3
paese fino ad allora adagiato in una morfologia socio economica frammentaria,contraddittoria e per
quanto riguarda vaste aree geografiche,presenti per lo più nel sud d’Italia, di impronta ancora
fondamentalmente agricola o pre-industriale. I paesaggi urbani finiranno col trasformarsi in maniera
radicale, ritagliando la natura in segmenti artificiali e cementificati,creando quartieri dormitorio,
autostrade in grado di collegare le estremità geografiche della nazione,svuotando le campagne di
forza lavoro che si riverserà nelle fabbriche investendo il modo di vivere dell’uomo qualunque di
una sfera di attività e di consumi fino ad allora pressochè sconosciuti. Nuove comunicazioni di
massa e nuovi consumi di massa subiranno in quegli anni, un parallelo incremento reciproco che
rivelerà un sottoinsieme di intersezione nella diffusione pubblicitaria del prodotto su larga scala,
nello svilupparsi di una relazione fra immagine massificata e popolare e diversificazione produttiva.
Si assiste all’acquisizione di uno status symbol che avviene attraverso il possesso di beni di non
immediata necessità,accompagnata dal disgregarsi e ricomporsi secondo nuove formule delle
abitudini sociali e delle modalità di fruizione dell’oggetto,anche di quelle che interessano più da
vicino la sfera dell’arte e quella del cinema in particolare.
Il cinema italiano in quegli stessi anni sta vivendo la parte finale di una crescita
esponenziale,straordinaria per efficacia produttiva e floridità economica e che,faticosamente avviata
alla fine degli anni quaranta,portò ad un afflusso di spettatori nelle sale fino ad allora sconosciuto e
destinato a rimanere ineguagliato.
È un cinema che propone, accanto al superamento degli schemi del neorealismo,siamo essi verso
l’alto con le esperienze di autori in qualche modo aperti o influenzati dall’esempio delle Nouvelle(s)
Vague(s) europee (pensiamo agli esordi di Bertolucci o Pasolini) o verso il basso con le propaggini
del “Neorealismo rosa” destinate a sfociare nella Commedia all’italiana, anche un progressivo
intensificarsi di una produzione che fa riferimento ai generi classici allora in auge nel cinema
internazionale. Un filone che va inteso come una vasta rete sotterranea che si dipana attraverso fili
comunicanti e intrecciati fra loro fin dalla comparsa dei turgidi melodrammi avventurosi di un Freda
o di un Cottafavi nella prima metà degli anni 50,per poi distinguersi e diversificarsi nei primi anni
sessanta toccando territori narrativamente inesplorati seppure derivativi da modelli anglo-
americani:l’horror,il western,il “peplum” o mitologico,la fantascienza e più tardi anche il thriller e il
poliziesco. Si trattava quasi sempre di film a basso budget,girati e distribuiti secondo una logica di
“exploitation” garante del massimo ricavo attraverso la minima spesa e rivolti ad un pubblico
ingenuo ed entusiasta,il pubblico delle sale di periferia confortato dalle nuove certezze economiche e
materiali acquisite e la cui fiducia nel progresso tecnologico non sembrava inaridire il desiderio di
vedere rappresentate credenze ataviche e brividi irrazionalistici attraverso lineari narrazioni
d’evasione fantastica o d’avventura. Il vaglio della critica era spesso spietato e irrevocabile,una
gamma di giudizi ristretta nei limiti dell’indifferenza o della stroncatura accompagnata dal sussiego
dovuto a una malintesa padronanza del concetto di cinema d’autore.
Nell’ampio contesto che ho appena descritto si inseriscono i due principali soggetti sui quali verterà
il mio tentativo di analisi critica. Il primo è l’opera cinematografica di Mario Bava, che nasce
operatore e direttore della fotografia in un arco di produzioni che copre in qualità e quantità tutte le
tipologie riconoscibili nel cinema italiano dell’epoca e che sarà regista di genere o per meglio dire di
generi,visto che durante la sua carriera ne sperimenterà continuamente di nuovi e diversi; il secondo
è un fenomeno artistico e teorico che in quegli stessi anni si sta diffondendo in Europa,seppure in
maniera ancora larvata e sotterranea,dopo essersi formato e affermato negli USA:la Pop Art. Questo
movimento compie un suo primo ingresso in Italia nel 1964,con la presentazione,a dire il vero
ancora marginale,di opere e artisti nel padiglione americano alla Biennale di Venezia di quello stesso
anno e con la finale assegnazione del premio come miglior artista straniero a Rauschemberg.
