Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
regime nei confronti del mercante insolvente derivarono sia da
esigenze di ordine pubblico - per lo scandalo che sarebbe seguito al
fallimento di un mercante - sia da un motivo più evidente, quello cioè
della maggiore facilità per mercanti e banchieri di ritrovarsi in stato di
insolvenza, data la loro continua ricorrenza a credito e pagamenti
differiti nell’esercizio della loro attività
3
.
Nel nostro ordinamento la disciplina del fallimento fu delineata
originariamente in ossequio al principio di separazione tra la
legislazione civile contenuta nel codice civile e quella commerciale
contenuta nel codice di commercio; solo nel 1942 si procedette alla
unificazione delle due materie, concentrandole in un unico testo
normativo, il codice civile per l’appunto. A tale unificazione sfuggì
proprio la materia fallimentare, la quale trovò sistemazione nel r.d.l.
16 marzo 1942 n. 267 (c.d. legge fallimentare), recentemente
riformata con il d.l. 14 marzo 2005 n. 35, convertito con la l. 14
maggio 2005 n. 80 e con successivo d.lgs. 9 gennaio 2006 n. 5.
L’articolo 1 (vecchio testo) della legge fallimentare sanciva
espressamente che “Sono soggetti alle disposizioni sul fallimento gli
imprenditori
4
che esercitano una attività commerciale, esclusi gli enti
3
In tal senso PECORELLA - GUALAZZINI, op. cit., p. 220 ss.
4
Dal punto di vista comparatistico è interessante notare come il fallimento, in ordinamenti come
quello anglosassone, sia riservato a qualsiasi soggetto versi in stato di insolvenza, non soltanto agli
imprenditori, come avviene invece per espressa scelta del legislatore fallimentare italiano.
2
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
pubblici e i piccoli imprenditori”. Numerose furono le problematiche
sorte in dottrina e giurisprudenza riguardo l’individuazione specifica
dei soggetti esonerati dal fallimento, anche in funzione della necessità
di una lettura in chiave sistematica della norma in esame.
In linea generale, in virtù dell’espressa previsione della norma in
esame, dal fallimento rimanevano esclusi, nell’ambito dell’aspetto
privatistico della problematica, gli imprenditori esercenti un’attività
non commerciale (imprenditore agricolo) e il piccolo imprenditore.
Nei paragrafi seguenti si cercherà di vagliare le varie problematiche
inerenti i soggetti esonerati dalla disciplina fallimentare.
1.2.1 Il piccolo imprenditore
Particolarmente complessa è l’individuazione del concetto di piccolo
imprenditore cui fare riferimento per l’applicazione delle disposizioni
fallimentari, alla luce soprattutto dei diversi concetti che emergono
dalla sistematica codicistica.
La prima disposizione cui fare riferimento è l’articolo 2083 del codice
civile, il quale definisce piccoli imprenditori “i coltivatori diretti del
fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano
un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro
proprio e dei componenti della famiglia”. Ci si è domandato se l’art.
3
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
2083 abbia voluto comprendere le tre categorie contenute nella prima
parte della norma - coltivatori diretti, artigiani, piccoli commercianti -
nella definizione unica inserita nella seconda parte della disposizione
stessa, relativa alla prevalenza del lavoro proprio e della propria
famiglia nell’esercizio dell’attività economica, oppure se la figura di
piccolo imprenditore connessa con il criterio della prevalenza sia da
considerare come una categoria a se stante. Autorevole dottrina
5
ha
risolto tale quesito nel senso di ritenere tale ultima specie di piccolo
imprenditore come un aspetto di carattere integrativo, che serve a
fissare un criterio generale, di modo che vengano perciò considerati
piccoli imprenditori tutti coloro che rientrano nelle tre categorie
indicate nella norma, indipendentemente dalla prevalenza del lavoro
proprio e della propria famiglia sul capitale. Il legislatore codicistico,
pertanto, aveva scelto un criterio definito “domestico” o “familiare”
del piccolo imprenditore
6
, costruendo una norma (il 2083 cod. civ.)
dal contenuto generico, e definendo il piccolo imprenditore in una
maniera molto labile rispetto a quella che era la legge fallimentare
7
.
