Introduzione
particolare, il Western italiano, che verrà definito, almeno inizialmente in modo dispregiativo,
Spaghetti-Western, otterrà successi enormi in tutta Europa e in America, finendo per influenzare
anche molti registi d’oltre oceano
2
. Successi tanto più inspiegabili se si tiene conto che il
gradimento dimostrato dal pubblico europeo, almeno apparentemente, non poteva dipendere dal
ritrovamento di elementi della propria storia e della propria cultura. Cosa può legare infatti il
gruppo sociale degli spettatori italiani degli anni Sessanta alle classiche storie di cowboys, di
cacciatori di taglie, di risse da saloon, ambientate per le strade polverose di cittadine
“dimenticate da Dio e dagli uomini”, perse in qualche deserto americano o al confine tra Stati
Uniti e Messico? Se l’importanza del Western per gli Americani è dettata da un certo
rispecchiamento storico-culturale nelle ambientazioni e nei temi trattati, perché ad un certo
punto anche l’Italia dell’epoca, molto distante dalla tradizione storica statunitense, si ritrova
invasa da un’enorme quantità di pellicole ambientate nel vecchio West? E, inoltre, com’è
possibile che esse abbiano ottenuto quasi tutte un notevole successo di pubblico senza per altro
aver avuto alle spalle produzioni altisonanti in grado di assicurare loro un cospicuo battage
pubblicitario?
Andando ad analizzare le differenze, sia tematiche sia linguistiche, tra lo Spaghetti-
Western e il Western classico, si possono notare alcuni dettagli che, se osservati nella giusta
prospettiva, finiscono per diventare davvero illuminanti. Inquadrature, storie e personaggi che,
rispetto alla tradizione hollywoodiana, vengono introdotti, soppressi, modificati, amplificati o
ridimensionati, operando uno stravolgimento alla base degli stilemi tipici del genere. A ben
vedere, le novità introdotte finiscono per dirci molte cose di quella società che a metà degli anni
Sessanta stava per entrare in un decennio bollente, tra efferate lotte politiche, rivolte
studentesche e devastanti azioni terroristiche.
2
Ad esempio SAM PECKINPAH avrebbe affermato “Senza Sergio Leone io non sarei esistito!”, citato
nell’intervista a Sergio Leone in MASSIMO MOSCATI, Western all’italiana, Milano, Pan Editrice,
1978.
4
Il cinema e la mentalità collettiva
Capitolo I
Il cinema e la mentalità collettiva
Prima di addentrarsi nello specifico, si rende necessario fare alcuni cenni all’evoluzione
attraverso la quale lo studio dei rapporti tra cinema e storia è transitato nel corso del Ventesimo
Secolo. In particolare, è interessante osservarne lo sviluppo in relazione agli approcci critici che
hanno preso come oggetto di analisi il film in quanto potenziale documento di testimonianza
storica. Secondo gli autori di questi studi, dato un gruppo sociale inserito in uno specifico
contesto geografico e temporale, il testo cinematografico sarebbe in grado di riportarne alla luce
i tratti distintivi della mentalità. Da questi lavori, incentrati soprattutto sulle modalità con cui le
relazioni tra immagini e ideologie collettive si creano e si trasformano nel tempo, è scaturito un
interessante dibattito tra posizioni a volte anche decisamente contrastanti.