La Pop Art,come punta “filosoficamente” più avanzata dell’intero e comprensivo territorio della Neo
Avanguardia in una società che ha elaborato forme di rappresentazione dei prodotti di consumo
mediate dall ‘uso delle tecniche di riproduzione,fotografica o cinematografica,giunge a sancire una
sorta di patto di conciliazione fra il processo di modernizzazione in atto e la rappresentazione del
4
ruolo che le arti visive vengono ad assumere al suo interno,rilevando un rapporto fra fruitore ed
oggetto fino ad allora sconosciuto,almeno come evidenza artistica.
Una consapevolezza che si esprime attraverso un apparente ripristino delle regole di
rappresentazione della realtà secondo convenzioni classiche,classicità intesa come conservazione di
una prospettiva che consente all’opera di collocarsi in un punto focale d’equilibrio fra il contenuto e
la forma: l’oggetto assume un valore artistico sia nel suo essere sintomo rivelatore di un processo di
mercificazione in atto in ambito sociale, sia per le modalità riproduttive con cui viene
meccanicamente ripreso,ammirato e decontestualizzato dall’opera dell’artista Pop.
Avviene dunque un processo di compensazione,meglio di riappropriazione di quella che è una
funzione semantica che l’evoluzione dei rapporti fra arte e tecnologia ha progressivamente
modificato.
Consapevole di aver perso il monopolio della produzione di un immaginario figurativo,l’artista si
prende la propria rivincita estetica immergendosi nel catalogo ormai saturo degli oggetti,culturali e
non,fabbricati in serie allo scopo di mutuarne le tecniche,di assorbirne e allo stesso tempo deriderne
l’ordine comunicativo,individuando in questo l’urgenza di rinnovamento dell’arte nei confronti della
società di massa in cui si trova ad operare.
Cosciente di tutto questo,come pochi e ben prima di molti,Mario Bava è sempre stato sostenuto nella
sua opera da un principio operativo centrale nell’accettazione dell’oggetto di consumo come oggetto
d’arte, principio che Liechtenstein ha enunciato con efficacia inarrivabile: “Art is a balance between
color and shape,everything is color and shape”,l’arte è un punto di equilibrio fra colore e forma.
Bava è autore,con una consapevolezza crescente e una corrispettiva efficacia riscontrabile
nell’evoluzione della sua cinematografia,dell’unico esempio arte Pop mai attuato in Italia attraverso
il filtro di un linguaggio tradizionale:la struttura rigida e lineare basata sull’ efficacia del conflitto
drammatico presente nel cinema di genere.
Evidenti quanto generiche analogie si possono facilmente riscontrare sia nella scelta della materia,
pop per definizione (o Pulp si direbbe oggi),derivativa di un universo basso e fortemente
stereotipato,dal romanzo gotico d’appendice,al giallo tascabile,al fumetto,sia nel trattamento cui
viene sottoposta,nell’utilizzo in chiave pittorica di un mezzo di riproduzione meccanica come il
cinema, forte di uno sguardo ironico e compiaciuto,intento a costruire elementi di grande
immediatezza espressiva e a porli nello stesso tempo in una prospettiva che non dissimula il proprio
distacco,la propria tendenza a mostrarli per quello che sono:esempi di una nuova mitologia dell’oggi
(memoria Barthesiana) ingenua e popolare. Il cinema è per Bava una sorta di guscio trasparente nel
quale ordinare,osservare e rappresentare il mondo come insieme di categorie e potenzialità
espressive,formali,coloristiche,come una realtà che si certifica nella sua assenza di autenticità più
che nella sua concreta evidenza.
