EFFETTI DELL’ANSIA SULL’ATTENZIONE VISIVA: Un’indagine comportamentale ed elettrofisiologica - II -
- tensioni o dolenzia muscolare
- facile affaticabilità
- irrequietezza
Una risposta ansiogena normale è per esempio quella che si scatena quando
affrontiamo un esame, oppure quando dobbiamo parlare in pubblico, oppure ci
troviamo di fronte a un pericolo. In tutti questi casi la reazione ansiosa ci
permette di aumentare le nostre forze fisiche e mentali (l’attenzione, la
concentrazione, la memoria, la tensione muscolare) per superare la prova che
dobbiamo affrontare.
La reazione ansiosa viene definita patologica quando:
• è esagerata e disfunzionale rispetto agli stimoli che l’hanno indotta e
l’individuo ne è consapevole. Il paziente, nonostante riconosca la natura
esagerata della sua reazione rispetto allo stimolo scatenante (ansia generalizzata),
non riesce a gestirla con il solo ragionamento e viene disturbato da questo stato
ansioso durante tutto l’arco della giornata con i sintomi già descritti;
• la reazione ansiosa compare acutamente in assenza di uno stimolo scatenante. È
caratterizzata da dispnea e sensazione di soffocamento, sintomi neurovegetativi,
vertigini, paura di morire o di perdere il controllo (attacco di panico). Questi
fenomeni sono generalmente ricorrenti, di breve durata, e possono essere inattesi
o situazionali, cioè scatenati da stimoli o situazioni.
A questo proposito secondo il DSM-IV sono da considerare disturbi d’ansia: il
disturbo d’ansia generalizzata (DAG), il disturbo di panico (DP), la fobia sociale,
le fobie specifiche, il disturbo ossessivo-compulsivo (DOC) e il disturbo post-
traumatico da stress (DPTS).
II
EFFETTI DELL’ANSIA SULL’ATTENZIONE VISIVA: Un’indagine comportamentale ed elettrofisiologica - 1 -
CAPITOLO 1
L’ANSIA
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1. GLI STUDI SULL’ANSIA
L’ansia negli ultimi decenni è stata oggetto di numerosi studi, che si sono
sviluppati in tutte e 3 le aree principali di ricerca in cui l’ansia ha una maggiore
importanza; esse sono: emozione, personalità e psicologia clinica o anormale.
Sono state affrontate numerose discussioni, ma le principali sono quattro: quali
fattori determinano l’ansia; l’interrelazione tra sistemi cognitivi, psicologici e
comportamentali implicati nell’ansia; perché alcuni individui manifestano più
ansia di altri; similitudini tra normali ansiosi e pazienti ansiosi.
I teorici della personalità sono stati in disaccordo per decenni sul numero e
sulla natura dei fattori e caratteristiche della personalità. Cattel, Eber e Tatsouka
(1970) individuarono 16 fattori della personalità; per essere però più precisi,
questi non sono per Cattel gli unici tratti della personalità. Sono, comunque, i più
significativi, nel senso che spiegherebbero la maggior parte della varianza della
personalità degli adulti normali.
H.J. Eysenck (1967) stipulò una teoria trifattoriale, cioè basata su 3 fattori:
estroversione, nevroticismo e psicoticismo. Nell’arco della sua attività scientifica
H.J. Eysenck ha costruito una serie di test di personalità per misurare questi tre
fattori. Il più noto di questi è l’Eysenck Personality Questionnaire (EPQ;
Eysenck & Eysenck, 1975).
Recentemente i teorici hanno trovato un accordo nell’individuare 5 grandi fattori
della personalità, (teoria dei “Big Five”).
Il modello a 5 fattori di Costa e McCrae (1985), che si sostiene abbia ampia
generalizzabilità, forte ereditarietà e notevole stabilità nello sviluppo,
individuava i seguenti:
- estroversione: emotività espansiva e positiva. Il polo positivo di questo fattore è
rappresentato dall’emozionalità positiva e dalla socialità, laddove quello negativo
è rappresentato dall’introversione, ossia dalla tendenza ad ‘esser presi’ più dal
proprio mondo interno che da quello esterno. Gli introversi sono, infatti, meno
socievoli. Questo fattore corrisponde al fattore Estroversione di Eysenck.
