2. L’industria manifatturiera in Alto Adige: cenni storici
2.1. Premessa
Lo sviluppo dell’industria manifatturiera altoatesina non può essere
pienamente compreso senza tenere conto, oltre che dei fattori prettamente
economici, anche e soprattutto dagli avvenimenti storici e dalle scelte politiche
che ne hanno indirizzato in maniera decisiva lo sviluppo. In particolare,
l’annessione all’Italia sancita dal Trattato di Saint Germain del settembre del
1919 (ed effettivamente verificatasi il primo ottobre del 1920) comportò una
prima svolta nella politica economica per quello che riguarda lo sfruttamento
delle ingenti risorse idriche della provincia di Bolzano a scopo di produzione
idroelettrica. Furono poi l’avvento del regime fascista e la sua azione di
italianizzazione della popolazione e del territorio altoatesino a segnare un vero
e proprio punto di rottura con il passato, culminato con l’istituzione della zona
industriale di Bolzano nella seconda metà degli anni ’30. I nuovi stabilimenti
industriali insediati nella zona “Am Grutzen” (italianizzato in Agruzzo) non
rappresentarono semplicemente uno strumento di sviluppo economico della
nuova provincia ed una maniera di sfruttare direttamente in loco la disponibilità
di energia elettrica a buon mercato, ma anche il principale mezzo usato dal
regime fascista per sovvertire gli equilibri demografici in un capoluogo di
provincia a quel tempo ancora a netta maggioranza etnica tedesca.
2.2. Il Tirolo del Sud nell'Impero Austro-Ungarico
Nel diciannovesimo secolo l’economia dell’attuale provincia di Bolzano fu
toccata in maniera assai marginale dai rivolgimenti in atto in Europa sin dal
secolo precedente, a differenza di molte zone e centri limitrofi dell'Impero
Austro-Ungarico, come ad esempio Trento, Rovereto, la regione del Vorarlberg,
la valle dell'Inn ed altre valli nord-tirolesi, che invece conobbero un certo
sviluppo manifatturiero ed industriale. I ceti economicamente forti dell’economia
locale del Tirolo del Sud erano tradizionalisti e conservatori. L’economia era
orientata principalmente al commercio, alla silvicoltura, all’agricoltura
specializzata, con una tendenza interessante alla valorizzazione ed alla
trasformazione dei prodotti agricoli e all’industria turistica, per quanto
quest’ultima fosse ancora a livello embrionale ed elitaria.
Il primo stabilimento industriale nella provincia di Bolzano fu il Cotonificio
di Bolzano (Filosellspinnerei Kofler Hermann & Comp. nella originaria
denominazione tedesca) fondato nel 1848, ed ancora nel 1870 operavano
nell’attuale capoluogo altoatesino soltanto 6 società industriali, di cui due
chimiche, due tipografiche, una alimentare (conserve) ed il predetto cotonificio.
Nel 1890 la situazione sudtirolese non era significativamente diversa, gli addetti
4
alla produzione secondaria in città erano 410, mentre nelle zone limitrofe
1
gli
addetti erano 1.681. Anche il censimento austriaco del 1910, ultimo prima della
Grande Guerra, indicava una presenza piuttosto limitata del settore secondario
nell’attuale Alto Adige, nell’ordine del 15,1%, a fronte di un 55,4% nel settore
primario e del 29,5% nel settore terziario. La manifattura altoatesina scontava
anche le ridotte dimensioni medie (2,25 addetti) delle unità produttive e la
scarsa meccanizzazione, infatti solo il 24% di queste era dotato di motori, oltre
alla strutturale e cronica carenza di spazi collegata alla conformazione
territoriale.
2.3. L'annessione all'Italia e lo sfruttamento del potenziale
idroelettrico
L’Impero Austro-Ungarico disponeva di consistenti risorse di combustibili
fossili all'interno del proprio territorio, mentre le tecniche di trasporto dell'energia
elettrica erano ancora a livelli embrionali. Tali circostanze, tra le altre, avevano
fatto sì che l'ingentissimo potenziale idroelettrico del territorio altoatesino fosse
sfruttato in misura minima.