Come un paesaggista catapultato nel post moderno alla disperante ricerca di una coerente
comunicabilità fra l’aspetto delle cose e la loro essenza significativa,Bava dipinge tele fotografiche
in cui la domanda di autenticità si spegne contro forme oggettuali e antropomorfiche,in cui prodotti
ed esseri umani vengono rappresentati secondo gli stessi canoni,come il risultato di un mondo
artificiale in cui l’ironia e la sottile dissacrazione corteggiano e poi abbandonano senza preavviso
ogni possibilità di immedesimazione drammatica,magari per poi tornare ad immergervisi come in un
fiammeggiante scherzo di cattivo gusto. Nel cinema pop di Bava le immagini vengono spinte alla
deriva della significazione pur restando all’interno di cornici rassicuranti e strutture lineari e
riconoscibili, giungono a descrivere una visione del nostro mondo attraverso i suoi oggetti
cinematograficamente più marginali e scarsamente immaginifici,riflettendo sulla possibilità stessa di
rappresentare il reale prescindendo dalla propria artificialità e sedimentazione in forme codificate.
Scopo di questo agile volume è di fatto analizzare gli esiti e le modalità attraverso le quali l’arte di
Bava è stata capace di unire estremi raramente conciliabili,specie nel cinema italiano,come
narrazione tradizionale e tecniche di avanguardia,cinema di genere e pittura.
5
PARTE
PRIMA
6
Apprendistato tecnico e artistico: un viaggio di sola
andata nel cinema di genere
Mario Bava nacque il 31 luglio del 1914 a San Remo. La vita del regista,in seguito romano di
adozione, intrattiene fin dai primi mesi un legame inscindibile con la topografia essenziale del
cinema italiano lungo l’arco della prima metà del novecento. San remo infatti significa vicinanza
geografica col confine francese e la Francia,cinematograficamente parlando, all’epoca significava
soprattutto Pathè, una delle più grandi e prestigiose case di produzione del cinema muto, forte di
una vasta rete di relazioni privilegiate anche con la nascente industria italiana del settore.
Mario inoltre è figlio di Eugenio,già pittore e scultore di buon nome, che in una arco di tempo
databile fra il 1905 e il 1908 (le varie testimonianze sono discordi,come vedremo, sull’esattezza
della data) inizia a lavorare nel mondo del cinema,messo sotto contratto proprio dalla Pathè con la
qualifica di scenografo.
Ma lasciamo la parola e la spiegazione allo stesso Mario Bava intervistato a tal proposito nel 1976
da Giuseppe Lippi, in occasione del Festival Internazionale del Film di Fantascienza,intervista poi
raccolta e pubblicata nel volume Fant’Italia
“Mio padre,cravatta e fiocco rivoluzionario,basco alla Raffaello,era un artista. Prototipo dell’artista
bohemien. Era pittore,scultore, fotografo chimico,elettricista,medium,inventore; perse anni a
studiare il moto perpetuo.
Verso il 1908 per una succosa storia,purtroppo troppo lunga da raccontare,conobbe il cinema. Si
“incominciò”,dette un calcio al passato e si gettò a capofitto nella Nuova Arte,diventando
“operatore” (allora non si diceva: direttore della fotografia).
Anni dopo,fra un inquadratura e un modellino, mi mise al mondo.
Sono cresciuto perciò avviluppato nella pellicola. A tre anni giocavo con pezzi di cianuro di
potassio,che mi piaceva tanto per il suo colore rosso rubino e lo alternavo in lunghe file con i grani
bianchi dell’iposolfito. A mio padre non passò mai per la testa che io potessi avvelenarmi:sapevo
che era veleno e non dovevo quindi leccarmi le dita quando lo manipolavo. Erano tempi “eroici” di
pionieri in un nuovo spazio a due dimensioni. Non esisteva la specializzazione. Il cianuro e
l’iposolfito servivano per fare i fondù chimici, e io tenevo un capo della pellicola mentre mio padre
con un batuffolo di ovatta imbevuto di cianuro strofinava l’emulsione sul lavandino di
cucina,stando attenti che le gocce non finissero nell’insalata. A questa infanzia passata nella
Bottega di mio padre, nel senso di “bottega” dei pittori del rinascimento,sono dovute le mie origini
artigianali. Facevamo di tutto con pochi mezzi,con l’ingegnaccio e con un grande entusiasmo che si
appagava dei risultati ottenuti e non dei soldi che si sarebbero potuti ottenere. Le radici del mio
amore-odio per i trucchi risalgono a quei tempi e a quelle esperienze.” In questa testimonianza
possiamo senza fatica rintracciare il palesarsi,fin dal principio, di quasi tutti gli elementi distintivi
del Mario Bava regista: un legame solidissimo con i momenti e i luoghi fondamentali del cinema
italiano, la commistione fra arti moderne (la pittura) e invenzioni tecniche contemporanee e post
moderne,il cinema nella sua componente tecnologica,inteso come lavorio e composizione chimica,
la fotografia, l’uso dei trucchi come necessità artigianale e urgenza di manipolazione espressiva.