Un libro che ne ripercorre la storia in modo sufficientemente puntuale, e ne correda le
varie fasi con lucidi approfondimenti critici, è senza dubbio Scene dal passato di Peppino
Ortoleva
3
. Un viaggio teorico che parte addirittura dai lavori di Matuszewski realizzati a cavallo
tra l’Ottocento e il Novecento
4
per finire agli autori più recenti come, tra gli altri, Ferro e Sorlin;
un percorso che mette in evidenza il mutamento di posizione intervenuto col passaggio dei
decenni all’interno del pensiero dominante. Se inizialmente prevaleva l’attenzione verso la
capacità del cinema di registrare il reale, documentandolo con «sorprendente fedeltà, ma anche
in modo parzialmente preterintenzionale»
5
, sottolineando in questo modo una certa oggettività
della macchina da presa in contrapposizione alla soggettività dell’operatore, col passare del
tempo ci si è sempre più concentrati sugli elementi inconsapevoli, «i sogni, le fantasticherie, la
proiezione non del corpo ma della psiche, più o meno cosciente, della società»
6
, che
permetterebbero di comprendere meglio la mentalità, le convenzioni e le mitologie collettive
7
.
A parte i citati lavori pionieristici di Matuszewski, interessanti considerazioni
sull’argomento sono rintracciabili già intorno agli anni Venti. Colpiti soprattutto dalla forza e
dalla velocità con cui il mezzo cinematografico si era imposto all’attenzione del grande
pubblico diventando in pochi anni un fenomeno di massa, i critici più attenti dimostrarono già
3
PEPPINO ORTOLEVA, Scene dal passato: cinema e storia, Torino, Loescher, 1991.
4
Cfr. Ivi, p. 1.
5
Ivi, p. 2.
6
Ivi, pp. 6-7.
7
Cfr. Ibidem.
5
Il cinema e la mentalità collettiva
allora di non poter rimanere indifferenti alla sua capacità di parlare del proprio tempo, di
raccontarne i pensieri e le ideologie e di coglierne le emozioni. Francesco Casetti, nel suo
saggio Lo sguardo di un’epoca
8
, compie un interessante, seppur essenziale, excursus tra alcuni
studi del decennio da cui emerge a chiare lettere la solida consapevolezza dello stretto legame
tra il cinema e la mentalità collettiva del proprio pubblico specifico. In particolare vengono
citati i lavori di Béla Balázs, Jean Epstein, Sebastiano A. Luciani e Abel Gance
9
che pongono
l’accento sull’aspetto prettamente visivo del cinema, caratteristica che sembra conferirgli
potenzialità pedagogiche
10
nel suo divenire strumento col quale osservare il mondo in modo
scevro da pregiudizi. Casetti approfondisce questi studi e trae alcune interessanti conclusioni,
legate proprio alla sostanza principale del mezzo cinematografico, ossia l’immagine. L’autore
afferma che il cinema «sa perfettamente incarnare lo sguardo del XX secolo»
11
perché «la
macchina da presa scandaglia ciò che ha di fronte con lo stesso atteggiamento con cui milioni di
uomini si guardano attorno»
12
, diventando così paradigma dell’occhio umano, ovviamente
contestualizzato sia dal punto di vista spaziale, sia da quello temporale. Di conseguenza
l’obiettivo della cinepresa diventa testimone del mondo coevo, poiché «sullo schermo, prima
ancora di vedere la realtà di nuovo e in modo nuovo, vediamo la realtà nello spirito del
tempo»
13
. E’ proprio da quest’ultimo concetto che si ricava un’importante considerazione: le
immagini cinematografiche sanno raccontarci moltissimo dell’epoca in cui vengono girate ma
questo avviene non tanto con una registrazione in senso naturalistico del reale, quanto con una
costante re-interpretazione di esso attuata attraverso il filtro della sensibilità dei soggetti
coinvolti nella “comunicazione” cinematografica (intesa ovviamente in tutte le sue fasi, dalla
produzione alla fruizione) che insieme contribuiranno alla definizione dei tratti della mentalità
dominante contemporanea.
