10
indispensabile che la vita sociale sia regolata da leggi (secondo l'antico brocardo “ubi
societas, ibi ius”
4
): se tali regole mancassero oppure se non fossero rispettate, la forza
prevarrebbe sulla giustizia.
La legalità, insomma, tende alla giustizia.
Quest’ultimo concetto è stato al centro di annosi dibattiti e di numerose dissertazioni
dottrinali e teologiche, da cui mi sembra opportuno prendere le mosse per provare a
comprendere quale sia stato e quale sia tutt’oggi il ruolo rivestito dal diritto nell’esperienza
religiosa e, di conseguenza, il modo in cui il principio di legalità si è adattato agli aspetti
peculiari dell’ordinamento canonico.
Nella più antica tradizione greca, la giustizia esprime l’ordine dell’intero cosmo, in
ragione del quale ogni cosa occupa il proprio posto e svolge il compito che le è stato
assegnato
5
.
Per Platone è possibile riconoscere un’idea di “giustizia nello Stato” e una di “giustizia
nell’uomo”, entrambe prodotti di fragili equilibri: nel primo caso si fa riferimento al
risultato dell’ armonia delle tre classi di cui lo Stato si compone ( filosofi , guerrieri
e artigiani), ciascuna delle quali deve assolvere il proprio compito; nel secondo caso si
4
Ove c’è una società, lì c’è il diritto. Il conforto più autorevole di tale affermazione è rinvenibile in S.
Tommaso d’Aquino che, nel “De regimine principum” (Il governo dei principi; scritto politico
incompiuto) , insegna che l’uomo come singolo non può conseguire la propria perfezione: essa sarà
raggiungibile solo instaurando relazioni con altri uomini e una mutua cooperazione che renda possibile
l’acquisizione dei beni fisici e spirituali. La società è dunque, lo stato naturale dell’uomo e, come tale, è
voluta da Dio. Peraltro, ovunque esista una società esiste anche un’autorità di governo, che ha come scopo il
coordinamento dell’attività dei singoli, svolte in vista del fine. L’ordinato svolgimento di queste attività esige
un ordinamento legale e la presenza stabile di persone investite di autorità che ne impongano il rispetto.
5
A. MACINTYRE, Giustizia e razionalità, vol. 2, Milano 1995. Vedasi anche R. ESPOSITO - C. GALLI,
Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Bari, 2005.
11
parla di perfetto equilibrio tra le parti dell’anima (parte razionale, parte irascibile e parte
concupiscibile)
6
.
Non meno affascinante è il pensiero di Aristotele, che dedica a questa virtù l’intero libro V
dell’Etica Nicomachea: si fa qui riferimento al risultato dell’equilibrata ripartizione dei
mezzi e degli oneri. Il criterio da seguire è quello dell’eguaglianza, che non va inteso come
concetto fisso e immutabile, ma come entità variabile in relazione ai diversi tipi di
giustizia. C’è, difatti, una “giustizia generale”, che mira al rispetto della legge della
comunità politica ed è comprensiva di tutte le altre virtù, in quanto le norme della polis
coprono l’intera area della vita morale: «ed è per questo che spesso si pensa che la giustizia
sia la più importante delle virtù e che né la stella della sera, né la stella del mattino siano
altrettanto degne di ammirazione»
7
. C’è, poi, una “giustizia particolare” finalizzata al
rispetto dei diritti degli individui, sia ad opera della comunità politica, sia ad opera degli
altri individui. La distribuzione dei beni e benefici ai cittadini da parte della comunità
politica segue un criterio di eguaglianza proporzionale, mentre nei rapporti tra gli individui
vige la regola dell’eguaglianza aritmetica: chi vende deve ricevere il valore esatto della
cosa venduta.
La giustizia viene, così, a presupporre un riconoscimento dell’altro. In tal senso, afferma
Aristotele, «è considerata anche bene degli altri, perché diretta agli altri. Essa, infatti, fa
ciò che è vantaggioso per un altro, sia per uno che detiene il potere sia per uno che è
6
PLATONE, La Repubblica: «Secondo me, la giustizia consiste in quel principio che fin dall'inizio, quando
fondavamo lo stato, ponemmo di dover rispettare costantemente: che ciascun individuo deve attendere a una
sola attività nell'organismo statale, quella per cui la natura l'abbia meglio dotato. E d'altra parte dicevamo
che la giustizia consiste nell'esplicare i propri compiti senza attendere a molte faccende» (Repubblica 433 a);
Viceversa, «l'attendere a troppe cose e lo scambiarsi di posto delle classi sociali sono un danno assai grave
per lo stato e si potrebbero con piena ragione denominare un enorme misfatto, e il maggior misfatto verso il
proprio stato è l'ingiustizia» (Repubblica 434 c). Lo Stato giusto, dunque, è quello in cui ciascuno sta al suo
posto.
7
Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, 1: 1129 b 27-30.
