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Su molti punti di questa descrizione non si può non convenire,
tuttavia non possiamo non manifestare delle perplessità all’idea di
comportamenti agonistici, anche violenti, nell’accaparrarsi un bene in
una società come la nostra. Noi viviamo nella certezza che andando al
supermercato troveremo tutto il cibo di cui abbiamo bisogno e di cui
abbiamo voglia; che, se vediamo un capo di abbigliamento indosso a
qualcuno e ci piace, ci basta chiedergli in quale negozio l’ha comprato, e
il giorno dopo lo avremo identico, perché molto probabilmente quel
negozio, uno della stessa catena oppure uno in franchising dello stesso
marchio, ne ha almeno un altro pezzo.
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Viviamo nell’epoca
dell’abbondanza, non nel Medio Evo dove era vietato indossare gioielli o
abiti troppo ricchi se non si apparteneva a un determinato ceto. Questi
fatti sono talmente perspicui che siamo soliti associare la prospettiva di
comportamenti agonistici a periodi particolari oppure lontani nel tempo
(le risse per le derrate alimentari durante e dopo la guerra), a fenomeni
marginali o folkloristici: ad esempio, le risse per entrare in un negozio
che effettua una svendita straordinaria, oppure il farsi largo lottando per
gli abiti usati di una bancarella.
1
Di alcuni prodotti, poi, è possibile comprare delle copie assolutamente identiche a prezzi
decisamente inferiori, nel caso il prodotto originale non fosse più disponibile o più semplicemente
fosse troppo caro.
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I.1 L’ideologia dell’Economia
Su cosa si fonda la nostra sicurezza, la certezza che esiste un
negozio in città o un sito su Internet che vende quello di cui abbiamo
bisogno o che è disposto a produrlo su nostra richiesta, «al punto che
anche il petrolio da risorsa rara e preziosa si è tramutata in merce
abbondante, deprezzata e indesiderata»
2
? Volendo semplificare, su cosa si
fonda la sicurezza che certi fenomeni costituiscano degli eventi
eccezionali?
Si fonda su alcuni capisaldi che la Scienza economica, da Smith in
poi, ha propagandato con grande efficacia: se lasceremo libero spazio alla
ricerca dell’utile personale, movente principe di ogni azione individuale,
se permetteremo la divisione del lavoro, non più vincolata da
appartenenze di corporazione o di casta, prima, in modo da produrre gli
stessi beni in modo più economico, e, poi, nuovi beni; allora non sarà
più necessario lottare per procurarsi certi beni, perché essi saranno
prodotti in abbondanza e in modo sempre meno dipendente dai capricci
della Natura.
Il principio di utilità come movente dell’azione individuale ci dice
che, se vorremo mangiare un buon pezzo di carne pagandolo il giusto
prezzo, non sarà facendo appello all’umanità del macellaio ma al suo
tornaconto che lo otterremo; allo stesso modo il macellaio sa che non è
ricorrendo a tecniche di persuasione che si conquisterà le preferenze del
consumatore, ma piuttosto grazie ad un prodotto «concorrenziale». In
sintesi, quindi, è nell’interesse dell’imprenditore soddisfare i bisogni di
chiunque, purché costui sia in grado di corrispondergli il giusto prezzo:
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perciò, senza ombra di smentita, possiamo affermare che effettivamente
il fine della produzione, come lo intende la Scienza economica è il
soddisfacimento dei bisogni attraverso il consumo di merci.
3
Ma solo se
ipotizziamo l’esistenza di un’accentuata divisione del lavoro possiamo
avere la ragionevole sicurezza che il macellaio avrà della carne da poterci
vendere. E’, quindi, la divisione del lavoro che, aumentando la
produttività del lavoro umano, da un lato, consente la produzione di una
maggiore quantità di beni e, dall’altro, libera le risorse per la produzione
di nuovi beni. La certezza che ciò di cui sentiamo il bisogno è sempre
disponibile, si fonda sul fatto che a soddisfare i nostri bisogni e i nostri
desideri sono le merci. Merci riproducibili in maniera sempre più
semplice ed economica, che sono frutto del lavoro dell’uomo e delle sue
tecniche di produzione sempre meno dipendenti dalla natura stessa,
ovvero merci prodotto in economia di mercato.
Per chiarire meglio come la riflessione economica abbia modellato
il nostro modo di pensare, ricorrendo a veri e propri artifici retorici,
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partiamo da due considerazioni abbastanza frequenti: una di carattere
storico e una di carattere teorico. È pacificamente accettata l’ipotesi che
per diventare una potenza capitalistica, nel ‘700 e nell’800, era necessario
che una nazione avesse una buona agricoltura; con ciò si intende dire che
solo un’agricoltura dalla produzione abbondante, che permetteva lo
svincolarsi dalle necessità della sopravvivenza e dai rischi di una carestia,
liberava risorse produttive che potevano essere impiegate in maniera più
efficiente, per esempio nella produzione di spilli, come nella produzione
di pezze. Nella prima fase dello sviluppo capitalistico, infatti, in
2
P. G. Perrotto, Il paradosso dell’economia. Manuale di rivoluzione culturale, FrancoAngeli, Milano, 1993, p.
12
3
Infra, p. 32.