Questo fa sì che una seconda considerazione si imponga nel discorso: non è tanto il
contenuto dell’immagine in sé e per sé a costituire oggetto interessante di analisi, quanto
l’interpretazione della realtà di cui essa si fa portatrice. L’effetto è che ad essere eloquenti non
saranno solamente i film di attualità o le pellicole di stampo documentaristico, per le quali il
legame tra il proprio oggetto e il mondo reale diventa quasi scontato, ma anche i film di
finzione. Anzi, questi ultimi, pur lontanissimi da una rappresentazione mimetica della realtà,
8
Cfr. FRANCESCO CASETTI, Lo sguardo di un’epoca, in GIAIME ALONGE, GIULIA CARLUCCIO,
FEDERICA VILLA (A cura di), Dossier Cinema e storia, pp. 41-65, collegato al semestrale di cinema e
audiovisivi La Valle dell’Eden, anno VI, nn. 12-13, luglio-dicembre 2004, Carocci editore.
9
Per maggiori dettagli Cfr. le note segnalate in Ivi, pp. 40-41.
10
Ivi, p. 41. Casetti afferma che “il cinema ci insegna (corsivo mio) a guardare il mondo come non
riuscivamo più”.
11
Ivi, p. 42.
12
Ibidem.
13
Ibidem.
6
Il cinema e la mentalità collettiva
sembrano essere quelli che maggiormente possono aderire al sostrato culturale del pubblico,
palesandone spontaneamente pulsioni nascoste e pensieri reconditi.
A questo proposito diventano particolarmente attinenti gli studi di altri due autori citati
da Casetti, che tra l’altro sembrano addirittura anticipare alcuni dei leit-motiv dei critici
cinematografici più recenti. Il primo è il saggio Le piccole commesse vanno al cinema di
Siegfried Kracauer in cui l’autore sostiene che siano i film meno verosimili a mostrare «”come
la società ama vedersi”»
14
. Questo perché la via attraverso la quale il cinema sa essere specchio
della realtà sua contemporanea non passa tanto per la riproduzione nuda e cruda di fatti, persone
e luoghi del proprio tempo, ma costeggia l’immaginario collettivo tramite la rappresentazione
del mito e della ritualità, con l’utilizzo di simboli e metafore che vanno ben al di là di ogni
qualsivoglia raffigurazione naturalistica del mondo
15
. Il secondo è uno studio di Louis Delluc,
citando il quale Casetti paragona la popolarità del cinema a quello della tragedia greca,
affermando che tanto in uno quanto nell’altra «vengono messi in campo gesti ed immagini che
un intero popolo può considerare come propri
16
». Un po’ come dire che oggi siamo in grado di
comprendere una civiltà del passato, poco importa che si tratti dei Greci del V secolo a.C. o
degli Americani all’epoca del New Deal, attraverso l’analisi delle forme di rappresentazione con
cui essa ha raccontato i propri miti e i propri rituali, perché quelle forme costituiscono la lingua
madre con cui da sempre i significati vengono veicolati all’interno delle varie comunità. Per
essere ancora più precisi, si potrebbe dire che la larga e profonda adesione con cui il cinema si è
affermato affonda le proprie radici nel concetto di “universalità”: universalità di linguaggio, in
quanto il cinema parla una lingua comprensibile da una vasta maggioranza; universalità di
valori, in quanto vengono messi in atto quelli che la sociologia della comunicazione definisce
“universali culturali”, ossia valori ampiamente condivisi; universalità di partecipazione, definita
dalla fruizione collettiva
17
.
E’ chiaro dunque che, già negli anni Venti, pur avendo appena raggiunto o superato il
terzo decennio di vita, il cinema riusciva a suscitare l’interesse dei critici per le sue capacità di
rispecchiare il sottobosco culturale della propria epoca, specie negli aspetti meno
immediatamente percepibili. Come dice Gianni Rondolino, il film «ci mostra una sorta di
spaccato della società, anche quando apparentemente è lontanissimo dall’attualità dei fatti
18
».
14
Ivi, p. 43.
15
Cfr. Ivi, p. 53.
16
Ibidem.
17
Cfr. LOUIS DELLUC, Le cinéma, art populaire?, ora in Ecrits cinématographiques, II, 2, Le cinéma
au quotidien, Cinémathèque Française – Cahiers du Cinéma, Paris, 1990.