12
membro della comunità. Ciò posto, il peggiore degli uomini è colui che esercita la propria
malvagità sia verso se stesso sia verso gli amici, mentre il migliore non è quello che
esercita la virtù verso se stesso, ma quello che la esercita nei riguardi degli altri: questa,
infatti, è un’impresa difficile»
8
.
I giuristi romani, invece, hanno parlato di giustizia nei termini di ciò che è proprio di
ciascuno. Celebre è la definizione di Ulpiano: «iustitia est constans et perpetua voluntas
suum unicuique tribuendi”»
9
, che è stata sostanzialmente accolta dalla tradizione teologica.
Nella Bibbia Dio è il giusto per eccellenza
10
.
Il diritto biblico si presenta come un sistema rigorosamente etico, tendente non solo, e forse
non tanto, a realizzare un ordine nella comunità terrena, bensì a consentire ed agevolare la
perfezione morale dei singoli. In effetti ogni precetto è funzionale ad educare il popolo ad
usare misericordia, poiché il saper usare misericordia verso il prossimo è lo spirito che
anima la legge.
Nell’Antico Testamento sono frequenti gli appelli a vivere le dimensioni più sociali della
giustizia e in particolare, viene dato notevole risalto alla cura che Dio ha per i poveri e per
coloro che sono oppressi dal sopruso e ai quali è impossibile ottenere giustizia: «il giusto
deve prendere a cuore la causa dei miseri, deve strappare l’oppresso dal potere
dell’oppressore e deve trattare come un padre gli indifesi»
11
; «Dio, re e pastore del suo
popolo prende le difese dei più deboli»
12
.
8
Cfr. ARISTOTELE, Etica Nicomachea, V, 1: 1130 a 3-8
9
Cfr. Digesto, I,I, 10.
10
A. BONORA, Giustizia di Dio e giustizia umana nella Bibbia, in «Credere oggi» 11 (1991/5), 19-30;
11
Cfr. Prv. 29, 7
12
Cfr. Prv. 22, 22-23; Ez. 34, 2-4
13
Il precetto di misericordia è ulteriormente enfatizzato e, in un certo qual modo
estremizzato, nel Nuovo Testamento: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli
uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi […]. Da questo tutti sapranno
che siete miei discepoli»
13
.
Il comandamento della carità rappresenta una radicale novità del Nuovo Testamento (un
comandamento nuovo): seppur tale precetto non è completamente estraneo all’Antico
Testamento («amerai il prossimo tuo come te stesso»
14
) lo si vuole “legalizzare” con
l’obiettivo di riscoprirne la pienezza morale perduta e di ricavarne nuova energia motrice
15
.
In tal modo si dà all’amore una nuova misura: Gesù dice «come io vi ho amati» nel
momento stesso in cui, per amore, ha dato tutto.
Il dovere di perdonare e di porre l’altra guancia non significa, però, sottovalutare
l’ingiustizia. San Paolo rimprovera i fedeli di Corinto perché portano i fratelli davanti ai
tribunali pagani senza rendersi conto che la vera sconfitta è avere liti vicendevoli; d’altra
parte, ammonisce chi commette ingiustizia sottolineando che ciò esclude dalla patria
celeste: «O non sapete che gli ingiusti non ereditano il regno di Dio?»
16
.
In altre parole, l’enfasi del Nuovo Testamento sulla carità quale comandamento supremo e
vincolo della perfezione, presuppone la giustizia e contiene la più ferma condanna
dell’ingiustizia: «amore e giustizia non si dispongono in parallelo, ma l’una è continuità ed
espressione dell’altro. Laddove la giustizia non abbia per fondamento l’amore per l’uomo,
non si può collocare nella prospettiva del Nuovo Testamento. D’altra parte un amore che
non tenti, in questo mondo dove il bene e il male si confondono, di tradursi in concreti
13
Cfr. Gv. 13, 34
14
Cfr. Lv. 19,18
15
B. MAGGIONI, L’amore del prossimo nel Nuovo Testamento, in AA. VV., La carità e la Chiesa. Virtù e
ministero, Milano, 1993, pp. 32-59.
16
Cfr. 1 Cor. 6, 9-10.
14
ordinamenti giuridici della società, rimane sterile, utopia romantica e non autentico
amore»
17
.
Nei primi scrittori cristiani ritroviamo molte delle questioni già presenti sia nel pensiero
greco e romano, sia nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
Nei Libri V e VI delle Divinarum Institutionum, Lattanzio offre la prima trattazione
sistematica sulla giustizia. Egli rappresenta una figura di mediazione: buon conoscitore
della cultura classica greca e latina, dell’oriente e dell’occidente, convinto apologeta
cristiano, vede la nascita della nuova epoca dopo l’Editto di Costantino (313), con cui la
religione cristiana viene proclamata “religio licita”. Egli rilegge criticamente il concetto
romano di giustizia a partire dalla fede cristiana: «la giustizia non è solo equità, ma
soprattutto pietà. La pietà e l’equità sono come le sue vene: da queste fonti proviene infatti
tutta la giustizia, ma il suo principio e la sua origine risiedono nella prima, nella seconda
si trova ogni forza e razionalità»
18
.
