7
Infatti, se da un lato la pena di morte era prevista soltanto in alcune ipotesi tassative,
dall’altro i lavori forzati a vita erano utilizzati nei confronti della maggior parte dei
delitti politici.
Sintomatici dell’impostazione autoritaria dei rapporti fra Stato e cittadino erano i
delitti di ribellione, di disobbedienza ed altre mancanze verso la pubblica autorità.
Particolare severità era poi riservata alle persone “ sospette ”, cioè ai diffidati per
crimini o per delitti, ai sottoposti alla sorveglianza speciale della pubblica sicurezza,
nonché ai mendicanti, agli oziosi ed ai vagabondi, soprattutto per reati contro la
proprietà.
Si assisteva così ad una significativa sovrapposizione fra strumenti di polizia ed
intervento penale, poiché il reato consisteva nella mera qualificazione di essere
ozioso, vagabondo o sospetto.
In questo modo, “ il principio liberale secondo cui si poteva essere puniti solo per un
fatto, e non per atteggiamenti interiori o atteggiamenti di vita, veniva violato nei
confronti di determinate categorie di soggetti, proprio a causa della loro posizione di
emarginati sociali ”.
La libertà dei sospettati, dei “ pericolosi “, poteva essere diminuita con l’uso di
istituti di polizia preventiva, con pratiche arbitrarie ed abusi tollerati.
2
Si trattava di istituti a carattere principalmente amministrativo disciplinati nella legge
di pubblica sicurezza ed impiegati a fini di oppressione e prevenzione
contemporaneamente.
Alla polizia erano affidate funzioni di “ governo delle classi pericolose “, con
notevoli margini di discrezionalità, senza considerazione dei principi di stretta
legalità e di stretta giurisdizionalità.
Tutto questo permetteva di conseguire obiettivi politicamente desiderabili, attraverso
la compressione di diritti, prerogative e garanzie.
3
2
Ibidem
8
I dati statistici sulla criminalità e lo stato delle istituzioni penitenziarie nella seconda
metà dell’800, finalizzate ad una feroce politica di emarginazione dei soggetti
pericolosi per la sicurezza degli assetti sociali costituiti, confermavano
l’impostazione classista della codificazione penale della seconda metà dell’800.
4
“ Il problema penale emergeva come problema cruciale nei primi decenni che
seguivano l’Unità, quando la società veniva investita da un contrastato movimento di
riforma e modernizzazione.
Si notava che gran parte del rinnovamento del sistema attraversava il penale, e che
con il penale avevano a che fare la crescita delle libertà, l’ammodernamento dei
rapporti fra Stato e cittadini, la maturazione civile della società nel suo complesso.
Alcuni problemi che i penalisti si trovavano ad affrontare, avevano un immediato
riflesso sulla società, implicando opzioni politiche, culturali, di civiltà; si trattava
delle questioni riguardanti la politica criminale, la pena, il processo, i diritti dei
cittadini, la salvaguardia della legalità e le esigenze di difesa della società.
All’indomani dell’Unità, l’obiettivo primario dei penalisti italiani che avevano alle
spalle una lunga esperienza di opposizione sotto i regimi illiberali, era quello di
assicurare libertà e garanzia nell’agire politico, di creare uno spazio efficace per la
giustizia nella vita sociale, ma soprattutto di arricchire il processo di incivilimento “.
5
1.2 La pena nel pensiero della Scuola classica e della Scuola positiva
Il passaggio dall’elaborazione giuridica dell’Illuminismo alla codificazione espressa
dalle legislazioni liberali dell’800, ossia la transizione dalle idee del periodo
rivoluzionario al consolidamento del potere della classe borghese vincitrice, trovava
sul terreno delle ideologie penali un supporto nella Scuola classica del diritto penale,
3
M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in Storia d’Italia, Annali
XIV, Legge Diritto Giustizia, a cura di L. Violante, Torino 1998, pp. 489 ss
4
C. F. Grosso, G. Neppi Modona, L. Violante, Op. cit., Milano 2002, p.157
5
M. Sbriccoli, Op. cit., Annali XIV, Torino 1998, pp. 493 ss
9
che si affermava in Italia nella seconda metà del XIX secolo, in continuità con i
canoni garantistici e liberali dell’Illuminismo.
L’obiettivo di questa Scuola era quello di costruire un sistema “ scientifico “ del
diritto penale, concepito come entità astratta ed immutabile, indipendente dalle
contingenze politiche e sociali, ancorata ai valori eterni della ragione assoluta.
6
In questa prospettiva, il compito del giurista era la costruzione del sistema dei reati e
delle pene secondo criteri di razionalità e scientificità generali ed assoluti, senza
tenere conto delle spinte e dei condizionamenti che potevano provenire dalla società.
