5
create attraverso una diversificata serie di contratti ha sinora impedito di poter trovare una definizione
univoca del termine stesso
5
.
Al di là di questi rilievi, che per molti versi rendono il simbolico riferimento al concetto di entropia ancora
più evidente, l’aspetto cardinale dell’attività delle multinazionali è, senza dubbio, quello di travalicare i
confini statali, portando a contatto comunità ed orizzonti valoriali, culturali ed economici tra loro molto
diversi; spesso secondo lo schema rappresentato dalla diade multinazionale “madre” - avente il proprio
centro operativo in un Paese Occidentale – e comunità di un Paese in via di sviluppo.
Sebbene questa semplificazione possa risultare poco rispondente alla realtà almeno per quegli ambiti
produttivi la cui attività è imperniata sulla mobilità degli input e sulla ricerca di vantaggi competitivi, essa
risulta invece assai calzante per un settore in particolare: quello estrattivo, nel quale le imprese detengono un
controllo limitato rispetto alla localizzazione delle proprie attività, essendo vincolate dalla distribuzione
geologica e geografica delle risorse.
Proprio a causa di ciò, il confronto ed il rapporto con gli stakeholders locali
6
diventa non tanto un connotato
occasionale e marginale nella conduzione delle attività economiche, quanto una caratteristica costitutiva
delle stesse.
Il peso ed il significato di questa presenza emerge ancora più chiaramente se si considera che la maggior
parte delle ricchezze minerarie ed energetiche mondiali è detenuta da Paesi del Sud del mondo o in via di
sviluppo, per i quali, come dimostrato da numerosi studi al riguardo, tale dotazione pare essere cronicamente
accompagnata da una profonda instabilità politica ed istituzionale e da un miserrimo livello di vita
7
.
In particolare, la coesistenza di alcuni fattori, tra cui la fragilità politica di questi apparati, la scarsa
legittimità dei governi, la complessità dei rapporti esistenti tra l’élite etnica e/o politica dominante ed il resto
della popolazione, rende questi Paesi particolarmente inclini a divenire teatro di abusi di diritti umani. Questi
ultimi difficilmente risultano catalogabili entro un prototipo universalmente valido, dato l’elevato grado di
variabilità, tanto per quanto concerne la natura delle violazioni – essendo incluse violazioni di diritti
economici, sociali e culturali, ma anche di diritti civili e politici sino a quella gamma di diritti riconosciuti
come fondamentali dalla comunità internazionale – quanto per la gravità delle stesse, la cui entità può variare
da sporadica sino a massiccia e sistematica.
Analizzare le complesse dinamiche tanto di questi processi economici quanto di questi sistemi politici è, di
certo, al di là della portata di questo lavoro, il cui scopo fondamentale è invece concentrarsi su un altro
aspetto: la cornice che con brevi tratti si è cercato sinora di delineare suggerisce un interrogativo cruciale
circa quale possa essere il ruolo delle multinazionali in un simile contesto.
5
MUCHLINKSI P. (1995), Multinationals enterprises and the law, Basil Blackwell, Oxford
6
Con tale vocabolo si intende ricollegarsi alla stakeholders theory, oggetto negli ultimi anni di un florido e sfaccettato
dibattito teorico, tra cui si veda J. PLENDER (1997), A stake in the future, Nicholas Brealy Publish, London.
In particolare gli stakeholders sarebbero tutti i soggetti in qualche modo portatori di interesse, con un’accezione non
limitata né temporalmente (includendo anche le future generazioni) né alla sola comunità umana (includendo anche
l’ambiente e l’ecosistema).
7
ECON, CENTRE FOR ECONOMIC ANALYSIS and FRIDJOF NANSEN INSTITUTE (2000) “Petro States- predatory or
developmental?”, ECON- Report, n. 62, nel quale emerge come l’indice di sviluppo umano dei Paesi produttori di
petrolio sia crollato contestualmente alla crescita delle esportazioni e delle vendite dell’”oro nero”.
6
Prima di poter affrontare tale questione, due riflessioni appaiono necessarie al fine di delimitare in modo più
chiaro i confini ed il contenuto del nostro oggetto di ricerca.