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- amicalità (agreableness): calore, socievolezza. Il polo positivo di questo fattore
è rappresentato da cortesia, altruismo e cooperatività; il polo negativo da ostilità,
insensibilità ed indifferenza.
- coscienziosità: responsabilità, non impulsività. Questo fattore contiene nel suo
polo positivo gli aggettivi che fanno riferimento alla scrupolosità, alla
perseveranza, alla affidabilità ed alla autodisciplina e, nel suo polo negativo, gli
aggettivi opposti.
- nevroticismo: emotività ansiosa, negativa o ansia di tratto. Il polo positivo di
questo fattore è rappresentato da vulnerabilità, insicurezza ed instabilità emotiva.
Il polo opposto è rappresentato dalla stabilità emotiva, dalla dominanza e dalla
sicurezza. Tale fattore corrisponde al fattore Nevroticismo di Eysenck.
- apertura all’esperienza (openness): intellettualità, atteggiamento di ricerca. Il
polo positivo di questo fattore è rappresentato da creatività, anticonformismo ed
originalità. Il polo opposto è, invece, identificato dalla chiusura all’esperienza,
ossia dal conformismo e dalla mancanza di creatività ed originalità. Alcuni autori
definiscono questo fattore ‘intelligenza’ e ne considerano aspetti centrali la
cultura e la capacità di adattarsi all’ambiente. Il suo polo negativo sarebbe,
quindi, definito come ‘mancanza di intelligenza’. Questo fattore è alquanto
controverso, anche perché non tutti gli autori sono disponibili a considerare
l’intelligenza all’interno di una teoria di personalità.
Watson e Clark (1984) videro che ansia di tratto e nevroticismo avevano un
valore di correlazione di +0.70; ansia di tratto ed estroversione correlavano di
circa +0.30, mentre nevroticismo ed estroversione erano incorrelati.
Un’alta correlazione la notarono pure tra ansia di tratto, nevroticismo e
depressione.
Altre teorie hanno enfatizzato il ruolo dell’eredità e delle differenze individuali
nell’attività fisiologiche, e sono la teoria dell’ansia di tratto di Gray (1982) e la
teoria del nevroticismo di Eysenck (1967). Al loro seguito vennero fatte 2
principali assunzioni:
1) Le differenze individuali nella dimensione di personalità dell’ansia di tratto o
nevroticismo dipendono da una larga scala di fattori genetici. Secondo Eysenck
(1962) questi fattori hanno un contributo di circa due-terzi della varianza nelle
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principali dimensioni di personalità, mentre per Gray (1982) estroversione e
nevroticismo beneficiano di un contributo del 50% circa della varianza.
2) L’eredità influenza il livello di ansia di tratto e nevroticismo tramite il sistema
fisiologico. Per Eysenck (1962) il tutto dipende da un sistema detto “visceral
brain”, che comprende ippocampo, amigdala, cingolo, setto e ipotalamo. Gray
(1982) ha individuato strutture simili dette “behavioural inhibition system”: il
sistema setto-ippocampale, le sue proiezioni neocorticali al lobo frontale e le sue
afferenze monoamminergiche dal tronco cerebrale.
Per evidenziare meglio il ruolo dell’eredità nel determinare l’ansia di tratto e
nevroticismo, vennero fatti studi su gemelli.
Infatti Eysenck & Prell (1951), che studiarono il nevroticismo, trovarono una
correlazione tra gemelli monozigoti di +0.85, contro +0.22 dei gemelli dizigoti.
Questi loro risultati mostrarono che l’80% delle differenze individuali dei
nevrotici sono dovute all’ereditarietà.
Lo studio più ampio sul nevroticismo tra gemelli fu fatto da Floderus-Myrhed,
Pedersen e Rasmusson (1980) i studiarono oltre 12000 coppie di gemelli,
trovando una correlazione di +0.50 tra monozigoti e +0.23 tra dizigoti.