Al giurista non doveva interessare l’analisi della legislazione positiva, quanto
procedere all’elaborazione del sistema giuridico su basi logiche ed astratte, ancorate
a radici di natura trascendente.
Nel contesto storico in cui operava, caratterizzato dalla presenza di una codificazione
penale che apprestava un’esasperata tutela dell’ordine costituito, la Scuola classica
svolgeva così un importante compito.
La Scuola classica, infatti, nasceva anzitutto come reazione agli arbitrii della
giustizia punitiva e contro il sistema penale allora vigente, caratterizzato dall’uso
della tortura e dalla ferocia delle pene.
Nella costruzione del sistema penale, gli esponenti di questa Scuola riproponevano i
capisaldi del pensiero liberale, ossia le garanzie della legalità e della irretroattività, i
principi di tassatività delle fattispecie e della certezza del diritto.
7
Si sosteneva che nessuno doveva essere punito per i soli pensieri e le sole intenzioni
e si affermava che il reato e la conseguente responsabilità penale presupponevano la
presenza di una condotta criminosa, di un fatto e di un elemento psicologico doloso o
colposo, subordinandosi la responsabilità penale alla presenza della capacità di
intendere e di volere del soggetto agente: era il principio del c.d. “ libero arbitrio “, in
base al quale il delinquente, dotato appunto di libero arbitrio, era libero di scegliere
6
C. F. Grosso, G. Neppi Modona, L. Violante, Op. cit., Milano 2002, pp. 157 ss
7
Ibidem
10
fra il bene e il male, ossia fra l’osservanza o la violazione del diritto, e se sceglieva
liberamente il male doveva essere punito proporzionatamente alla gravità dell’illecito
commesso.
8
Il pensiero classico conosceva tuttavia alcuni grossi limiti.
Anzitutto, il postulato del libero arbitrio, cioè dell’uomo assolutamente libero nella
scelta delle proprie azioni, portava ad ignorare i condizionamenti dell’agire umano
per effetto di fattori extravolontari, ai fini della graduazione della responsabilità e
dell’individualizzazione della pena e ciò anche per il timore di un possibile ritorno
all’ineguaglianza e all’arbitrio del giudice.
In secondo luogo, i classici limitavano la difesa sociale contro il delitto alla sola
pena: restava estranea al sistema classico l’idea di prevenzione attraverso misure
neutralizzatici e risocializzatrici, adeguate alla personalità dell’agente.
Si lasciava, in tal modo, penalmente indifesa la società contro i delinquenti pericolosi
non imputabili, essendo inconcepibile la pena retributiva nei loro confronti.
9
Nei codici italiani preunitari, infatti, il problema di un’attività di prevenzione da
parte dell’autorità giudiziaria, non era affatto sentito: tutto il sistema ruotava attorno
alla classificazione delle pene nelle categorie “ criminali, correzionali, di polizia “,
come, ad esempio, nel codice sardo del 1859, o alla bipartizione “ principali,
accessorie “, come, ad esempio, nel codice toscano del 1853.
10
In terzo luogo, la Scuola classica non si poneva il problema del recupero sociale del
delinquente: lo stesso codice Zanardelli del 1889, solo in rare disposizioni, cercava di
individualizzare la pena sul piano esecutivo, prevedendo, ad esempio, gli stabilimenti
speciali per le donne, per i minori e per gli ubriachi, in realtà mai realizzati, nonché
la destinazione ai lavori agricoli e industriali.
11
8
Ibidem
9
F. Mantovani, Il problema della criminalità, Padova 1984, pp. 33-34
10
I. Caraccioli, I problemi generali delle misure di sicurezza, Milano 1970, p. 8
11
F. Mantovani, Op. cit., Padova 1984, p. 34
11
Il maggior esponente di questa Scuola era Francesco Carrara (1805-1888), il quale,
nel suo Programma del corso di diritto criminale (1870), affermava che la
punizione del colpevole era “ un contenuto necessario e primitivo del diritto “,
essendo l’uomo, per sua natura, moralmente libero e responsabile delle proprie
azioni.
Egli sosteneva che il fine primario della pena era “ la tutela giuridica dell’ordine
violato “, “ il ristabilimento dell’ordine esterno nella società “.
Carrara, infatti, rilevava come un delitto non offendeva soltanto l’individuo che lo
aveva subito, ma anche la società, violando le sue leggi; ed offendeva quindi tutti i
cittadini, diminuendo in loro l’opinione della propria sicurezza.
Con il reato, dunque, secondo Carrara, si creava non solo il pericolo che il reo, se
lasciato impunito, rinnovasse contro altri le sue offese, ma anche il pericolo che altri,
incoraggiati dal cattivo esempio, commettessero dei reati.
Per questo motivo, secondo Carrara, la pena doveva essere anzitutto sentita dal reo
che ne era colpito, ma doveva essere sentita moralmente anche dagli altri cittadini.