Conseguentemente, il legislatore si era preoccupato di intervenire
5
In tal senso DI LAURO, Il piccolo imprenditore ed il fallimento, in Diritto fallimentare e delle
società commerciali, 1991, I, p. 12.
6
POGGESCHI, Il piccolo imprenditore dopo l’intervento della corte costituzionale, in Atti del
Convegno di Udine, 1993, p. 56.
7
VINDIGNI, Piccolo imprenditore: decisioni nuove, problemi vecchi, nota alla Sentenza Trib.
Firenze, 31 luglio 1990, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, 1990, II, p. 1477 ss.
4
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
indirettamente sul 2083 cod. civ., inserendo così due nuovi criteri per
l’individuazione del piccolo imprenditore, per meglio definire, con un
parametro quantitativo, la figura del piccolo commerciante ai fini
fallimentari
8
, come risulta anche dalla relazione, n. 4, sulla legge
fallimentare; tali criteri sono quindi formulati nell’art. 1 comma
secondo della legge fallimentare vecchio testo, il quale stabilisce che
“sono piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività
commerciale, i quali sono stati riconosciuti, in sede di accertamento
ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di un reddito inferiore
al minimo imponibile. Quando è mancato tale accertamento sono
considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività
commerciale nella cui azienda risulta essere stato investito un
capitale non superiore a lire novecentomila. In nessun caso sono
considerate piccoli imprenditori le società commerciali”. La ratio di
tale formulazione dell’art. 1 comma 2 legge fallimentare, con la
proposizione dei due criteri del reddito accertato ai fini
dell’applicazione dell’imposta sulla ricchezza mobile (criterio
integrativo) e quello del capitale investito (criterio sussidiario) è da
ricercare in una espressa scelta di politica legislativa, rivolta a
8
PACINI, Piccoli imprenditori e fallimento: urgenza di una riforma, in Diritto fallimentare e delle
società commerciali, 1974, I, p.102; RAGUSA MAGGIORE, Diritto fallimentare, I, Napoli, 1974,
p. 8 ss. Secondo l’Autore la differenza tra imprenditore commerciale piccolo o non piccolo è data
non dall’oggetto ma dalla struttura dell’impresa. Il criterio prevalente è perciò solo quello
quantitativo.
5
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
soddisfare l’esigenza di sottrarre alle procedure concorsuali i piccoli
imprenditori, che già all’epoca dell’emanazione della legge
fallimentare esistevano nel nostro sistema economico, e alla cui
attività era da ricondurre gran parte della produzione e scambio di
beni e servizi esistente nel nostro paese; vi era perciò l’esigenza di
salvaguardare tale delicata categoria imprenditoriale, proteggendoli da
un eventuale fallimento, che avrebbe minato la palese esiguità
dell’attività di impresa, proprio per non distruggere quel patrimonio
economico produttivo che essi costituivano nell’insieme
9
.
Storicamente, la problematica inerente i criteri di individuazione del
piccolo imprenditore, soprattutto alla luce di una sua non fallibilità,
scaturisce dalla difficoltà di far coincidere le due definizioni contenute
nel codice civile e nella legge fallimentare, come sopra descritte.
Il criterio generale fissato dal diritto comune per individuare il piccolo
imprenditore, infatti, è un criterio qualitativo, riguardante la specie di
un’attività esercitata dall’imprenditore, prevalentemente con il lavoro
proprio e della propria famiglia, mentre la legge fallimentare nella
formulazione del 1942 considerava delle qualità relative sia al reddito
prodotto che al capitale investito nell’azienda.
9
VINDIGNI, op.cit., p. 1478.
6
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
Alcuni autori attribuivano alle due norme funzioni autonome, nel
senso che l’articolo 2083 definiva il piccolo imprenditore, mentre
l’art. 1 legge fallimentare avrebbe avuto l’unica funzione di fissare il
confine tra la fallibilità o meno dell’imprenditore, piccolo o non
piccolo. Altri ritenevano che le due norme andassero considerate
unitariamente, nel senso che l’art. 1, L. fall. avrebbe integrato la
generica definizione di cui all’art. 2083 cod. civ
10
. Vi era, infine chi
poneva l’art. 1 L. fall., semplicemente sul piano della prova, nel senso
che i limiti di reddito o di capitale investito, se non superati, avrebbero
in via di presunzione posto l’imprenditore al sicuro dal fallimento
11
.