La prima concerne in maniera più puntuale il tipo di legame che si viene ad instaurare tra le multinazionali,
in modo particolare quelle del settore estrattivo - che costituiranno il focus privilegiato della nostra
attenzione- e gli stakeholders locali. Al di là delle caratteristiche contingenti che tale legame può assumere,
in virtù di una molteplicità di fattori che sarebbe pretenzioso ed inopportuno pensare di poter compendiare in
questa sede, il profilo centrale è rappresentato dalle enormi potenzialità di natura economica, tecnologica,
logistica ed in termini di lobbying politico possedute dalle multinazionali. Esse hanno modo di rivelare la
propria incidenza in maniera massiccia rispetto alla vita ed alle attività delle comunità locali - spesso
popolazioni indigene o gruppi minoritari - ed in modo cospicuo nei confronti dei governi locali, assai
propensi ad attirare capitali ed investimenti esteri.
L’interazione che si viene a creare mostra alcuni tratti comuni: il governo centrale concede alle compagnie
occidentali i permessi per eseguire le operazioni di prospezione ed estrazione, fornendo delle irrisorie - se
non nulle - compensazioni ai gruppi/popolazioni indigene residenti nelle zone interessate, le compagnie
iniziano le proprie operazioni puntando a massimizzare i profitti raggiungibili e senza preoccuparsi di
eventuali ricadute ed effetti delle proprie operazioni, le comunità locali sono in modo più o meno massiccio
interessate da cambiamenti - nella maggior parte dei casi negativi - e la mancanza di interesse tanto da parte
del governo quanto delle imprese, provoca una crescente tensione sociale. Come è stato sottolineato da
alcuni studiosi, ciò che si viene a creare è in sostanza una divergenza negli obiettivi e nelle reciproche
percezioni degli attori in gioco: da un lato, le imprese, una volta ottenuta la formale concessione governativa,
conducono le loro operazioni nella convinzione di aver espletato ogni dovere verso lo Stato ospite e di
essere, in virtù di ciò, pienamente autorizzate a perseguire esclusivamente incrementi della bottom-line,
dall’altro le comunità - i cui mezzi di sostentamento risultano spesso decurtati dalle attività delle MNCs-
individuano come responsabili di tali effetti il governo centrale e, soprattutto, le imprese con cui entrano
strettamente in contatto
8
.
In un simile scenario il rischio che si inneschino attriti di varia natura appare considerevole, tanto da indurre
a chiedersi quali conseguenze possano esservi per le imprese e per i loro principali interessi.
Una risposta può essere rintracciata nella ormai estremamente nutrita aneddotica riguardo fenomeni di
sabotaggio, danneggiamento o vera e propria distruzione degli impianti e delle strutture delle imprese, per
non dimenticare i numerosissimi casi di rapimenti e sequestri a danno del personale impiegato in loco.
Un esempio paradigmatico è rappresentato dall’escalation delle tensioni registrate sin dall’inizio degli anni
Novanta nel delta del Niger, dove fenomeni sporadici di sabotaggio hanno lasciato il posto ad una pratica
ramificata di bunkeraggio illegale, che nel 2004 è costata la perdita di 200mila barili di greggio alle
compagnie quali Shell o Chevron ivi operanti; analogamente manifestazioni violente si sono avute ai danni
8
MACDONALD G. E MCLAUGHLIN T. (2003), “Extracting conflict” R. SULLIVAN (a cura di), Business and human
rights: dilemmas and solutions, Greenleaf Publishing Limited, London
7
degli impianti della maggiore compagnia operante in Indonesia, ossia Freeport McMoRan Copper & Gold
Inc., o ancora in Bolivia, nel caso implicante la Vista Gold Corporation
9
.
Appare evidente, dunque, come problemi che nascono con una connotazione prettamente sociale e
relazionale, siano forieri di conseguenze che impattano direttamente - ed in modo non certo trascurabile -
sugli interessi della compagnia, ed in modo particolare sul profitto economico di questa.
Tale constatazione non è di secondaria importanza e, a ben vedere, costituisce il primo tassello fondamentale
della nostra domanda: esiste un motivo di carattere economico in virtù del quale le imprese dovrebbero
inglobare nella propria strategia operativa in contesti di weak governance valutazioni legate alle potenziali
violazioni dei diritti delle comunità con le quali interagiscono? In altri termini ci si può chiedere se, da un
punto di vista economico, esista - e quale peso abbia - la necessità di acquisire quella che viene ormai
denominata come “social license to operate”
10
.