In conclusione è difficile prevedere una percentuale esatta, ma sui può affermare
che i fattori genetici hanno un contributo del 30% circa della varianza nell’ansia
di tratto o nevroticismo.
Gray (1982) propose una teoria della personalità centrata su due dimensioni
primarie: ansia ed impulsività. Tali dimensioni possono essere concepite come
una rotazione delle dimensioni eysenckiane di estroversione e nevroticismo.
Inoltre, individuò che il sistema setto-ippocampale era coinvolto nell’ansia, e lo
scoprì da due evidenze di ricerca:
- varie droghe anti-ansia, come alcol, barbiturici e benzodiazepine, possono avere
effetti sul comportamento.
- lesioni al sistema setto-ippocampale nei ratti e altre specie produce, a livello
comportamentale, effetti diversi.
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Williams (1988) stipulò un’altra teoria che rendeva conto dell’ansia clinica e
della depressione, con una distinzione tra integrazione (o priming) ed
elaborazione.
Il priming è un processo automatico in cui una parola stimolo produce
attivazione delle componenti varie, incluse le rappresentazioni interne.
L’elaborazione è un processo strategico in cui l’attivazione delle
rappresentazioni interne di una parola presentata conduce all’attivazione di
rappresentazioni interne associate.
Quindi la distinzione tra priming ed elaborazione è di grande rilevanza al fine di
capire le differenze cognitive associate all’ansia e depressione.
L’elevata ansia di tratto provvede ad una costante tendenza a dirigere l’attenzione
verso la minaccia, mentre una bassa ansietà di tratto è associata ad una tendenza
a dirigere l’attenzione lontana dalla minaccia.
Williams et al. (1988) applicarono la loro teoria ai bias di memoria negativa (la
tendenza della memoria a ricordare più parole correlate a minaccia piuttosto che
quelle non correlate a minaccia) e videro che la depressione è associata a bias di
memoria negativa, ma non a quelli di memoria implicita.
1.2 LA TEORIA COGNITIVA DELL’ANSIA DI TRATTO
La teoria cognitiva dell’ansia di tratto di Eysenck (1992) ha come punto di
partenza l’assunzione che la funzione più importante che ha l’ansia è di facilitare
la rilevazione precoce di un pericolo sovrastante, incombente, in ambienti
potenzialmente minacciosi.
Il teorico vide che i soggetti con alta ansietà hanno errori di memoria negativa
nella memoria esplicita, cioè una tendenza a ricordarsi in maniera sproporzionata
informazioni relative a minaccia piuttosto che quelle non relative a minaccia.
Nel suo primo studio sui bias dell’attenzione selettiva da parte di soggetti molto
ansiosi, Eysenk utilizzò un ascolto dicotico in cui alcune paia di parole furono
presentate simultaneamente in ciascun orecchio. Le parole presentate all’orecchio
atteso dovevano essere mascherate ed erano un mix di parole neutrali,
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socialmente minacciose e fisicamente minacciose; mentre le parole all’orecchio
non-atteso, che erano affettivamente neutrali, venivano ignorate.
A volte un tono veniva presentato in un orecchio appena dopo la presentazione
del paio di parole, e i soggetti erano istruiti a rispondere a questo tono il più
velocemente possibile. I facilitatori (soggetti con alta ansietà di tratto)
rispondevano velocemente al tono se questo era nell’orecchio atteso, e più
lentamente se era nell’orecchio non-atteso. Gli inibitori (soggetti con bassa
ansietà di tratto) manifestavano risposte esattamente contrarie ai facilitatori, cioè
prestavano poca attenzione all’orecchio in cui era stata appena presentata una
parola minacciosa.
Eysenck et al. (1987) studiarono inoltre i bias interpretativi e videro che i
soggetti con alta ansietà di tratto ne commettevano con elevata frequenza.
Le parole omofone, che possono avere un’interpretazione neutrale o relativa a
minacce (die, dye; pain, pane; ecc...), furono presentate uditivamente e i soggetti
dovevano scrivere ciascuna parola loro presentata. La correlazione tra ansia di
tratto e il numero di parole omofone correlate a minaccia interpretate era di
+0.60.
