquecento le statistiche assegnavano alla Francia il maggior numero
di mesi di residenza (diciotto, contro i nove/dieci dell’Italia), l’Italia del Seicento
le sottrae il primato, mantenendolo ininterrottamente. La visita della nostra
penisola era infatti la vera ragione del viaggio intrapreso dai grandtourists.
Le maggiori città italiane che si prospettavano come l’obiettivo culminante del
viaggio, costituivano – come è stato efficacemente notato – “la grande officina
di una rivoluzione aristocratica di assoluto rilievo internazionale”.
4
Giovanni Paolo Panini, Piazza San Pietro. Roma, Circolo della caccia.
G. Paolo Panini, Passaggio delle carrozze in Piazza Navona allagata. Roma.
Hannover, Niedersachsisches Landesmuseum, Landesgalerie.
5
Il mito dell’Italia era ciò che i primi viaggiatori andavano a riverire, il mito di un
museo all’aperto dove la quantità esorbitante delle opere d’arte, l’articolazione
della vita politica, il clima radioso e solare così straordinario per i continentali
che vivevano spesso sotto cieli di piombo, le vestigia del più autorevole passato
del mondo con la ricchezza dei suoi siti archeologici, il lascito ancora palpitante
del Rinascimento, raccolto nelle biblioteche e vivo nei monumenti dell’arte, la
straordinaria vena musicale che fa del teatro italiano, a lungo, il teatro tout
court, erano richiami potentissimi e inattaccabili. L’Italia reale non era forse più
così splendida, ma lo era stata, e ancora ne recava le tracce.
Per uno straniero infatti l’Italia era soprattutto una metaforica e, pur operante,
concettualizzazione ideale. Nella mentalità di un europeo, e pur con tutte le
profonde differenze che si possono riscontrare nelle culture agenti nel vecchio
continente, l’Italia dell’evo moderno appariva come unità spirituale cui guardare,
come traguardo da raggiungere e da conoscere, come fonte a cui attingere.
È nello specchio del Grand Tour che l’Italia assume coscienza di sé: e alla
formazione di tale coscienza il contributo maggiore lo portano proprio i
viaggiatori stranieri attraverso la loro diretta esperienza, così come si evince
dalle fonti letterarie, dai diari di viaggio, dalle guide pratiche, fino alle ponderose
opere erudite sulla storia del paese.
Parallelamente si afferma il genere del vedutismo d’interesse topografico:
disegni, dipinti, incisioni, ecc. fissano le immagini stereotipe di ogni città, le loro
reliquie e monumenti, gli ambienti paesistici di maggiore fortuna. Attraverso tali
mezzi di diffusione e con i ritmi propri del tempo, si forma così un modo di
guardare e di pensare al paese Italia. Fonti letterarie e documenti iconografici si
integrano a vicenda e sono agenti essenziali della formazione di una mentalità
collettiva. È come un puzzle che si viene montando nel corso di almeno tre
secoli e alla cui fine sortirà il paese Italia nelle forme che noi oggi conosciamo.
Tra il Seicento e l’Ottocento, questo quadro si va componendo con una
consequenzialità che è sincronica alle vicende storiche non solo della penisola,
ma che è funzione soprattutto delle motivazioni ideali che muovono i viaggiatori
stranieri prima verso alcune regioni poi verso altre, che inducono a privilegiare
alcune città piuttosto che altre.