Sempre a proposito di questi primissimi anni così parlò Lamberto Bava,figlio di Mario e regista di
film horror a sua volta, intervistato da Grazia Fallucchia per la rivista “Lettura” in occasione del 1
Festival Internazionale del Giallo e del Mistero di Cattolica nel settembre del 1980. “[Mio padre]
diceva sempre che i suoi primi ricordi sono stati i muraglioni di neve lungo le strade di Torino. A
Torino mio nonno, che faceva lo scultore, era andato proprio per il cinema che aveva la sua sede
con la celebre Ambrosio Film. Per mio nonno l’incontro con il cinema avvenne nel 1905 a San
Remo: Una notte fu svegliato da una troupe della Pathè,venuta a girare sulla Costa Azzurra e
dintorni,che voleva urgentemente un caminetto sulla scena.
7
Erano gli anni della belle epoque,di film girati in una cornice di mare e di bel mondo,così mio
nonno fondò con degli amici la San Remo Film. Poi il trasferimento a Torino e quindi,quando il
cinema diventò romano, a Roma, dove faceva l’operatore e dove,come raccontava,girò persino un
film con la Duse: il famoso Quo Vadis? del quale ricordava il celebre episodio (vero) del leone che
ferì venti comparse. Molti anni più tardi però passò al reparto trucchi cinematografici dell’Istituto
Luce. E qui anche mio padre comincio a lavorare…” Da Torino,la famiglia di Bava,si trasferì a
Roma nel 1919,sempre al seguito delle esigenze professionali di Eugenio Bava,completando così in
maniera definitiva questa sorta di percorso itinerante attraverso le sedi storiche della produzione
cinematografica italiana.
Roma nel 1919 era ancora ben lontana dal rivelare i prodromi di quella che sarebbe poi divenuta
Cinecittà (che sarà inaugurata solo nel 1937), al contrario in quegli anni il cinema italiano stava
vivendo una crisi profonda e uno stallo sostanziale delle attività produttive che nemmeno l’adozione
della politica dei kolossal,eventi cinematografici di alto livello spettacolare in grado di catturare il
consenso di un pubblico vasto ed eterogeneo, riuscirà a superare del tutto.
A Roma Eugenio si adopererà nel duplice ruolo di regista e produttore di Galaor,il rivale
cinematografico dell’allora “D’annunziano” Maciste.
Rivelerà poi Mario Bava “(…) Faceva Galaor contro Galaor per 20000 lire al mese,che allora era
una cosa folle. Ma dopo pochi mesi venne la crisi”.
Nel 1930 Eugenio entrò nell’Istituto Luce,come direttore del reparto trucchi cinematografici. Mario
che fino a quel momento era stato indirizzato agli studi tradizionali senza peraltro conseguire la
maturità (si era rifiutato di sottoporsi alla prova obbligatoria di ginnastica), spesso coadiuvava il
padre nel suo lavoro,accrescendo contemporaneamente la sua abilità nei disegni animati e nelle
pratiche artistiche manuali:il suo sogno era quello di diventare pittore.
A proposito di questa sua precoce e significativa passione,Mario Bava racconta un gustoso
aneddoto riguardante tra l’altro anche suo padre e la dirittura morale d’altri tempi che fece da
sfondo alla sua formazione, “A tredici anni offrii a mio padre un mio quadro,ma in cambio ricevetti
uno schiaffo perché vi avevo messo la firma: “Neanche Raffaello firmava le sue opere!”.