Sebbene una risposta positiva a tale domanda possa essere suggerita da quanto sinora illustrato, al fine di
comprendere effettivamente la portata degli interessi economici implicati, come anticipato, una seconda
riflessione appare a questo punto imprescindibile.
Il processo di globalizzazione, cui sinora abbiamo guardato in termini economici, ha, chiaramente,
influenzato una molteplicità di altri aspetti; particolarmente rilevante è stato l’effetto esercitato sulla nozione
di diritti umani che progressivamente è stata accettata nella sfera valoriale che, ormai, può dirsi appartenere
alla comunità internazionale.
L’idea centrale è che, al di là di ogni relativismo culturale e geografico, i diritti umani siano ormai
“universali, interdipendenti e interrelati”
11
, per cui una violazione commessa in una qualsiasi parte del globo
diventa di portata universale, costituisce un vulnus per l’intera comunità internazionale, pone, cioè, quelli che
in un noto obiter dictum della Corte Internazionale di Giustizia sono definiti “obblighi erga omnes”
12
.
Rispetto a tale contesto la domanda fondamentale è: può esistere un ruolo per le multinazionali?
Evidentemente tale quesito implica una serie di problemi di natura giuridica - che in parte si avrà modo di
approfondire nel corso della trattazione – ed in ultima analisi trovano origine nella idea che un soggetto non-
statale possa essere portatore di obblighi correlati alla protezione
13
dei diritti umani, visione, quest’ultima,
sino a pochi anni addietro certamente eterodossa rispetto alla classica dottrina della soggettività
internazionale. Il punto nodale è che la potenza stessa di tali soggetti supporta questa ipotesi, e non solo dal
punto di vista teorico: in un numero sin troppo cospicuo di casi il collegamento tra multinazionali e
violazioni di diritti umani è apparso evidente
14
.
9
HANDELSMAN S. (2003), “Mining in conflict zones”, R. SULLIVAN (a cura di), Business and human rights: dilemmas
and solutions, Greenleaf Publishing Limited, London
10
Ibidem, n. 8
11
Vienna Declaration and programme of action on Human Rights 1993
12
Vedi Barcelona Traction, Light & Power Co. (Belgium v. Spain) 1970. I.C.J,.3
13
Al fine di non indulgere in facili imprecisioni, si sottolinea come il termine “protezione” sia adottato intendendo le
quattro dimensioni classicamente individuate: respect, protect, promote, fulfil si veda JUNGK M., (2004), “Human
Rights Compliance Assessment Tool”, Danish Institute for Human Rights, Copenhagen
14
P. MUCHLINKSI (2001), “Human rights and Multinationals: is there a problem?”, International Affairs, 77, pp.31-47
8
Alla luce di quanto detto sinora, non stupisce constatare come molti dei casi che hanno, per la loro gravità,
acquistato più rilievo nella percezione collettiva, siano legati al settore estrattivo: le operazioni di Shell in
Nigeria
15
, di BP in Colombia, di Unocal e Total in Burma e numerosi altri ancora.
Come emergerà più chiaramente nel corso della trattazione, il tassello finale del quadro relazionale
precedentemente descritto, è, infatti, spesso rappresentato dalla collusione delle imprese nelle violazioni
commesse da ufficiali governativi o da organi de facto statali a danno delle comunità locali.
La necessità di proteggere i propri assets - ed in senso più ampio i propri interessi - è spesso alla base di tali
rapporti collusivi, poiché spinge le imprese a cercare il sostegno governativo attraverso la richiesta di unità
armate, creando così uno scenario nel quale il rischio di violazioni massicce cresce sensibilmente.
Proprio la frequenza e la gravità degli effetti causati da tali dinamiche ha ricevuto una forte eco nei Paesi di
provenienza delle MNCs, innescando una molteplice serie di conseguenze.
Il quadro di riferimento sin qui tratteggiato si inserisce, infatti, nel più ampio contesto del dibattito sulla
responsabilità sociale d’impresa.