Al contrario, il Regno d'Italia non aveva a disposizione risorse di carbone
fossile ed appena il territorio della nuova provincia entrò sotto il controllo italiano
emerse subito la volontà di mettere a profitto il potenziale di energia idraulica
che l'abbondanza di acqua e di dislivelli potevano offrire. La potenza installata
nel territorio altoatesino crebbe dal 1918 al 1945 da 30.000 a 534.000 kvA
2
e la
produzione da 90 a 1684 milioni di kwH
3
. Prima della Grande Guerra erano già
attive in provincia molte centrali elettriche, prevalentemente di piccole
dimensioni, adatte a fabbisogni locali. Vari autori tra cui Bonoldi (2006), Visintin
(2004) e Petri (2004) segnalano, come, nello sfruttamento idroelettrico, nel
breve periodo liberale seguito alla Prima Guerra Mondiale ci fu una concorrenza
abbastanza forte tra investitori locali, orientati ad uno sviluppo idroelettrico
maggiore ma comunque moderato, ed i grandi gruppi elettro-chimici italiani,
interessati invece ad uno sfruttamento intensivo.
Questa contrapposizione fu tuttavia ben presto superata a seguito
dell'avvento al governo del Partito Nazionale Fascista e del relativo mutamento
di indirizzo politico. Da allora a trarre vantaggio dallo sfruttamento idroelettrico
furono in maniera pressoché esclusiva i grandi gruppi elettro-chimici nazionali.
2.4. Il periodo fascista: convergenze tra industrializzazione ed
italianizzazione
Il regime fascista coniugò sin dai primi passi l'esigenza di sfruttamento
del potenziale idroelettrico dell'Alto Adige con il progetto di italianizzazione della
provincia di Bolzano.
1
Distretto Bozen Land: Caldaro, Castelrotto, Chiusa, Egna e Sarentino
2
chilovoltampere
3
chilowattora
5
Ciò fu evidente fin dall'impianto del primo grande stabilimento industriale
moderno sul territorio della provincia, che fu nel 1923 la fabbrica della Ammonia
e Derivati, società del gruppo Montecatini a Sinigo, nelle immediate vicinanze di
Merano. Infatti fu stabilito che tutti gli operai dovessero provenire dalle regioni
italiane circostanti e dal Trentino e così pure edifici ed esercizi circostanti
dovevano essere di proprietà di italiani.
Lo stabilimento era specializzato nella produzione di fertilizzanti azotati. Il
processo produttivo adottato, il Casale-Fauser, permetteva di produrre acido
nitrico con grande risparmio di carbone, ma necessitava di grandissime quantità
di energia elettrica. La Montecatini era già titolare di numerose concessioni per
la produzione di elettricità in provincia di Bolzano ed ebbe modo di integrare al
meglio le due produzioni, in particolare la Ammonia e Derivati assorbiva
praticamente in toto la produzione della vicina centrale elettrica di Marlengo.
L'impianto arrivò ad impiegare fino ad oltre 1.500 operai, assumendo una
posizione di leadership in ambito nazionale, ma il processo produttivo adottato
subì una rapida senescenza a causa di innovazioni tecnologiche e concorrenza
internazionale e presto avviò la propria parabola discendente, tamponata solo
in parte con l'introduzione o lo sviluppo di alcune lavorazioni specializzate. Nel
1942, lo stabilimento passò sotto il diretto controllo della capogruppo
Montecatini. La fabbrica della Ammonia e Derivati era di fatto una cattedrale nel
deserto, oltre ad essere un corpo estraneo nella realtà meranese, che invece
era ormai molto bene avviata nell’industria turistica.
Nel frattempo, forte e costante era la crescita della potenza installata e
della produzione idroelettrica nella provincia. Parallelamente in tutta Italia si
ampliava la rete di elettrodotti. Grande parte della produzione locale – che
ormai aveva raggiunto il 12% della intera potenza installata in tutto il Paese -
poteva essere quindi trasportata in maniera relativamente facile e contribuire ad
alimentare i grandi impianti industriali del Piemonte e della Lombardia. Ma la
situazione, complici anche le difficoltà incontrate nell’italianizzazione della
nuova provincia, era destinata a mutare già dalla prima metà degli anni ’30.
2.5. La zona industriale di Bolzano
Il governo nazionale era alle prese con la difficile impresa di sovvertire
l'equilibrio etnico della provincia: avendo trovato grossa resistenza nel tentativo
di italianizzare la popolazione locale, via via si fece strada l’idea di “conquistare”
il capoluogo tramite l’insediamento di grandi impianti industriali e la
contemporanea immigrazione di massa pilotata proveniente dalle regioni
circostanti, in maniera preponderante dalle zone in cui più forte era la pressione
demografica, come il Veneto, l’Emilia Romagna e la Liguria. Ma le
considerazioni di carattere politico non devono far dimenticare l’importanza
della disponibilità in loco del cosiddetto “petrolio bianco” ed in subordine di altre
materie prime come il legno o le rocce dolomitiche ricche di magnesio.