Intervistato nel 1970 da Luigi Cozzi dirà “Per un po’,in verità,mi sono illuso di fare il
pittore,l’artista del pennello,ma a quei tempi non rendeva e allora ho lasciato,mi sono arreso,prima
mi sono unito a mio padre,poi sono arrivato dietro la macchina da presa,ho fatto la carriera. Adesso
sono regista e mio figlio fa da aiuto. L’ho messo in guardia,ma non mi ha dato retta:si vede che è un
vizio di famiglia.” È già sintomatico da queste premesse come abilità pittorica e cinema dovessero
prima o poi incontrarsi ed infine saldarsi in un connubio inscindibile che costituirà la cifra stilistica
irripetibile di una poetica personale. Questo incontro avvenne,seppure in maniera defilata e
marginale,per la prima volta attorno al1936,quando a vent’anni Mario Bava,essendosi appena
sposato,cominciò a guadagnarsi da vivere facendo i titoli di testa delle versioni italiane dei film
americani,guadagnando cifre che per l’epoca erano considerati enormi, “10000 lire nel 1938”
confermerà lo stesso regista.
I compensi aurei ebbero,in ogni caso,breve durata poiché a causa delle sanzioni commerciali
applicate dal regime,le case americane chiusero mentre quelle italiane erano solite applicare una
discutibile politica: “quando si trattava di avere i soldi per il lavoro fatto,ti dicevano sempre di
ripassare”.
La Minerva Film,ad esempio negò a Bava,proprio in quel periodo,l’intera somma che gli spettava
per il suo lavoro sui titoli di Scipione l’Africano.
Fu a quel punto che Mario decise di cambiare il suo impiego e di addentrarsi in maniera sostanziale
nel mondo del cinema adattandosi a fare l’operatore.
Il passaggio avviene in maniera definitiva intorno al biennio 1940/41 e segnerà una svolta decise
nella carriera del futuro regista. Questi primi passi da una certa fluidità manuale d artigianale tipica
della pittura verso l’acquisizione di una competenza tecnica,ci interessano,non tanto per la
precisione del dettaglio storiografico,quanto per l’influenza che eserciteranno sulle future modalità
di composizione dell’immagine audiovisiva. Se già nel 1939 Bava aveva collaborato,in veste di
8
operatore,alla realizzazione di due cortometraggi di Roberto Rossellini,Il tacchino prepotente e La
vispa Teresa,il primo vero lavoro in questo senso risale all’anno successivo,appena prima
dell’inizio della guerra, nel film “Ecco la felicità” diretto da Marcel L’Herbier uno dei sopravvissuti
della grande stagione del cinema d’avanguardia francese di vent’anni prima,uno dei pionieri
dell’Impressionismo cinematografico. Riguardo al primo il giudizio del giovane Bava non fu
positivo e tale rimase,confermato da queste sue parole di molti anni dopo “(Francesco De
Robertis)era un vero genio,l’inventore del neorealismo,non Rossellini che gli ha rubato tutto”. Con
De Robertis Bava lavorerà nel 1941,sempre come operatore,nel dittico sottomarino Uomini sul
fondo e Alfa Tau. Nel 1943 fu la volta di La Nave Bianca la cui regia fu firmata da Rossellini ma
che,secondo Bava,fu diretto da De Robertis. In questi suoi esordi da operatore Bava si trova così ad
attraversare un’altra stagione fondamentale del cinema italiano,impratichendosi nelle innovative
soluzioni formali che,inizialmente poste in essere all’interno della rigida schematicità degli ormai
esangui ed inamidati modelli del cinema fascista,avrebbero poi dato vita,raccolte in una poetica
coesa, al fenomeno del Neorealismo. Il trittico militare sopra citato fu infatti commissionato per
ragioni di propaganda,siamo in piena epoca di guerra,dal Centro cinematografico della Marina, ed è
in prospettiva inquadrabile nell’appartenenza ad un genere consolidato,quello epico
belligerante,particolarmente gradito e ubbidiente alle esigenze del regime. All’interno di questa
cornice strettamente militaresca, tuttavia, si possono riscontrare elementi fortemente innovativi
rispondenti alle urgenze semidocumentarie di un racconto collettivo organizzato attorno agli eventi
che la cronaca e la storia ponevano sotto gli occhi di tutti. L’aderenza alle istanze di una più
obiettiva rappresentazione della realtà risalta in questi film specie se li si considera in rapporto al
ristretto ambito di generi e situazioni drammatiche in cui a fatica si districava il cinema dell’epoca.
Sono le avvisaglie,ancora acerbe,è vero,e talvolta sopravvalutate,dell’avvento di un nuovo
linguaggio che segnerà il destino del cinema italiano del dopoguerra.