10
In tal senso la prevalente giurisprudenza di merito, nella sentenza n. 2581 del 15 luglio 1958,
dove si disse che “l’art. 1 legge fallimentare è una norma integrativa dell’art. 2083 cod. civ. e tale
interpretazione non può non riferirsi che a quegli imprenditori che esercitano un’attività
commerciale poiché essi soltanto sono soggetti, in caso di insolvenza, alle procedure del
fallimento e del concordato preventivo secondo l’art. 2221 cod. civ. e poiché tra i piccoli
imprenditori sono compresi i piccoli commercianti, è ovvio che con l’art. 1 legge fallimentare si è
inteso fornire la nozione giuridica di questa categoria allo scopo di fissarne le caratteristiche
fondamentali ed escluderla dalle disposizioni fallimentari in genere”. Cfr. DI LAURO, op. cit.,, p.
13 ss.
11
In tal senso TABELLINI, Il piccolo imprenditore … nonostante tutto, nota alla Sentenza Trib.
Torino, 13 ottobre 1987, in Giurisprudenza commerciale, 1988, p. 978.; si riporta l’analisi di altri
autori circa il coordinamento delle due disposizioni: FERRATA, Piccolo imprenditore e
fallimento, in Rivista di diritto civile, Padova, 1984, p. 54, secondo il quale i principali tipi di
collegamento sono quattro: conciliazione piena o relativa al piccolo commerciante, distinzione dei
campi, trasformazione della norma fallimentare in una presunzione. Egli sostiene che “chi adotta
la prima tesi considera l’art. 1 legge fallimentare come una orma non autonoma, rivolta a
sviluppare nozioni che nel codice sono soltanto nominate o definite in modo generico. Chi adotta
la tesi della conciliazione parziale cerca di superare ogni ostacolo nascente dall’esistenza di due
definizioni non identiche sostenendo che il codice in realtà non contiene una vera definizione del
piccolo imprenditore. Coloro che adottano la terza tesi considerano che il codice e la Legge
facciano riferimento a una soluzione. L’ultima tesi risolve la questione sostenendo che il piccolo
imprenditore resta a tutti gli effetti definito in via esclusiva nel 2083 cod. civ.”; DI LAURO, op.
cit., p. 14, adotta quattro definizioni per indicare le tesi proposte: abrogazione, pieno
coordinamento, limitata integrazione, chiarificazione. Egli sottolinea che “la prima tesi, presto
abbandonata, risolve l’antinomia tra le due definizioni ritenendo implicitamente abrogato l’art.
2083 cod. civ. per il valore normativo assorbente dell’art. 1 legge fallimentare. Una seconda tesi
secondo la quale la misura del capitale impiegato provocherebbe l’automatica esclusione del
soggetto dal novero dei piccoli imprenditori. La tesi della limitata integrazione dell’art. 2083 cod.
civ. da parte dell’art. 1 legge fallimentare, tesi secondo cui la norma civilistica avrebbe una
7
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
La situazione fu ulteriormente complicata dal venir meno, per effetto
della riforma fiscale di cui al D.P.R. 29 settembre 1973 n. 397, della
prima parte dell’articolo 1 comma 2 della legge fallimentare
12
, relativa
al reddito minimo imponibile (non sostituibile, salvo qualche isolata
voce sul tema, dal nuovo tributo sui redditi
13
); tale mutamento
costrinse perciò gli interpreti a ripiegare sul criterio degli investimenti,
coordinato con gli articoli 2083 e 2221 del codice civile. Numerosi
furono gli sforzi dei tribunali fallimentari
14
e della Corte di
Cassazione
15
per cercare di adeguare alla realtà imprenditoriale
portata più vasta di quella fallimentare, la quale introdurrebbe una sorta di presunzione assoluta
in ordine alla qualità di piccolo imprenditore. Per altri infine l’art. 1 legge fallimentare avrebbe
una funzione interpretatrice e chiarificatrice dell’art. 2083 cod. civ., nel senso che sarebbe rivolta
a precisare la sola figura del piccolo commerciante, non definita dal legislatore”.