La decisione di costruire una nuova zona industriale a Bolzano fu sancita
dalla legge 1621 del 28 settembre 1934. Fu questo il primo caso dall’avvento
6
del fascismo in cui una zona industriale venne insediata partendo dal nulla
4
. Il
provvedimento legislativo si riferiva in realtà all’intero territorio comunale, quindi
non si trattava nemmeno di una zona industriale propriamente detta. Il
successivo Regio Decreto Legislativo n. 234 del 7 marzo 1935 delimitò l’area
nella zona “Am Grutzen” (italianizzato “Agruzzo”), allora zona rurale coltivata a
meleti e vigneti: nella zona concorrevano molti fattori favorevoli come la
posizione nel fondovalle, la vicinanza rispetto alla rete ferroviaria ed al nucleo
urbano.
Molteplici furono le agevolazioni previste per esercitare attrazione nei
confronti delle imprese che impiantarono i propri stabilimenti nella neonata
industriale, tra queste le maggiori furono:
9 esenzione dai dazi doganali per i macchinari ed importati dall’estero
necessari al primo impianto degli stabilimenti industriali
9 esenzione decennale dal pagamento dell’Imposta di Ricchezza Mobile
sui redditi industriali
9 Contributi complessivi di 25.000.000 di lire per impianto, trasformazione
ed ampliamento degli stabilimenti
Le opere di urbanizzazione furono a carico del comune di Bolzano, che
per questo ottenne a sua volta un’anticipazione di 5.000.000 di lire e contributi
anche successivi. Non meno importanti furono poi le successive agevolazioni
tariffarie per i trasporti concesse ad alcune industrie, svantaggiate dalla
localizzazione periferica (in particolare INA Montecatini, per il trasporto
dell’allumina da Marghera, e la Lancia).
Appena prima dell’istituzione della zona industriale (nel 1934), la
situazione degli esercizi industriali a Bolzano denotava la presenza di 121
imprese, la maggior parte delle quali impegnate nell’edilizia (48) e nella
produzione di alimentari e bevande (29). Accanto alle scontate presenze di
attività tradizionali quali tessile (10) e lavorazione del legno (7), degna di nota
era la corposa presenza di tipografie (ben 10) e di industrie chimiche e
meccaniche (7 ciascuna). Il nuovo sito industriale era destinato a stravolgere il
panorama esistente.
In particolare quattro furono i grandi stabilimenti destinati a cambiare
volto all’industria manifatturiera altoatesina, tre dei quali nel settore metallurgico
ed uno in quello degli autoveicoli, e furono rispettivamente le Acciaierie di
Bolzano, la SAIMEL, la INA Montecatini e la Lancia.
La produzione dell’acciaio era una lavorazione che richiedeva quantitativi
molto ingenti di energia elettrica, e personale mediamente poco specializzato:
circostanze queste che favorirono l’insediamento delle Acciaierie di Bolzano.
Per la società fondata dall’industriale lombardo Giorgio Enrico Falck la
disponibilità del fattore energetico risultò fondamentale. La materie prime
utilizzate erano rottami di ferro, più a buon mercato rispetto al minerale ed
erano con ogni probabilità di provenienza italiana, anche se quasi certamente
sarebbe stato conveniente importare il materiale dalla Germania, mentre le
4
Molti dei provvedimenti adottati per l’istituzione della zona industriale di Bolzano vennero adottati in
seguito anche quando vennero istituite le zone industriali di Ferrara (1936) ed Apuania, ossia l’unione
dei comuni di Massa, Carrara e Montignoso (1938)
7
materie prime accessorie provenivano dal Nord Europa. Nello stabilimento
altoatesino venivano prodotti acciai speciali.
Altro grosso impianto industriale tra i primi ad insediarsi a Bolzano fu lo
stabilimento per la produzione del magnesio della SAIMEL, Società Italiana per
il Magnesio e Leghe di Magnesio (in seguito Montesi). Dall’inizio degli anni ’30 il
magnesio era ritenuto materiale strategico per l’industria aeronautica e degli
armamenti, quindi la produzione incontrò anche il favore degli ambienti politici
romani. Lo stabilimento altoatesino sfruttava un processo produttivo datato ma
collaudato, particolare questo che fu decisivo nella rapida crescita produttiva
dell’impianto, in una fase in cui gli innovativi processi produttivi della
concorrenza segnavano una serie di fallimenti. Ulteriore punto a favore dello
stabilimento altoatesino era che la materia prima, il magnesio, era disponibile in
abbondanza nelle rocce dolomitiche delle montagne dei dintorni.