Utilizzando una metafora da lui stesso enunciata in precedenza,possiamo paragonare la
partecipazione di Bava a questi film all’apprendistato di un artigiano di bottega,abile e attento nel
carpire i segreti e gli elementi che differenziano gli stili cinematografici. Attento in particolare alla
differenza che intercorre fra chi possiede uno stile proprio e chi si adatta su soluzioni consolidate
facendo più che altro ricorso alla solida abitudine in dote nella pratica di un mestiere. Dirà Mario
Bava in proposito “Diventai operatore anch’io e feci una cinquantina di film,lavorando con molti
registi:da Francesco De Robertis (…) a Mario Soldati,altro genio,forse troppo colto per fare il
cinema. Fra questi due poli,una moltitudine di altri,e da tutti,anche dai più deficienti (dal latino
deficere) ho appreso qualcosa:quel che si deve fare e in specie quel che non si deve fare…”
La scuola del Neorealismo frutterà a Bava insegnamenti preziosi:in primo luogo la capacità di
ottimizzare i mezzi tecnici e le conoscenze pratiche ai fini di ottenere una maggiore presa sullo
spettatore, in secondo luogo l’artificio e la programmazione che sottendono l’effetto di verità e
coinvolgimento nella rappresentazione diretta della realtà quotidiana. Inoltre il suo repertorio visivo
e fotografico può in questo modo notevolmente arricchirsi confrontandosi con la realizzazione di
scene d’azione,in libera uscita dall’angusta prassi della bottega dei trucchi,con i set “en plein air”,
con l’ampiezza delle location e la ricchezza dei mezzi stanziati nell’occasione.
Conseguito un buon riconoscimento con la qualifica di operatore,in quello stesso periodo Bava si
cimenta anche nelle sue prime regie,sebbene per ora riguardanti solo il genere documentario.
Cinegiornali didattici e mielosi,realizzati con uno stile impersonale adatto ai canoni comunicativi
del primo dopoguerra (L’orecchio 1946 e Anfiteatro Flavio 1947). È in qualità di direttore della
fotografia,invece, ruolo in cui aveva esordito nel 1943 collaborando al dimenticabile
lungometraggio L’avventura di Annabella di Luigi Menardi,che Bava comincia a frequentare i
generi del cinema popolare. Ecco delinearsi il terzo approdo fondamentale per gli sviluppi della
carriera di Mario Bava:la pittura dapprima,come abilità manuale, quindi l’ingresso nel mondo del
cinema,con qualifiche che lo pongono in una sorta di ideale avamposto in cui mettere a frutto le sue
qualità di composizione dell’immagine ed ora il cinema di genere,come produzione seriale,luogo
deputato della narrazione più lineare,riconoscibile e facilmente fruibile. I suoi primi cimenti sono
9
ancora distanti dai generi codificati e prodotti su scala nazionale che lo renderanno famoso e
riguardano più che altro i film musicali diretti da Mario Costa e le blande agiografie mitologiche
come Antonio da Padova diretto da Piero Francisci,regista che,come vedremo, collaborerà con
Bava anche nelle opere più significative del filone mitologico o “peplum”, un “must” delle sale
parrocchiali dell’epoca per il quale Bava costruì anche una mirabolante grotta con la carta del pane.
Significativamente,mentre aumenta la propria credibilità e lo spessore del proprio contributo a li
vello tecnico e stilistico,Bava compie anche,operando direttamente nel campo della prassi,una
simultanea e progressiva appropriazioni di tutti i modelli e dispositivi narrativi esistenti nel cinema
italiano dell’epoca.
Le tipologie di riferimento,entro le quali si articolerà il suo cinema futuro, ci sono già tutte,il
superamento dei modelli filmici offerti dal cinema commerciale dell’epoca fascista operata dal
documentario bellico (per certi versi proto-neorealista),i film di genere popolare e avventuroso,cui
si aggiungeranno nel corso degli anni cinquanta altre due categorie molto significative quali l’horror
e il film drammatico a suspence,anche detto thriller. In particolare la rinnovata vitalità produttiva
del cinema italiano che si snoda attraverso la fertilità e la diversificazione di un universo spesso
sommerso e sotterraneo di produzioni di genere popolare ,rappresenta una condizione storica
essenziale per dare modo alla personalità eccentrica e creativa del Bava autore e regista di
sviluppare il proprio cinema secondo una rielaborazione plastica e decostruttiva di questi modelli.