Essa doveva essere afflittiva del reo, o fisicamente o almeno moralmente, esemplare,
certa e pronta.
12
In opposizione al pensiero classico, sorgeva, negli ultimi decenni del XIX secolo, la
Scuola positiva, la quale proponeva una radicale alternativa ai postulati allora
imperanti nel diritto penale.
Sospinta dall’enorme aumento della delinquenza, questa Scuola si proponeva di
conseguire una conoscenza più esatta del fenomeno criminoso.
I fondatori e principali esponenti di questa Scuola erano Enrico Ferri (1856-1929) e
Cesare Lombroso (1835-1909).
Quest’ultimo, secondo la sua concezione antropologica del diritto penale, riteneva
prevalenti le anomalie fisiche e psichiche quali cause del delitto e classificava i
delinquenti secondo criteri biologici.
13
12
F. Carrara, Programma del corso di diritto criminale, Vol. I, Firenze 1924, pp. 561 ss
12
Enrico Ferri, nella sua opera Principii di diritto criminale (1928), contestava alla
Scuola classica di aver considerato l’autore di un delitto, come un “ tipo medio “
uguale a qualsiasi altro uomo, tranne i pochi casi di minore età, pazzia,
sordomutismo, ubriachezza, impeto d’ira e di dolore.
Viceversa, Ferri considerava il reato come un fatto umano individuale, indice di una
personalità socialmente pericolosa e pertanto rivolgeva la propria attenzione alla
persona del delinquente, che veniva studiato nelle sue caratteristiche personali,
fisiologiche e psicologiche.
14
In questo modo, l’attenzione del diritto penale si spostava dal fatto criminoso in
astratto alla personalità del delinquente in concreto e dalla colpevolezza per il fatto
commesso alla pericolosità sociale del suo autore.
Secondo la Scuola positiva, il principio cardine in base al quale si dovevano spiegare
tutti i fenomeni fisici e psichici, individuali e sociali, era il principio di causalità e,
sulla base di tale principio, il delitto diveniva il prodotto non di una scelta libera e
responsabile del soggetto, ma di un triplice ordine di cause: antropologiche, fisiche e
sociali.
Veniva in tal modo demolito il presupposto del diritto penale classico, ossia il
postulato del libero arbitrio.
15
Inoltre, mentre la Scuola classica considerava la pena come un male che veniva
inflitto ad un colpevole autore di un reato, secondo gli esponenti della Scuola
positiva, la pena costituiva uno strumento di difesa sociale nei confronti dei
delinquenti pericolosi: essa non doveva avere i caratteri di castigo e di retribuzione,
ma doveva avere quali finalità il recupero individuale e la sicurezza sociale e
pertanto si doveva applicare a tutti gli autori di un reato socialmente pericolosi, avuto
riguardo alla natura del reato ed alla persona del delinquente.
16
13
C. F. Grosso, G. Neppi Modona, L. Violante, Op. cit., Milano 2002, p. 168
14
E. Ferri, Principii di diritto criminale, Torino 1928, p. 47
15
F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Padova 1992, pp. 855 ss
16
E. Florian, Trattato di diritto penale, Vol. I, Milano 1934, pp. 19 ss
13
La pena, scriveva Cesare Lombroso, nella sua opera L’uomo delinquente studiato in
rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie (1876),
doveva avere di mira non tanto il dolore del reo, quanto il benessere della società, e
non tanto il reato, quanto il reo e soprattutto la sua vittima.
17
La pena, nell’ottica dei positivisti, doveva esercitare un’efficacia morale ed essere
tale da educare e favorire la riabilitazione del delinquente, impedendogli la ricaduta
nel delitto.
Diventava così necessario studiare non solo il delitto nelle sue mutevoli
manifestazioni, ma anche l’uomo, autore di quel delitto, nonché l’ambiente esterno
nel quale esso si era prodotto.
Anche la pena doveva essere considerata nella sua significazione sociale, nella sua
evoluzione, nella sua virtù di adattamento dinanzi al delinquente e quindi nella sua
efficacia ed idoneità rispetto alla propria funzione.
In particolare, nella scelta e nella misura delle pene, si doveva aver riguardo al
carattere del delinquente ed alle peculiari condizioni dell’ambiente in cui si era
prodotto il reato, affinché la pena realizzasse meglio il suo compito.
Inoltre, i positivisti sostenevano che lo Stato, nella lotta contro il delitto, doveva
agire non solo mediante la pena, ma anche in via preventiva, per eliminare o
comunque diminuire i fattori della delinquenza.
18
17
C. Lombroso, L’uomo delinquente studiato in rapporto alla antropologia, alla medicina legale ed alle
discipline carcerarie, Torino 1876, pp. 35 ss
18
E. Florian, Op. cit., Vol. I, Milano 1934, pp. 19 ss