All’interno di questo mare magnum di istanze l’aspetto che più rileva sottolineare ai fini del nostro tema è il
moltiplicarsi di una serie di mezzi per rendere effettivamente compliant le imprese. Se da un lato tale
complesso sistema vede ancora al centro forme di self-regulations quali i codici di condotta, dall’altro esso
ha progressivamente incorporato una serie di strumenti addizionali.
Tra questi possono essere annoverati risoluzioni minoritarie di azionisti, stock exchange e pratiche
innovative potenzialmente estremamente efficaci, tra cui il selective public procurement
16
o le safeguards
policies recentemente introdotte dall’International Financial Corporation come requisito per accesso al
credito
17
o ancora le human rights policies adottate da alcuni fondi di investimento nazionali, i quali, come
ad esempio quello svedese solo pochi mesi addietro, hanno ritirato le proprie cospicue quote azionarie da
compagnie considerate non socialmente responsabili
18
.
Appare evidente come questo insieme di strumenti abbia la possibilità di influire in maniera considerevole
sulle azioni e sulle strategie delle imprese poiché effettivamente incidono sulla bottom-line di queste ed, in
alcuni casi, determinano la stessa praticabilità di ingenti progetti di investimento.
Sebbene una trattazione approfondita del tema richieda un’analisi di ognuno di questi aspetti, la nostra
attenzione sarà focalizzata su uno strumento in particolare sinora non menzionato: la foreign direct liability.
15
HUMAN RIGHTS WATCH, (1995) “Nigeria, the Ogoni crisis: a case study of military repression in South-East Nigeria”,
Human Rights Watch, New York
16
Sull’incidenza di tale strumento di corporate accountability e sulla eventuale incompatibilità con le norme di diritto
internazionale del commercio si veda ZEISEL K. (2006), “The promotion of human rights by selective public
procurement under international trade law” SHUTTER O. (a cura di), Transnational Corporations and human rights,
Hurt Publishing, pp. 361-391
17
REMER T.E. (2006), “A role for the International Finance Corporation in integrating environmental and human rights
standards into Core Project Covenants: case study of the Baku-Tblisi-Ceyan oil pipeline project” SHUTTER O. (a cura
di), Transnational Corporations and human rights, Hurt Publishing, pp. 395-425
18
Si veda in particolare il caso del Fondo Pensioni Svedese, il quale ha recentemente ritirato le proprie quote di
investimento da alcune imprese considerate non responsabili, tra cui Walmart e Freeport McMoRan, per maggiori
dettagli si veda OECD, “New trends and regulatory implications in socially responsible investment for pension funds”,
Introductory Paper, OECD Roundtable on Corporate Responsibility, 19 giugno 2007
9
Questo concetto, la cui importanza appare in ascesa sin almeno dalla fine degli anni Novanta, indica in
generale la possibilità per le imprese multinazionali di essere coinvolte in processi per violazioni di diritti
umani occorse nei remoti luoghi di operazione e, dunque, lontano dal Paese di origine.
La frequenza con la quale tali processi sono stati iniziati in alcune giurisdizioni nazionali può essere intesa
come un segnale della rilevanza di questo trend, la cui specificità appare ancora più distintamente se si
considera lo stadio ancora iniziale di molte delle summenzionate strategie volte a rendere accountable le
imprese.
Le potenzialità insite in questo strumento, capaci di farne il mezzo privilegiato per esercitare un’influenza
sulle imprese, hanno condotto alla formulazione della seconda parte del nostro quesito di ricerca, che può
essere espresso nei seguenti termini: quanto è grave per un’impresa il rischio di essere implicata in un
processo per violazione di diritti umani? E conseguentemente, ha tale rischio assunto una connotazione
direttamente esprimibile in termini economici?
A questo punto il nostro oggetto di interesse risulta definito nei suoi aspetti essenziali, in modo tale che la
nostra domanda di ricerca può essere formulata nei seguenti termini: quanto la conduzione di operazioni
economiche in zone di weak governance può essere influenzata da considerazioni legate al rischio di
coinvolgimento in violazioni di diritti umani? Esiste un incentivo economico affinché una corporation
sviluppi uno human rights management system?
Come facilmente intuibile attraverso la presente introduzione, un’analisi che aspiri a fornire una risposta
completa a tale domanda dovrebbe indagare in maniera più puntuale il primo degli aspetti messi in luce,
ossia il rischio direttamente collegato a fenomeni più o meno gravi di sabotaggio; nondimeno data
l’ampiezza necessariamente circoscritta del presente lavoro, l’attenzione sarà prevalentemente concentrata
sulle implicazioni della foreign direct liability, che sarà trattata nel corso della prima sezione dell’elaborato.