12
In realtà parte della dottrina ha espresso parere negativo riguardo la reale caducazione del
criterio fiscale dell’art. 1 legge fall. a seguito della riforma tributaria. “… domandarsi se sia
davvero caducato con la riforma tributaria il criterio fiscale dell’art. 1 legge fall. A mio avviso la
risposta è negativa…In sostanza con l’art. 88 bis (dpr n. 597/1973) il legislatore ha voluto
colmare il vuoto creatosi, a seguito dell’abolizione dell’imposta di ricchezza mobile, nelle leggi
anteriori facenti ad essa richiamo, stabilendo il collegamento, per quanto concerne la ricchezza
mobile cat. B e C/1, col reddito di impresa che contribuisce a formare il reddito complessivo
soggetto all’imposta sulle persone fisiche, e regolando, poi, sia l’ipotesi in cui le leggi anteriori
facciano riferimento a quote o ad un determinato ammontare del reddito imponibile della vecchia
imposta, sia l’ipotesi in cui le leggi stesse si riferiscono alla non iscrizione nei ruoli dell’imposta
medesima ovvero, all’avvenuto accertamento di un reddito inferiore al minimo imponibile”. In tal
senso DEL VECCHIO, Un requiem costituzionale al secondo comma dell’art. 1 legge fall.,
Commento a Corte Costituzionale 22 dicembre 1989 n. 570, in Il diritto fallimentare e delle
società commerciali, p. 646 ss.
13
POGGESCHI, op. cit., p. 59.
14
I tribunali fallimentari, sensibili al divario fra la realtà economica e il solo criterio del capitale
investito, hanno infatti fatto violenza alla norma fallimentare spingendosi a sanare l’incapacità di
fallire di quei soggetti che - pur avendo investito nella propria azienda un capitale di molto
superiore dalle 900.000 lire - dimostrassero la prevalenza, nell’esercizio dell’impresa, del lavoro
professionale e familiare sugli altri fattori della produzione. In tal senso DI LAURO, Il piccolo
imprenditore ed il fallimento, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, 1991, vol I, p. 14.
15
VINDIGNI, op. cit., p. 1481 ss., sottolinea come “la corte di cassazione (cfr. Cassazione, 14
febbraio 1980, n. 1067, in Diritto fallimentare e delle società commerciali, 1980, II, p. 333 ss.)
non solo ha aderito alle sollecitazioni di certa autorevole dottrina, rivolta a considerare abrogata
implicitamente anche la seconda parte dell’art. 1 legge fallim. per effetto dell’avvenuta perdita di
efficacia della prima parte dello stesso comma, ma ha ribadito che il giudizio di prevalenza, al
quale l’art. 2083 ha affidato la determinazione della qualità di piccolo imprenditore, non può
prescindere dalla considerazione del capitale investito nell’azienda”.
8
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
dell’epoca un assetto normativo così controverso. Tale situazione
interpretativa così complessa rischiava però di rendere del tutto
inoperante la norma speciale di cui all’art. 1 comma 2 legge
fallimentare, e ciò ha impedito ai giudici italiani di andare oltre
l’interpretazione in eccesso del criterio del capitale investito, i quali
hanno fatto anzi lo sforzo di integrare le 900.000 lire di capitale
investito previste dalla norma speciale con altri elementi di
valutazione del criterio in esame, senza tuttavia sancire ufficialmente
l’annessione al sistema fallimentare dei criteri codicistici di cui all’art.
2083
16
.
Tale sforzo si è protratto sino al 1989, anno in cui la Corte
costituzionale ha emanato la famosa sentenza 22 dicembre 1989 n.
570, con la quale ha dichiarato che “è illegittimo, in relazione all’art.