Alla prova dei fatti, la stima del fabbisogno interno risultò sopravvalutata,
ed infatti grande parte della produzione fu assorbita nel corso dei decenni dalle
esportazioni, in particolare verso la Germania.
Altro grande stabilimento, anch’esso tra i primi ad entrare in funzione, fu
quello dell’ I.N.A., Industria Nazionale Alluminio, azienda del gruppo
Montecatini, come la Ammonia e Derivati già operante a Sinigo. Come nel caso
del magnesio per la SAIMEL, il crescente interesse dell’industria bellica per
metalli e leghe leggere in genere fu importante per la decisione di erigere uno
stabilimento per la produzione di alluminio. L’allumina usata per il processo
produttivo proveniva da Marghera, e la Montecatini usufruiva di tariffe speciali
per il trasporto delle materie prime.
Lo stabilimento industriale di maggiori dimensioni operava invece nel
settore meccanico, ed era quello della Lancia. L’industria piemontese cominciò
a produrre a Bolzano nel 1937; inizialmente quella bolzanina doveva essere
solo una filiale deputata allo svolgimento di alcune lavorazioni. La
localizzazione ad oltre 400 km di distanza dalla casa madre implicava
complicazioni nel processo produttivo nonché un notevole aggravio dei costi,
che non era compensato dalle tariffe ferroviari speciali di cui l’azienda
beneficiava dopo un primo periodo in cui il trasporto veniva effettuato via
camion. Questi problemi paradossalmente agevolarono la crescita dello
stabilimento bolzanino: infatti per ridurre e razionalizzare i costi di trasporto
l’azienda torinese stabilì a Bolzano dei cicli produttivi completi. Con
l’approssimarsi del periodo bellico, la produzione fu orientata dai veicoli
industriali verso quelli militari. Ulteriore difficoltà cui l’azienda automobilistica
dovette sopperire fu quella di reperire personale specializzato: rinunciato
all’idea di reclutare maestranze in altre regioni, l’azienda fondò nel 1941 una
scuola professionale per formare i giovani locali, ed in particolare i figli degli
operai.
Le criticità affrontate dallo stabilimento della Lancia erano quindi davvero
tante: distanza dalla casa madre, dalle materie prime e dai mercati di sbocco,
con aggravi nei costi di trasporto che superavano di gran lunga i vantaggi di tipo
energetico (ad esempio lo stabilimento delle Acciaierie di Bolzano, che pure
impiegava un terzo dei lavoratori, consumava il quintuplo dell’energia elettrica
rispetto alla Lancia), difficoltà nel reperire personale specializzato erano le più
evidenti. Si può affermare quasi con certezza che lo stabilimento Lancia non
8
sarebbe probabilmente mai sorto, qualora si fossero seguite logiche puramente
economiche.
In totale, i quattro grandi stabilimenti metalmeccanici assorbivano una
quota superiore all’80% del totale dei 6.513 addetti alla zona industriale del
1942. Il dettaglio parla di 2.000 addetti alla Lancia, 1.830 all’I.N.A. e 750 sia per
le Acciaierie di Bolzano che per la S.A.I.M.E.L..
Le unità locali residue erano principalmente impiegate in produzioni più
tradizionali, anche se in realtà in proporzioni assai diverse rispetto a quelle
registrate fino ad allora.
Le industrie che si occupavano della lavorazione del legno erano 10, le
più importanti delle quali in termini di addetti erano la S.I.D.A.
5
, impegnata nella
produzione di mobili ad uso scolastico, imballaggi e baracche, che con i suoi
300 addetti, costituiva la maggiore tra le industrie regionali impegnate
nell’Agruzzo; la Feltrinelli che produceva pannelli di masonite
6
, in cui
lavoravano 150 persone; la Viberti, azienda torinese che costruiva carrozzerie
in legno per la Lancia, coi suoi 100 addetti, e la S.A.F.F.A.
7
che produceva
pannelli di rivestimento per edifici, che pure impiegava 100 persone; le altre
imprese avevano un peso occupazionale limitato.
Nel campo della chimica, l’unica presenza di rilievo risultava essere
quella della C.E.D.A.