In un altro studio Calvo ed Eysenck (1995) studiarono i bias interpretativi in un
contesto in cui i soggetti dovevano nominare delle parole che seguivano alcune
frasi ambigue. I risultati mostrano come i soggetti molto ansiosi tendono ad
interpretare le frasi ambigue in modo auto-minaccioso.
MacLeod (1990) dimostrò come i bias interpretativi dipendono interattivamente
dall’ansia di tratto e dal corrente livello dello stato di ansia e dello stato di
arousal (attivazione fisiologica). Nel suo studio più importante presentò una serie
di frasi ambigue, ciascuna seguita da parole fortemente associate a possibili
interpretazioni; i soggetti dovevano nominare quest’ultima parola il più
velocemente possibile. Quelli con alta ansia di tratto erano più veloci nel
nominare parole con interpretazioni minacciose nella condizione in cui la loro
situazione nell’ansia di stato era alta piuttosto che bassa. Per i soggetti con bassa
ansia di tratto succedeva il contrario.
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Vennero studiati anche i bias di memoria negativa e Blaney (1986) trovò che
erano dovuti non solo all’ansia, ma anche alla depressione; Martin (1983),
invece, a seguito dei suoi studi, li vide associati al nevroticismo piuttosto che alla
depressione.
Negli anni ’90 ci fu una forte distinzione tra memoria implicita ed esplicita.
La memoria implicita è data da esperienze precoci che facilitano la prestazione
ad un compito che non richiede coscienza o un ricordo intenzionale di quelle
esperienze.
La memoria esplicita si ha quando la performance ad un compito è data da un
ricordo coscio delle esperienze passate o precedenti.
Un bias di memoria negativa nella memoria esplicita non implica che debba
esserci pure nella memoria implicita.
1.3 L’EMOZIONE
Con il termine di "emozione" ci si riferisce solitamente a sensazioni positive o
negative che vengono prodotte da particolari situazioni, come quando si ha paura
di fronte ad un pericolo (vero o presunto) o si gioisce per una buona notizia.
Possiamo considerare una emozione formata da tre diverse componenti:
comportamento o risposta muscolare, risposta vegetativa, risposta ormonale. Le
tre componenti sono tra loro strettamente correlate dato che il comportamento, o
risposta muscolare, viene facilitato dalla componente vegetativa e questa a sua
volta è potenziata dalla risposta ormonale.
Così, ad esempio, se ci troviamo di fronte ad un pericolo improvviso, l’emozione
più probabile sarà quella della paura e la risposta comportamentale potrà essere
quella di lotta e/o fuga (fight or fly). Sia la lotta che la fuga, comunque,
prevedono l’attivazione di specifici muscoli scheletrici (compresi quelli mimici)
cosa che richiede un maggior dispendio energetico. A questo provvede il Sistema
Nervoso Autonomo (SNA) con un aumento dell’attività simpatica ed una
riduzione di quella parasimpatica.
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Questo significa una accelerazione del battito cardiaco, un aumento della
pressione arteriosa, della ventilazione polmonare, una mobilitazione delle riserve
energetiche, che si risolvono in un maggior apporto di ossigeno e glucosio ai
muscoli interessati, ed una contemporanea riduzione delle attività non
strettamente indispensabili come quella digestiva o sessuale.
La componente ormonale, che nel nostro caso può essere esemplificata nella
produzione di adrenalina-noradrenalina da parte della midollare del surrene,
aumenta ulteriormente l’afflusso di sangue ai muscoli, stimolando al contempo la
mobilizzazione delle riserve energetiche. Almeno alcune delle reazioni
fisiologiche che si accompagnano alle emozioni, possono venire colte da altri
individui, come ad esempio un improvviso rossore o una particolare espressione
del viso, finendo col divenire una forma di comunicazione, spesso involontaria.