3 Cost., l’art. 1, comma 2, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in
cui prevede che quando è mancato l’accertamento ai fini dell’imposta
di ricchezza mobile, sono considerati piccoli imprenditori gli
imprenditori esercenti un’attività commerciale nella cui azienda
risulta investito un capitale non superiore a lire novecentomila”. La
corte costituzionale, eliminando (in realtà solo parzialmente
17
, come
vedremo, dato che è stata trascurata l’ultima proposizione della norma
16
DI LAURO, op. cit., p. 12 ss.
17
Cfr. paragrafo 1.2.2, L’imprenditore artigiano e la società artigiana
9
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
in questione) il secondo comma dell’art. 1 legge fallimentare, ha
suggerito che, ai fini dell’assoggettabilità o meno alla procedura
fallimentare delle categorie del piccolo, medio e grande imprenditore
ed insolvente civile, categorie che hanno posizioni nettamente
differenziate, occorre un criterio assolutamente idoneo e sicuro che va
ricercato ex art. 2083
18
cod. civ., tenendo conto dell’attività svolta,
dell’organizzazione dei mezzi impiegati, dell’entità dell’impresa e
delle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale
19
,
altrimenti il fallimento per le imprese molto modeste finisce, a causa
della sua complessa procedura e aggravio di spese, con l’essere un
rimedio processuale impeditivo della tutela dei creditori e un mezzo di
18
Cfr. FAGIOLI, Il fallimento dell’artigiano e della società artigiana, 2003, p. 35 ss., dove
l’autore sottolinea che “la conseguenza che scaturisce dall’eliminazione del criterio fiscale e del
criterio correlato al limite di valore del capitale investito è che, nell’attuale assetto normativo, per
la delimitazione della categoria de piccolo imprenditore ai fini dell’esclusione del fallimento, deve
essere utilizzata soltanto la definizione racchiusa nell’art. 2083 c.c., il cui nucleo è costituito dalla
prevalenza, nell’organizzazione dell’attività produttiva, del lavoro del titolare dell’impresa e dei
componenti della sua famiglia”. In tal senso anche CASTAGNOLA, Il piccolo imprenditore e il
fallimento dopo la recente pronuncia della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza commerciale,
1991, p. 196; DI LAURO, op. cit., p. 16.
19
Cfr. Tribunale di Roma 18 marzo 1992, in Diritto fallimentare e delle società commerciali,
1993, vol. 2, p. 207, “… la qualità di piccolo imprenditore deve essere accertata in relazione al
genere di attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati nell’azienda, all’entità
dell’impresa, all’assoluta prevalenza della manodopera rispetto all’esiguo capitale investito”. In
tal senso anche Tribunale Torino 6 dicembre 1995, in Il fallimento, 1996, vol. 3, p. 297; Tribunale
di Verona 16 febbraio 1990, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 1992, vol. 2, p.
281; Cass. Civ. sez I 4 marzo 2005 n. 4784, in Il fallimento, 2005, vol. 11, p. 1315; Corte di
appello di Firenze 14 novembre 2000, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2001,
vol. 2, p. 980, dove la corte sostiene che “per l’individuazione del piccolo imprenditore il criterio
legato alla prevalenza del lavoro proprio e dei propri familiari e dell’organizzazione che assume
l’aspetto di impresa non piccola, quando sussista autonoma capacità produttiva va integrato col
criterio dell’allarme sociale che l’insolvenza può determinare nel mondo economico. Quando
sussista questo allarme, il soggetto non può essere definito piccolo imprenditore, tenuto conto
degli altri due elementi considerati”.
10
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
difesa insufficiente
20
. Di conseguenza, è ovvio che l’unico mezzo
rimasto per individuare la figura di piccolo imprenditore è l’art. 2083
cod. civ., e tutte le problematiche relative ad un eventuale
coordinamento tra la suddetta disposizione e l’ormai abrogato art. 1
comma 2 legge fallimentare scompaiono definitivamente, non avendo
più motivo di esistere.