In linea non molto dissimile si muove sant’Ambrogio, il quale offre ampie riflessioni sulla
giustizia nel De officiis ministrorum, nel Commento al Salmo 118 ed in altre opere.
Partendo dal concetto classico, egli mette in rapporto la giustizia con la pietà, la carità, e la
misericordia
19
e sottolinea la sua radicale apertura al bene dell’altro: «solo la giustizia è
quella virtù che in ogni circostanza, proprio perché la sua natura è di aprirsi agli altri più
che di rinchiudersi in se stessa, ha utilità quotidiana e vantaggio comune; salvaguarda
17
Cfr. S. MOSSO, Il problema della giustizia e il messaggio cristiano, Roma, 1982, p. 123.
18
Cfr. LATTANZIO, Divinarum Institutionum, V, 14, 11: SC 204, 202.
19
SANT’AMBROGIO, De officiis ministrorum, I, 27,127 e 28, 138.
15
l’utilità degli altri anche a costo di un personale svantaggio. E’ la sola che non ricavi il
minimo vantaggio e che abbia, invece, il massimo merito»
20
.
Sant’Agostino, infine, concepisce la giustizia come una virtù fondamentale della vita
sociale e politica, in cui viene a sottolineare il valore di ogni persona - titolare di diritti
inalienabili - e garantisce l’ordine nelle transazioni e il rispetto del bene comune: «la
giustizia è un abito dell’animo mantenuto per l’utilità sociale, che dà a ciascuno il suo
merito»
21
.
Il tema della giustizia e, in particolare, il suo rapporto con la carità rimangono centrali nella
riflessione della Chiesa anche nei secoli successivi.
Dopo il Concilio Vaticano II, Paolo VI sottolinea con forza che senza amore non si potrà
mai garantire la giustizia: «In parecchi casi, la legislazione è in ritardo sulla realtà delle
situazioni. Necessaria, essa è tuttavia insufficiente a stabilire veri rapporti di
uguaglianza»
22
.
E’ Giovanni Paolo II a spingere il discorso fino ad affermare che occorre giungere al
perdono, quale vertice della carità: «perché» – spiega – «la giustizia umana è esposta alla
fragilità e ai limiti degli egoismi individuali e di gruppo. Solo il perdono risana le ferite
dei cuori e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati»
23
. Si tratta di un concetto
molto caro a Papa Wojtyla. Egli vi aveva già insistito nell’enciclica sull’amore
misericordioso: «In nome di una presunta giustizia, talvolta si annienta il prossimo, lo si
uccide, lo si priva della libertà, lo si spoglia degli elementari diritti umani. L’esperienza
del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia, da sola, non basta e che può
20
Cfr. SANT’AMBROGIO, Commento al Salmo 118, 16, 14.
21
Cfr. SANT’AGOSTINO, De diversis quaestionibus 83, 31.
22
Cfr. PAOLO VI, let. ap. Octogesima adveniens, 14 maggio 1971 n. 23.
23
Cfr. GIOVANNI PAOLO II, Discorso ai rappresentanti delle varie religioni del mondo, Assisi, 24 gennaio
2002 n. 3. Vedasi anche Messaggio di sua santità Giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata
mondiale della pace, Città del Vaticano, 1 gennaio 2002.
16
addirittura condurre alla negazione e all’annientamento di se stessa, se non si consente a
quella forza più profonda che è l’amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie
dimensioni»
24
.
Divenuto papa nel 2005, Benedetto XVI dedica all’argomento la sua prima enciclica
25
,
nella quale sposta il discorso dall’agire all’essere: «Dio agisce sempre con amore, perché è
amore». Il cristiano, chiamato ad intimità con Dio, ama quelli che Lui ama, fino al punto
che solo servendo il prossimo riesce a capire come Dio lo ama. Ecco perché amore di Dio e
amore del prossimo sono un unico comandamento. Muovendo da queste premesse,
Benedetto XVI riafferma la chiara distinzione tra Stato e Chiesa, ma evidenzia che la fede e
il diritto trovano il loro punto di contatto nella giustizia. Infatti, quest’ultima ha natura etica
e la fede purifica la ragione, che è sempre esposta al pericolo dell’accecamento a causa del
prevalere dell’interesse e del potere.
Asserire che la fede purifica la ragione non significa conferire alla Chiesa un potere sullo
Stato, anche perché la dottrina canonica «vuole semplicemente servire la formazione della
coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze
della giustizia»
26
. In altre parole: «la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la
battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi
al posto dello Stato, ma non può e non deve restare ai margini della lotta per la giustizia:
deve inserirsi in essa per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze
spirituali senza le quali non può esserci affermazione e prosperità»
27
.
24
Cfr. GIOVANNI PAOLO II, enc. Dives in misericordia, 30 novembre 1980 n. 12.
25
BENEDETTO XVI, enc. Deus caritas est, 25 dicembre 2005.
26
Ivi, n. 28.
27
Ibid.