Un deciso salto di qualità a livello produttivo si ebbe già alla fine degli anni quaranta quando Bava
fu messo sotto contratto con la Lux di Carlo Ponti. In questo nuovo contesto a Bava si schiudono le
porte della partecipazione a quello che sarà poi definito l’unico genere “autoctono” presente nel
cinema italiano,la commedia all’italiana,che nasceva in quegli anni da una costola del cosiddetto
neorealismo rosa,ovvero della mutazione genetica rivolta a forme di intrattenimento episodiche e
leggere che aveva subito il modello intellettuale neorealistico. La commedia all’italiana, forte di una
sua “aprioristica ambiguità”e pur conservando una tipologia ricorrente di situazioni narrative e di
caratterizzazioni fisiognomiche,tenterà nel corso degli anni di realizzare,come dice Aldo Vigano,
“un’affabulazione filmica tendente a far coincidere sullo schermo la realtà e la sua messa in scena,la
descrizione fenomenologica del quotidiano e la convenzionalità del suo tradursi in forme autonome
di linguaggio”. È quest’ultimo aspetto che mi preme in ogni caso sottolineare,prescindendo da
qualsiasi considerazione riguardante la longevità e l’attualità di un genere in grado di captare le
evoluzioni della storia del costume,ovvero la capacità di un genere di dotarsi di un proprio statuto di
convenzioni codificato,di cristallizzarsi in una riconoscibilità sociale,oltre che
cinematografica,sempre in bilico e minacciante di riversarsi oltre la soglia dello stereotipo. Uno dei
cardini su cui verterà pressoché l’intera opera del Bava regista sarà proprio la capacità di
appropriarsi in modo agile e virtuosistico dei “luoghi comuni” narrativi e stilistici offerti dal cinema
di genere e di porli,pur nel rispetto di una tradizionale costruzione dell’evento filmico,sottilmente
fuori contesto,evidenziandone la caratura esteriore e funzionale,esibendone la natura di elementi
“pop” all’interno della sottocultura cui appartengono. In ogni caso,riprendendo le fila del dato
biografico più immediato,a partire dal 1950 egli parteciperà ad alcuni degli episodi più significativi
del “nuovo” genere: sarà dietro la macchina da presa ad occuparsi della fotografia di Vita da cani
(1950),diretto dalla coppia Steno e Monicelli,cui farà seguito,con la stessa direzione, Guardie e
ladri (1951);nel 1951 lavorerà anche a La Famiglia Passaguai e La famiglia Passaguai fa fortuna
entrambi diretti da Aldo Fabrizi,poi sarà la volta de Gli eroi della domenica (1952) dell’ormai
stagionato Camerini e ancora di Terza Liceo (1953) di Luciano Emmer, cui possiamo aggiungere
episodi pure in se meno significativi, come Hanno rubato un tram (1954) di Aldo Fabrizi e Mio
figlio Nerone di Steno nel 1956. Il 1956 si rivelerà in effetti un'altra annata chiave per la lenta ma
costante evoluzione della carriera del Nostro,due elementi lo segneranno in maniera indelebile: la
definitiva consacrazione di Bava come factotum del cinema di genere nostrano (non solo operatore
e direttore della fotografia ma anche abile e agile realizzatore di trucchi artigianali) particolarmente
gradito da registi e produttori per la sua sintetica capacità di risolvere problemi tecnici con
massimale prontezza manuale cui corrispondeva una spesa minima,nonché il completamento della
10
sua preparazione cinematografica legata a nuove tipologie di cinema,arricchite dalla partecipazione
al filone mitologico e soprattutto a quello orrorifico. Bava realizza tre film ,uno di scarsa
rilevanza,intitolato Orlando e i paladini di Francia per la regia di Piero Francisci,ben più
significativi gli altri due,sebbene usciti nelle sale solo l’anno successivo,ovvero I vampiri per la
regia di Riccardo Freda e Le fatiche di Ercole ancora di Francisci,ponendo di fatto le basi di un suo
debutto alla regia e completando così come l’appropriazione dall’interno,degli elementi chiave,a
livello tematico e “mitologico” (stavolta la mitologia è intesa solamente nel senso Barthesiano del
termine) che di fatto costituiranno,rivisitati,il nucleo centrale della sua poetica. I vampiri (1957),in