Tuttavia la questione diventa più complessa, poiché l’espressione
piccolo commerciante assume veste autonoma
21
, e si rende perciò
necessario lasciare alla valutazione dei singoli giudici l’individuazione
della figura in esame, col rischio che tale concetto diventi variabile da
tribunale a tribunale
22
; numerosi e differenti sono stati perciò gli sforzi
della dottrina
23
per cercare di dare un trattamento il più possibile
20
Cfr. CALVO, La fallibilità del piccolo imprenditore alla luce dell’art. 2083 c.c., Commento a
Corte costituzionale 22 dicembre 1989 n. 570, in Giurisprudenza italiana, 1990, vol I, p. 879 ss.;
DEL VECCHIO, op. cit., p. 645 ss.
21
In realtà secondo alcuni la definizione di piccolo commerciante era già contenuta nell’art. 1
della legge fallimentare. In questo senso FERRARA jr.-CORSI, Gli imprenditori e le società,
Milano, 1987, p. 74.
22
Cfr. Tribunale Verona 16 febbraio 1990, op. cit., p. 178 ss., dove si sostiene che “... la qualità di
piccolo imprenditore deve essere accertata, a norma dell’art. 2803 c.c., in base al criterio della
prevalenza del lavoro proprio dell’imprenditore e dei componenti la sua famiglia rispetto agli
altri fattori della produzione, con riferimento all’ultimo anno di esercizio dell’impresa (…tale
requisito si considera esistente quando capitale investito non sia superiore a 30 milioni di lire)”;
Tribunale Firenze 18 ottobre 1990, in Giurisprudenza Commerciale, 1991, vol. 2, p. 179, “è
considerato piccolo imprenditore e come tale non è assoggettabile a fallimento l’imprenditore
commerciale che abbia investito nella sua impresa un capitale non superiore a 150 milioni di
lire”; Corte di appello di Firenze 14 novembre 2000, op. cit., p. 980 ss., dove la Corte sostiene che
“per l’individuazione del piccolo imprenditore il criterio legato alla prevalenza del lavoro proprio
e dei propri familiari e dell’organizzazione che assume l’aspetto di impresa non piccola, quando
sussista autonoma capacità produttiva va integrato col criterio dell’allarme sociale che
l’insolvenza può determinare nel mondo economico”.
23
DEL VECCHIO, op. cit., p. 651. L’autore sostiene infatti che “per determinare in maniera
specifica la figura dei piccoli commercianti… a me sembra che tale criterio possa rinvenirsi
nell’orientamento seguito dal legislatore nel fissare quale parametro e ordine di grandezza del
capitale investito, ai fini dell’individuazione dell’imprenditore piccolo o medio-grande, il limite di
11
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
uniforme alla materia in questione, nonostante l’eccessiva
diversificazione da parte dei giudici italiani nell’individuare i criteri
per definire la figura di piccolo imprenditore.
Alcuni
24
hanno addirittura parlato di un art. 2083 inadatto a risolvere
tutti i problemi inerenti il piccolo imprenditore nella new economy, in
settori nuovi ed emergenti come ad esempio l’e-commerce.
1.2.2 L’imprenditore agricolo
L’art. 2135 cod. civ. stabilisce che “è imprenditore agricolo chi
esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo,
selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse.”
Fondamentalmente, la figura di imprenditore agricolo è riconducibile
al più generale concetto di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 cod.
civ., e quindi, ai sensi del combinato disposto degli artt., 2221 e 2195
lire 30.000 nel 1942 e di lire 900.000 nel 1952… Seguendo tale orientamento che, essendo del
legislatore, non può essere tacciato di arbitrarietà, si ottiene, ragguagliando in base agli indici
ISTAT di svalutazione monetaria l’originario limite di lire 30.000 all’attuale situazione
economica, quello di lire 17.000.000, con la conclusione che non può essere assoggettato a
fallimento l’imprenditore esercente un’attività commerciale nella cui azienda risulta essere stato
investito un capitale non superiore a lire 17.000.000”. Contra GHIDINI, La nozione di piccolo
imprenditore secondo la più recente legislazione, in Il diritto fallimentare e delle società
commerciali, 1978, p. 358, il quale sostiene invece che “per individuare attualmente la figura del
piccolo imprenditore occorre aver riguardo oltre al capitale ragguagliato, anche alla prevalenza
del lavoro del titolare e dei suoi familiari rispetto al lavoro dei dipendenti estranei e al capitale
stesso”; la maggior parte degli autori fanno però riferimento alla prevalenza del lavoro proprio o
dei familiari sul lavoro altrui e sul capitale investito, cfr. CASTAGNOLA, op. cit., p. 196;
MUZZIOLI, Il piccolo imprenditore dalla Corte costituzionale ai tribunali fallimentari,
Commento a Tribunale di Roma 18 marzo 1992, in Il diritto fallimentare e delle società
commerciali, 1993, vol. 2, p. 211 ss.; LA MATTINA, La figura del piccolo imprenditore al fine
della legge fallimentare…, Commento a Tribunale di Verona 16 febbraio 1990, in Il diritto
fallimentare e delle società commerciali, 1992, vol. 2, p. 281 ss.