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Inghilterra l’agricoltura non era il settore in cui la divisione del lavoro
aveva grande diffusione, non fosse altro che per i limiti oggettivi delle
della tecnologia dell’epoca. Lo era invece quello dei tessuti, dove la
tecnologia permetteva un’efficace divisione del lavoro. Eppure la
letteratura economica, e qui passiamo alla considerazione di carattere
teorico, non teneva conto della situazione reale dell’Economia. Infatti,
essa, nei decenni successivi, farà riferimento piuttosto alla produzione di
grano che alla produzione di tessuti pregiati, come sarebbe stato naturale,
poiché questo ricorso aveva tra le altre cose una forte connotazione
retorica: il ricorso al grano, risorsa necessaria per la sopravvivenza del
gruppo, faceva sì che il processo economico venisse percepito sub quadam
specie necaessitatis.
Tutto ciò ci appare ancora più curioso se osserviamo due fatti
paradossali: a) come il ricondurre il consumo all’urgenza dei bisogni
primari, ad un’istanza di sopravvivenza, abbia luogo in quella che forse è
la prima civiltà davvero emancipata dall’arbitrio della natura, e che meno
deve preoccuparsi della sua sopravvivenza fisica; b) come questa
operazione sia condotta proprio da quella disciplina che prima di tutte
aveva magnificato la capacità dell’uomo, attraverso modifiche nella
configurazioni dei rapporti economici, di produrre sempre più beni e in
modo sempre più efficiente. E’ ancora più paradossale se pensiamo che
si verifichi in una civiltà in cui la rarità e la scarsità, ancora prima di
essere qualità dell’oggetto, prerogativa della natura o concetto relativi,
dipendenti dalla domanda e dall’offerta sono un modo analiticamente
elegante di chiamare la proprietà privata, sono soprattutto qualità che
l’uomo dà e toglie, al punto che se dovessimo fare un elenco di quelle
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Cfr. D. N. McCloskey, La retorica dell’economia. Scienza e letteratura nel discorso economico, Einaudi, 1985.
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cose che più ci sembrano rare, l’elenco sarebbe composto per metà da
prodotti dell’uomo, che in quanto tali sono riproducibili. E’ paradossale,
in sintesi, che per affermare il potere dell’economia nel produrre questo
benessere la Scienza economica, che - di questa nuova società - ne
costituisce l’ideologia,
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debba sostenere il contrario.
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I.1.1 La retorica dell’Economia: l’analisi economica
Queste considerazioni ci consentono di introdurre le ipotesi che
fanno da corollario alle “Efficient Market Hypothesis”, secondo le quali
il mercato è il perfetto e razionale medium che consente alle informazioni
di trasformarsi in «prezzi»: i) il contenuto del consumo è costituito da
merci, ovvero noi compriamo ciò che consumiamo; ii) le merci non
costituiscono il sovrappiù di una produzione ma sono prodotte con lo
scopo precipuo di essere vendute sul mercato; iii) esiste una merce che
viene convenzionalmente riconosciuta da tutti gli agenti come mezzo di
pagamento universale e i prezzi sono espressi in rapporto a un’unità di
questa merce.
L’esistenza di una merce accettata da tutti come mezzo di
pagamento consente la pianificazione della produzione da parte
dell’imprenditore e facilita la divisione del lavoro. Se non esistesse una
merce del genere, che per semplicità chiamiamo «moneta», gli scambi
diventerebbero più complessi e l’idea stessa di mercato verrebbe meno.
Infatti, ogni volta che volessimo comprare un pezzo di carne dovremmo
5
C. Mongardini, Economia come ideologia. Sul ruolo dell’economia nella cultura moderna, FrancoAngeli, Roma,
1997, p. 7.
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Questa impressione della necessità è al tal punto interiorizzata dall’uomo, che, in una delle sue
potenti immagini, Heidegger può dire che il nostro è il tempo della penuria estrema.
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intuire i desideri del macellaio, procurandoci quello che desidera, oppure
cercare un macellaio che accetti lo scambio con quello che gli offriamo;
lo stesso macellaio si troverebbe in difficoltà nell’attribuire il giusto
valore a ognuno dei suoi pezzi di carne; il risultato sarebbe il formarsi di
comunità di scambio molto chiuse, la cui partecipazione non sarebbe
libera e temporanea, ma vincolata alla volontà dei partecipanti. Ma la
conseguenza peggiore sarebbe che non tutte le merci volute dai
consumatori entrerebbero in produzione.