particolare, sarà poi ricordato nelle storiografia ufficiali come il primo esempio di film horror
interamente girato in Italia,come archetipo di un filone che tanta parte occuperà a livello quantitavo
nella produzione del decennio successivo. Senza entrare nel merito di queste considerazioni, I
vampiri ci sembra più che altro una rilettura in chiave gotica e decadente,delle ossessioni tipiche del
cinema di Freda che affondano le loro radici nel melodramma e che pongono personaggi
apparentemente normali,nei gorghi infernali scaturiti dai loro desideri incoercibili che li proiettano
letteralmente “al di là dello specchio”,in una dimensione di dolore e sofferenza. Più significativa è
invece l’analisi dello stile espressivo adottato da Bava nella composizione visiva e luministica
dell’opera la cui controllata eleganza sembra riflettersi idealmente in un atmosfera dominata
tonalità oniriche e sospese di stampo quasi espressionistico,al momento ancora alieno dai furori
pittorici e coloristi che caratterizzeranno l’aspetto più significativo e straniante delle opere della
maturità registica. Ricorda Freda a questo proposito: “ Ho lavorato diverse volte con Mario Bava.
Era sempre di buon umore e il suo carattere si accordava perfettamente al mio. Dotato di una
capacità tecnica straordinaria,si divertiva ad affrontare e risolvere i problemi più ardui. Ricordo che
una volta,la pellicola non aveva la sensibilità odierna, mi girò una scena di tramonto con i
personaggi in primo piano,andando al di là di quelli che erano considerati i limiti della
pellicola.Maestro di “trucchi”,era in grado di risolvere qualsiasi problema,per difficile che fosse. Ne
I Vampiri facemmo a gara a ricreare gli esterni di Parigi nell’angusto cortile-giardino della Scalera
Film. A Parigi si rifiutarono di credere che quella che quella Monmartre e quel Lungosenna fossero
stati girati in un cortile con l’aiuto di qualche cristallo!” In effetti,nel film di Freda, Bava non si
occupò soltanto della fotografia,ma curo anche gli effetti speciali in cui Gianna Maria Canale,la
protagonista,quasi una moderna Erzsebeth Bathory, invecchia a vista d’occhio davanti alla
macchina da presa,senza stacchi. In questo particolare caso,la combinazione di ceroni e luci colorate
fu eseguita in maniera magistrale tale da fruttare risultati sorprendentemente realistici ed
incisivi,tanto che Bava li avrebbe poi riutilizzati nella sua prima regia,La maschera del demonio.
Dopo un litigio di Freda coi produttori,Bava fu persino incaricato di portare a termine le riprese,di
fatto la sua prima investitura alla regia,seppure da subentrante nel solco d’un lavoro già definito
nelle sue linee fondamentali.
A cavallo fra la fine di quello stesso anno e l’inizio del successivo,Bava fu ingaggiato come
direttore della fotografia e degli effetti speciali di Le fatiche di Ercole.
Questo fu il film grazie al quale,il presidente della Galatea,Lionello Santi,e il vicepresidente della
Lux,Renato Giuliano,diedero vita al genere che i francesi ribattezzarono “peplum” che sarà
destinato ad una ingente fortuna economica,per lo meno per tutta la prima metà degli anni sessanta.
Tornando a parlare di strutture ricorrenti e variazioni minime che giocano sulla riconoscibilità di
elementi consolidati nell’immaginario popolare,il “peplum” può essere considerato come un
tradizionale film d’avventura,la cui ambientazione,però oscilla fra una presunta e indistinta epoca
classica e i confini più rarefatti di una forte componente fantastica e favolistica. Presenza
obbligatoria e vero e proprio “corpus” identificante,è quella di un eroe forzuto,interpretato da un ex
Mr Universo,o da un culturista straniero,come l’americano Steve Reeves nel caso del film di
Francisci.
Bava farà tesoro di questa diligente applicazione di alcune elementari regole della costruzione
drammatica e dei suoi stereotipi immutabili, introiettandoli al punto da farli sfociare in una
deliberata citazione incrociata,che coinvolge anche l’universo del cinema horror, nel suo Ercole al