Saranno analizzati i motivi per i quali tale inquadramento è stato scelto come punto di vista privilegiato,
mettendone dunque in luce i caratteri salienti, i limiti e soprattutto gli sviluppi ad esso connessi e le
conseguenze per le imprese.
I risultati di questa parte della ricerca saranno propedeutici alla seconda fase di analisi, nella quale ci si
chiederà in che modo possa effettivamente essere implementata una efficace human rights policy, che
fornisca alla corporation i mezzi necessari a prevenire ed evitare i rischi legati ad eventuali coinvolgimenti
in violazioni di diritti umani.
Come già accennato, il perno della nostra esposizione sarà costituito dalle multinazionali del settore
estrattivo, che - per le già sottolineate peculiarità - sono state il soggetto passivo di un numero cospicuo dei
ricorsi legali e, soprattutto, per prime hanno dovuto adottare sistemi di gestione del rischio, alcuni dei quali
saranno specificamente analizzati durante la nostra indagine.
10
SEZIONE PRIMA
Nel corso degli ultimi anni, le pressioni esercitate da cospicue porzioni dell’opinione pubblica mondiale -
soprattutto occidentale- e canalizzate in azioni più o meno efficaci da una fitta rete di organizzazioni non
governative, hanno progressivamente contribuito a far emergere il problema della responsabilità delle
multinazionali come issue ineludibile dell’agenda politica mondiale.
Sebbene la posizione privilegiata assunta da tale argomento in numerosi fora costituisca una tappa
importante del processo di responsabilizzazione delle imprese, per lungo tempo la mancanza di strumenti
effettivamente capaci di esercitare una qualche influenza sul comportamento delle corporations ha
rappresentato una considerevole lacuna, che solo in parte strumenti quali boicottaggi e campagne di
sensibilizzazione condotte delle ONG sono riusciti a colmare
19
.
Un importante punto di svolta è stato l’ingresso di tale istanza nel contesto delle Nazioni Unite, prima
tramite l’iniziativa del Global Compact e, successivamente, attraverso l’opera di codificazione condotta
all’interno della Sotto-Comissione per la Protezione e la Promozione dei diritti umani
20
.
L’idea che le multinazionali possano essere portatrici di responsabilità legate alla difesa dei diritti umani ha
assunto maggiore legittimità, innescando -tanto a livello di singoli governi quanto in ambito
intergovernativo- un processo volto alla definizione di modalità per rendere effettivamente accountable tali
soggetti.
Nel corso della precedente introduzione, si è già avuto modo di citare alcuni tra questi strumenti; la presente
sezione sarà specificamente dedicata all’analisi di uno tra questi: la foreign direct liability.
Prima di analizzare gli aspetti sostanziali di tale istanza, appare necessaria una precisazione di carattere
metodologico.
A ben vedere, molte delle pratiche recentemente adottate tanto da organizzazioni internazionali quanto da
governi nazionali
21
presentano le potenzialità per influire sulle scelte e le decisioni organizzative delle
imprese in relazione a violazioni di diritti umani, pertanto la decisione di indirizzare l’analisi esclusivamente
verso la foreign liability necessita una più articolata motivazione.
19
In particolare una recente inchiesta condotta da Simon Zadek mostra come le quotazioni borsistiche delle imprese
colpite dai più gravi boicottaggi occorsi durante la seconda metà degli anni Novanta non abbiano risentito in maniera
forte di tali eventi. ZADEK S. e FORSTATER M., (1999), “Making Civil Regulation Work”, Addo M. (a cura di ), Human
Rights Standard and the responsibilities of Transnational Corporations, Kluwer, London
20
Il risultato di tale opera di codificazione sono state le “Norms on the responsibility of Transnational Corporations
and other Business Entities with regard to human rights” adottate dalla Sotto-Comissione con la ris. 2003/16 il 13
agosto 2003 v. UN Doc. E/CN.4/2004/2, E/CN.4/Sub.2/2003/43
21
Il riferimento è, per quanto riguarda l’ambito internazionale, alle già citate safeguards policies adottate dall’IFC e
dalla MIGA, quanto invece all’ambito nazionale si annoverano in particolare alcune selective public procurement
policies, adottate con una certa frequenza soprattutto dagli U.S.A. e alle recenti politiche assunte da alcuni fondi
nazionali di investimento; un’ulteriore tendenza che si intende mettere in luce in questa sede è legata al tentativo di
adottare specifiche legislazioni nazionali al riguardo, si veda in particolare in Australia il Corporate Code of Conduct
Bill, il quale, però non ha passato l’esame del Senato federale.