La moneta rende possibile la divisione del lavoro e la sua
pianificazione da parte dell’imprenditore, che altrimenti incontrerebbe
non poche difficoltà nel valutare il proprio profitto, se non nel caso -
molto singolare, a essere sinceri - in cui le merci prodotte risultino essere
in quantità maggiore o uguale rispetto a quelle utilizzate nella
produzione. L’uso intensivo della moneta e la possibilità di attribuire un
prezzo ad ogni merce, sono i due elementi che caratterizzano più di ogni
altro il nostro modo di consumare.
Se si vuole comprendere in una cultura della quantità come la
nostra, come è possibile la rappresentazione sociale, bisogna risalire allo
strumento che possibile questa rappresentazione, cioè al denaro. Il
denaro riesce a tradurre la qualità in quantità. L’estrema oggettivazione
dello scambio può ottenersi soltanto se prestazioni e controprestazioni
possono essere ridotte quantitativamente in valori omogenei. La
domanda “quanto?” è la premessa di ogni rapporto di scambio e il
denaro è lo strumento che permette di rispondere a questa domanda così
banale così comune nella vita quotidiana.
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7
Secondo alcuni economisti, la moneta non è essenziale al processo economico capitalista, in quanto
ogni prezzo si può esprimere come un vettore, di cui ogni valore descrive la ragione di scambio della
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I.2 La riflessione sociologia sul consumo
Siamo partiti dalla constatazione che l’assenza o il basso tasso di
antagonismo è uno dei punti su cui il consumo nelle società moderne si
differenzia da quello di altre società. Abbiamo proseguito illustrando che
questo è possibile perché noi partiamo dall’assunto di consumare in un
regime di abbondanza, che però questo non è dovuto alla benevolenza
della Natura nei confronti dell’uomo occidentale ma al fatto che l’Uomo
vive in un sistema di produzione capitalistico, il sistema capace di
generare questa abbondanza. Questo sistema è caratterizzato, tra le altre
cose, dal fatto che il contenuto del consumo è costituito da merci.
Probabilmente abbiamo esagerato nell’attribuire alla disciplina
economica un ruolo così importante nella formazione della nostra
coscienza di consumatori. E’ certo però che certi concetti della disciplina
economica costituiscono un momento centrale nella formazione di
questa coscienza. L’economia ha costituito per molti sociologi il punto di
partenza della propria riflessione sul fenomeno del consumo, tanto che,
quando si è ritenuto che queste riflessioni avessero perso in qualche
modo di mordente, si è ritenuto che il modo migliore per lasciarsele alle
spalle fosse ignorarle ovvero non considerare la dimensione economica
del consumo come essenziale.
Nel prendere l’avvio come nel prendere congedo dall’Economia,
cioè da quella disciplina che più di altre e forse meglio di altre aveva
indagato il Consumo nelle nostre società, la Sociologia ha mosso, ad
ognuno dei suoi postulati, numerose critiche puntuali e sistematiche.
Tuttavia, solo poche di queste critiche, si sono diffuse al di fuori del
merce in questione con un'altra. Una simile affermazione però si fonda su un’ipotesi di razionalità e
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ristretto del circolo dei sociologi e degli economisti. Nella vita
quotidiana, infatti, siamo disposti ad accettare che le cose in generale
stiano davvero come ce le aveva descritte Smith,
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e solo in certi casi
singolari e a determinate condizioni siamo pronti ad ammettere che
queste postulati non vigano.
Le critiche che la Sociologia ha mosso alla postulata razionalità del
consumatore sono quelle che hanno più di altre attecchito
nell’immaginario collettivo. Oggi, nessuno può ritenersi tanto ingenuo da
pensare che le imprese spendano ogni anno migliaia di miliardi di dollari in
pubblicità e sponsorizzazioni se non nutrissero la speranza di entrare nel
cuore del pubblico, minacciandone la razionalità al momento
dell’acquisto. Tuttavia, la critica ha ottenuto tale successo solo a costo di
smussare le punte delle proprie argomentazione. Se da un lato siamo
perfettamente consci del potere della pubblicità, della sua capacità
coercitiva, dall’altro accettiamo sempre più frequentemente che la
pubblicità non abbia solo lo scopo di persuaderci o ingannarci, illuderci
ma anche di concorrere alla produzione, se non fisica almeno simbolica
del bene, definendo le caratteristiche semantiche di una certa merce. In
virtù di questa funzione, si considera la pubblicità sempre meno fonte
delle perturbazioni dell’efficienza del mercato e sempre più spesso la si
rubrica come una risorsa e come un costo di un fattore, al pari del
lavoro, del capitale fisso e delle altre risorse che concorrono alla
produzione fisica di un certo bene.
istantaneità del sistema economico.
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Smith sta all’Economia come Aristotele è stato alla Fisica prima di Galileo. Come la fisica aristotelica
è ancora sufficiente molti fenomeni della vita quotidiana, lo stesso accade con Smith e l’Economia,
che per fortuna o purtroppo non ha ancora avuto la sua rivoluzione galileiana.