La comunicazione, in biologia, è quell’azione compiuta da un organismo che
altera la distribuzione di probabilità del comportamento di un altro organismo in
modo adattivo per l’uno o per l’altro o per entrambi i partecipanti. La
comunicazione non è né il segnale in sé né la risposta, bensì la relazione esistente
tra l’uno e l’altra.
Gli animali (e quindi anche l’uomo) emettono un gran numero di segnali che
hanno il significato di atti comunicativi. A volte questi atti comunicativi
avvengono in maniera volontaria e cosciente come nel caso di una frase o di un
gesto rivolti ad un altro soggetto, a volte avvengono all’insaputa o contro la
volontà dell’emittente, come quando si arrossisce di vergogna, situazione in cui il
ricevente, se presta attenzione, è in grado di “ricevere il messaggio”, ma altre
volte certi atti comunicativi non vengono normalmente colti se non da riceventi
particolarmente allenati.
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1.3.1 LE TEORIE SULLE EMOZIONI
La prima teoria fisiologica sulle emozioni fu quella dello psicologo americano
W. James (1884), detta anche teoria periferica. Più o meno
contemporaneamente, anche se separatamente, una teoria analoga venne proposta
da un fisiologo danese, C. Lange (1887).
Lo scopo che entrambi si proponevano era di sfidare quella che essi definivano la
teoria del senso comune, secondo la quale, quando a qualcuno viene chiesto
perché trema, di solito risponde: "Perché ho paura", oppure, alla domanda perché
piange, replica: "Perché sono triste". Queste risposte implicano la convinzione
che prima vengono le sensazioni, le quali, a loro volta, producono gli aspetti
fisiologici ed espressivi delle emozioni. Secondo James e Lange, bisogna
combattere la teoria del senso comune, dal momento che non piangiamo perché
siamo tristi, ma ci sentiamo tristi perché piangiamo; non tremiamo perché siamo
spaventati, ma proviamo paura perché stiamo tremando. Il cuore non batte più in
fretta perché siamo arrabbiati, ma siamo in collera perché il cuore batte più in
fretta. Gli studi successivi (Izard, 1979; Schwartz et al., 1976) hanno sostenuto la
tesi a proposito delle espressioni facciali: non ridiamo perché siamo felici, ma
proviamo una sensazione piacevole perché ridiamo.
La teoria di James e Lange sostiene che l’emozione è la sensazione di
modificazioni fisiologiche; inoltre i due autori evidenziarono meccanismi
fisiologici differenti. Per James, le basi fisiologiche delle sensazioni erano le
viscere (lo stomaco e il cuore, ad esempio), l’attività motoria e la tensione
muscolare (lo stringere i pugni o le modifiche dell’espressione facciale indotte
dai muscoli mimici), mentre per Lange erano le modificazioni del battito
cardiaco e la pressione sanguigna. L’individuo percepisce queste attivazioni
periferiche (feedback) e questo dà luogo all’emozione.
Così citava James: “Le modificazioni corporee seguono direttamente la
percezione di un fatto eccitante…la nostra sensazione delle modificazioni che
intervengono è l’emozione…Se immaginiamo un’emozione intensa e poi
cerchiamo di estrarre dalla consapevolezza che ne abbiamo tutte le sensazioni
relative ai suoi sintomi somatici, scopriamo che non abbiamo tralasciato nulla,
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nessun "contenuto mentale" senza il quale non vi può essere emozione e che tutto
ciò che resta è uno stato, freddo e neutrale, di percezione intellettuale
(James,1890).”
Se così il cervello percepisce tremore della muscolatura volontaria e senso di
inquietudine,questo viene identificato con l’emozione detta paura. Questo punto
di vista fu criticato dal fisiologo W. Cannon (1927) che obiettava come il
feedback sensoriale proveniente dagli organi non fosse sufficiente a rendere
conto delle nostre sensazioni emotive, anche perché esperimenti di resezione dei
nervi che convogliano informazioni dei visceri verso il cervello non alteravano il
comportamento emozionale.
Questo portò Cannon ad opporre alla teoria periferica una teoria detta centrale.