11
Accanto al vincolo imposto dalla portata del presente lavoro, tre ordini di ragioni concorrono a fondare tale
scelta.
In primo luogo la foreign direct liability presenta caratteristiche peculiari che contribuiscono a distinguerla
da altri mezzi di corporate accountability.
I più diffusi tra questi strumenti - dai codici di condotta sino ai requisiti di compliance dei fondi di
investimento o delle istituzioni finanziarie internazionali- presentano almeno una, se non entrambe, delle
seguenti caratteristiche: volontarietà ergo non obbligatorietà degli impegni assunti e limitate possibilità di
condurre follow-up rispetto ai principi di comportamento accolti.
Ambedue gli aspetti sono stati alla base delle critiche mosse dai più diversi attori internazionali
22
; la foreign
direct liability è invece uno strumento che si pone in una prospettiva completamente diversa, tale da superare
i suddetti limiti.
Quanto al piano della volontarietà, infatti, appare evidente come l’instaurazione di processi davanti a corti
nazionali necessiti l’esistenza di norme vincolanti, le quali costituiscono il presupposto ed i parametri
indefettibili del giudizio stesso. In questo senso, l’aspetto centrale della direct liability sarebbe quello di
costituire ad un primo livello di analisi una forma di controllo da parte degli Stati nazionali rispetto alle
attività delle proprie imprese operanti all’estero - spesso attraverso affiliate locali - e su un piano più ampio
una modalità di regolazione del processo di globalizzazione; come chiaramente colto da Alina Ward la
foreign direct liability rappresenta in ultima analisi “the flip side of foreign direct investment…it
complements campaigners’calls for minimum standards for multinational corporations by testing the
boundaries of existing legal principles, rather then by calling for new regulations”
23
.
Quanto, invece, all’aspetto del follow-up, i pregi di questo strumento emergono forse ancora più
chiaramente. L’oggetto di un processo giudiziario è, infatti, rappresentato dalle condotte effettive dei soggetti
coinvolti, dal ruolo e dal comportamento assunti rispetto agli eventi considerati e non dagli impegni che per
ragioni più o meno circostanziate ed attraverso formule più o meno strettamente vincolanti le imprese
decidono di adottare. Il rischio che l’impresa abbia assunto impegni di responsabilità sociale in modo
meramente propagandistico viene dunque a perdere consistenza alla radice, poiché sono le azioni compiute
ad essere sottoposte al giudizio delle corti.
Un ulteriore aspetto che può essere messo in luce a questo proposito riguarda la maggiore legittimità e
trasparenza garantita da un processo giudiziario rispetto ad altri sistemi di corporate accountability.
Sebbene, come emergerà nel corso dei successivi capitoli, il rischio di creare attriti nella gestione della
politica estera del Paese del forum possa costituire un risvolto di considerevole importanza dei processi di
foreign liability, le proporzioni che tale rischio può assumere in conseguenza all’utilizzo di strumenti
alternativi risultano certamente maggiori.
22
In questo senso si intendano non solo gli attivisti appartenenti alla società civile, ma anche alcune personalità
governative. Risulta a questo proposito interessante citare il caso dell’ambasciatore Statunitense in Svezia, il quale
commentando pubblicamente la decisione del fondo pensionistico nazionale di ritirare i propri investimenti da due
compagnie statunitensi –Freeport e Walmart- ha espressamente lamentato la mancanza di trasparenza nella decisione,
mettendo in luce la presunta arbitrarietà della stessa, non essendo fondata su requisiti legali veri e propri.
23
WARD A. (2001), “Securing transnational corporate accountability through national courts: implication and policy
option.”, Hastings International and Comparative Law Review, n. 24, pp.451-467