24
PILLA, Note minime sul criterio della cosiddetta prevalenza nella nozione di piccolo
imprenditore virtuale, in Giurisprudenza commerciale, 2001, vol. 1, p. 619 ss.
12
Capitolo 1_________________________________________________________________________________________
cod. civ., è esentata dal fallimento dato che esercita un’attività non
commerciale
25
. L’esenzione da tale disciplina si estende,
normalmente, anche alla società agricola
26
, trattandosi di attività
diversa da quella strettamente commerciale, anche se non manca chi
ha distinto tra società agricole semplici, esentate dalle procedure
concorsuali, e società agricole commerciali (srl, sas, spa, soc.
cooperative), assoggettate a fallimento
27
.
Numerose sono state le pronunce delle Corti italiane in materia di
impresa agricola, per cercare di allargare sempre più la figura di
imprenditore agricolo, al fine di definire al meglio i soggetti fallibili
nell’ambito dell’esercizio dell’attività
28
.
25
ILARIA, Imprenditore ittico e fallimento, in Diritto fallimentare, 2002, vol. 1, p. 476 ss.;
Tribunale Cagliari 18 febbraio 1995, in Rivista di diritto agrario 1996, vol. 2, p. 301, secondo cui
sussistono i presupposti per la dichiarazione di fallimento di una società il cui oggetto sociale
dichiarato sia formalmente agricolo, qualora l’attività concretamente svolta debba essere
qualificata come commerciale.
26
Tribunale S. Maria Capua Vetere 23 luglio 2002, in Il fallimento, 2003, vol. 11, p. 1161 ss.
27
Cassazione 26 giugno 2001, n. 8694, in Il fallimento, 2002, p. 602, con nota di ANFUSO,
Condizioni di fallibilità dell’impresa collettiva: basta lo scopo o occorre anche l’effettivo esercizio
dell’attività commerciale?
28
Cfr. Cassazione civile, 7 marzo 1992, n, 2767, in Breviario di diritto fallimentare, SCHIANO
DI PEPE, Torino, 1998, p. 51 ss., dove la corte afferma che “al fine della dichiarazione di
fallimento e dell’applicazione delle regole sulle procedure concorsuali minori in ipotesi di
allevamento di bestiame, va riconosciuta natura commerciale e non agricola all’attività nella
quale la cura e l’alimentazione dei bovini, finalizzata alla crescita e all’ingrasso degli animali,
assume carattere accessorio e strumentale rispetto alla vendita dei medesimi e non è ricollegabile
alla conduzione del fondo agricolo e all’economia di essa.”; Tribunale Cagliari 18 maggio 1992,
in Breviario di diritto fallimentare, SCHIANO DI PEPE, Torino, 1998, p. 53 ss., dove il giudice
afferma che “è imprenditore agricolo e pertanto non può essere dichiarato fallito il viticultore che
vende vino prodotto con uva dei suoi fondi, senza l’impiego di tecniche di trasformazione e
commercializzazione particolarmente sofisticate: infatti su tale qualificazione non influisce il fatto
che al medesimo soggetto sia stato concesso un mutuo agevolato, classificato dalle leggi di
incentivazione come industriale a causa delle dimensioni non piccole dell’impresa
sovvenzionata”.
13