Secondo Cannon (1927) i centri di attivazione controllo e regolazione delle
emozioni sono localizzati nella regione talamica. Sarebbero quindi questi segnali
nervosi provenienti dal talamo a provocare l’attivazione.
J.W. Papez, attorno agli anni trenta, sviluppò l’idea di Cannon dell’esistenza di
due vie per l’attivazione del sistema emotivo. L’una consisteva nell’invio di
informazioni dal talamo all’ipotalamo da dove si originavano le reazioni emotive
(flusso dei sentimenti), l’altra invece prevedeva il passaggio delle informazioni
dal talamo alle aree laterali della corteccia, ed era questa seconda via che,
secondo Papez, dava vita ai sentimenti e alle emozioni coscienti (flusso dei
pensieri).
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, MacLean riprese la teoria di
Papez rendendola di più ampio respiro. Ritenendo come gli altri che sia
l’ipotalamo sia la corteccia svolgessero un ruolo fondamentale nell’esplicarsi
dell’esperienza emotiva, cercò di capire in che modo l’esperienza del valore
emotivo degli input ambientali potesse condurre alle risposte viscerali e
comportamentali tipiche degli stati emotivi. Di fatto si sapeva che la neocorteccia
non presentava significativi legami con l’ipotalamo a differenza delle regioni
evoluzionisticamente più antiche di essa (corteccia mediale). Inoltre
sperimentalmente si era verificato che solo la stimolazione delle zone della
corteccia mediale innescava le risposte del SNA (come le variazioni della
frequenza cardiaca, della respirazione...), mentre quella della neocorteccia non
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si associava a nessuna di esse. MacLean propose allora di chiamare l’ipotalamo,
e le strutture ad esso connesse del rinencefalo, cervello viscerale. Egli era
profondamente convinto che non si potesse trascurare il ruolo del cervello
viscerale per l’esplicarsi delle emozioni. Sebbene, infatti, nella formazione di
stati emotivi complessi e coscienti il cervello viscerale lasci il posto alle
elaborazioni della neocorteccia, tuttavia esso continua a presentarsi come
essenzialmente coinvolto nelle risposte automatiche dell’organismo tipiche di
ogni stato emotivo. Secondo la prospettiva adottata da MacLean il cervello
viscerale continua a svolgere nell’uomo la stessa funzione che aveva negli
animali primitivi privi ancora della neocorteccia, la quale rappresenta uno
stadio successivo dell’evoluzione neuronale. Se questa, infatti, risulta collegata
al manifestarsi delle funzioni superiori dell’uomo, come ad esempio il
ragionamento o anche l’articolazione della muscolatura, il cervello viscerale
sembra piuttosto che debba collegarsi alla capacità del soggetto di manifestare
reazioni istintive e di provare sentimenti ed impulsi necessari alla sopravvivenza.
E nel corso dell’evoluzione la funzione del cervello viscerale sarebbe rimasta
sostanzialmente invariata.
Il cervello viscerale, essendo strutturalmente diverso dalla neocorteccia, non
avrebbe le capacità analitiche di quest’ultima, ragion per cui esso, secondo
MacLean, si rivela fondamentalmente inadatto ad analizzare il linguaggio
connesso alle emozioni. Piuttosto sembra più sensato ipotizzare che il cervello
viscerale si colleghi a qualche tipo di simbolismo non verbale, visto il potere di
ogni simbolismo di influenzare la nostra vita emotiva.
Quindi possiamo mettere in risalto il fatto che la teoria proposta da MacLean non
è poi molto dissimile dalla teoria della retroazione di James. Infatti, alla base
delle emozioni ci sono le reazioni viscerali indotte nell’organismo dagli stimoli
esterni. I sentimenti, o le emozioni coscienti, sono tuttavia per MacLean il
risultato dell’integrazione degli input ambientali con gli input provenienti
dall’ambiente interno.
Zajonc (1980), nell’opera “Feeling and Thinking: Preferences Need no
Inferences”, sostiene, contro l’impostazione cognitivista, che le emozioni
possono in realtà prodursi senza che ci sia un riconoscimento dello stimolo.
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