18
GIANNI RONDOLINO, Cinema e storia: un’introduzione, in GIAIME ALONGE, GIULIA
CARLUCCIO, FEDERICA VILLA (A cura di), Dossier Cinema e storia, pp. 15-16, collegato al
semestrale di cinema e audiovisivi La Valle dell’Eden, anno VI, nn. 12-13, luglio-dicembre 2004, Carocci
editore.
7
Il cinema e la mentalità collettiva
Ciò che ci viene trasmesso dal cinema infatti sono le idee e i miti, gli usi e i costumi, le
convenzioni e le ideologie dominanti
19
. Mi preme sottolineare però che questi elementi vengono
posti in risalto non tanto attraverso esplicite prese di posizione politico-ideologiche o
metalinguistiche da parte di autore o produttore, quanto con più o meno inconsce scelte
linguistiche o diegetiche che implicitamente si fanno portatrici di una particolare visione della
realtà rappresentata, sia essa strettamente collegata con l’attualità, sia essa parte di
un’invenzione artistica. E più certi elementi compaiono in modo ricorrente e insistito all’interno
del singolo film, o in un corpus di pellicole della medesima epoca, più potranno costituire validi
indizi della griglia interpretativa che funge da interfaccia per la comunicazione tra gli artefici e i
fruitori.
Uno dei primi autori
20
ad accorgersi di questi meccanismi è il già citato Siegfried
Kracauer. Nel suo libro Da Caligari a Hitler, realizzato sul finire degli anni Quaranta, il
sociologo analizza le relazioni tra la cinematografia tedesca degli anni dell’ascesa nazista e la
mentalità (Kracauer la definisce “psicologia”) collettiva della sua nazione nella medesima
epoca. Attraverso l’utilizzo di un metodo piuttosto originale, per altro non esente da critiche,
Kracauer sostiene che dalla ripetitività posta in essere dai film di determinati motivi figurativi o
narrativi emergerebbero disposizioni psicologiche collettive, definite come proiezioni esterne di
esigenze interiori. In particolare, essendo il cinema un prodotto che si rivolge alla massa, se esso
diventa effettivamente popolare, e di conseguenza lo diventano anche i temi cinematografici che
lo costituiscono, è perché esso riesce in qualche modo a soddisfare effettivi desideri di massa
21
.
Malgrado le affermazioni di Kracauer siano state oggetto di numerose revisioni critiche
che ne hanno messo in luce i limiti, esistono alcuni elementi che ancora oggi le rendono
decisamente originali. In particolare, come è stato evidenziato in più punti anche
nell’introduzione che Leonardo Quaresima ha scritto per l’edizione citata di Da Caligari a
Hitler, decisamente innovativa per l’epoca sarebbe stata l’applicazione di un cosiddetto
«modello iconologico»
22
. Kracauer avrebbe notato che «il collegamento di un film a una delle
situazioni storiche o tendenze sociali o condizioni psicologiche è sempre motivato (oltre che da
occorrenze tematiche) attraverso la presenza e la significatività di precise forme, figurazioni
visive»
23
. L’apporto più importante del volume di Kracauer è dunque l’allargamento
19
Cfr. Ibidem.
20
A proposito, Peppino Ortoleva cita anche il lavoro di Roger Caillois dal titolo La rappresentazione
della morte nel cinema americano, cfr. PEPPINO ORTOLEVA, Scene dal passato, Torino, Loescher,
1991, p. 25.
21
Cfr. SIEGFRIED KRACAUER, Da Caligari a Hitler, Una storia psicologica del cinema tedesco, tr.
it., Torino, Lindau, 2001, pp. 51-53.
22
LEONARDO QUARESIMA, Rileggere Kracauer, introduzione all’edizione citata nella nota
precedente di Da Caligari a Hitler, p. 25.
23
Ibidem.
8