8
, che produceva carburanti sintetici tramite la
saccarificazione del legno.
Per quanto riguarda il settore tessile ed abbigliamento, si annotavano
solo 2 presenze, che si attestavano però su numeri abbastanza consistenti: il
Calzificio Gardin, di origine regionale, che contava 150 addetti, ed il
Calzaturificio Martini con 140 addetti. Per quest’ultima unità produttiva,
l’obiettivo occupazionale era in realtà assai più ambizioso, 800 addetti, ma
l’avanzare della guerra e la conseguente penuria di materie prime portò ad un
ridimensionamento dei progetti iniziali. Curioso notare come in questo caso il
fattore localizzatore di maggiore interesse per l’impresa fosse la presenza di
abbondante manodopera a basso costo. Le industrie alimentari erano
solamente due, ed il loro peso sull’occupazione totale del sito industriale era
trascurabile.
Alle realtà prettamente manifatturiere erano da aggiungere anche alcune
imprese edilizie locali ed una ditta di trasporti.
La situazione era quindi mutata radicalmente rispetto a quella
precedente, con l’introduzione sul territorio di un settore metalmeccanico che
prima era praticamente inesistente nella realtà altoatesina, mentre tra le attività
già diffuse conservava uno spazio importante l’industria della lavorazione del
legno, sia pure in forme diverse rispetto a quella tradizionale. Come detto,
l’industria alimentare, quella tessile e dell’abbigliamento, così come quella
tipografica, risultavano sottorappresentate rispetto al panorama preesistente o
erano addirittura assenti nella zona industriale.
Questo è sicuramente conseguenza diretta del fatto che le maggiori
aziende giunte in zona industriale erano espressione di gruppi nazionali e
5
Società Industriale dell’Arredamento S.p.A.
6
un particolare tipo di compensato
7
Società Anonima Fabbriche Fiammiferi e Affini
8
Carburanti e Derivati Autarchici
9
quindi non rappresentavano la realtà locale. Tra l’altro, numerose furono le
domande di ammissione alla nuova zona industriale di Bolzano che furono
respinte, ed in massima parte tali richieste provenivano proprio da aziende
locali di proprietà sudtirolese.
Questi fattori contribuirono tra le altre cose a far radicare in buona parte
nella popolazione di madrelingua tedesca la visione dell’industria come realtà
economica colonizzatrice “nemica” e ad alimentare per alcuni decenni anche
nel dopoguerra sul territorio un dualismo tra “città italiana” e “campagna
tedesca”.
In conclusione, salvo rare eccezioni, per quanto veramente eclatanti
come nel caso della Lancia, la presenza di quasi tutti gli stabilimenti sorti nella
zona industriale di Bolzano aveva una propria giustificazione economica. In
quest’ottica è da tenere in conto anche la situazione particolare che
caratterizzava il periodo immediatamente precedente alla Seconda Guerra
Mondiale: principale linea guida della politica economica italiana era quella
dell’autarchia, ossia della necessità da parte della nazione di essere in grado di
produrre internamente tutti i beni necessari. I danni maggiori prodotti
dall’industrializzazione forzata e colonizzatrice furono costituiti quindi soprattutto
dall’avere interrotto sul nascere un possibile sviluppo manifatturiero basato
sull’humus imprenditoriale locale, mentre le lacerazioni del tessuto sociale che
l’italianizzazione ha portato con sé hanno costituito un serio ostacolo allo
sviluppo dell’industria manifatturiera in Alto Adige nei decenni successivi.
Da segnalare anche che, per quanto abbastanza rare, durante gli anni
del regime non mancarono iniziative imprenditoriali da parte di imprese
sudtirolesi che convissero con il fascismo ed anzi conobbero fasi espansive
durante gli anni ’30, come ad esempio la Menz&Gasser e la Zuegg in campo
alimentare. Tali iniziative imprenditoriali non si limitavano in ogni caso ai settori
tradizionali. Un esempio interessante di iniziativa industriale allogena ad alto
contenuto innovativo e tecnologico fu la Unda Radio, fondata nel 1925 a
Dobbiaco da imprenditori sudtirolesi, che produceva apparecchi radiofonici. In
seguito, nel 1940 tale industria, messa in difficoltà dalle conseguenze delle
opzioni etniche che videro la maggioranza della manodopera dell’azienda
trasferirsi forzatamente oltre Brennero, scelse di trasferirsi a Como, dove negli
anni ’50 fu poi tra le industrie pioniere nella costruzione di apparecchi televisivi.
10