2
adeguati a far fronte ad un quadro sempre più vario di comportamenti lesivi: tra di
essi spicca quello della responsabilità civile, quale mezzo di tutela ritenuto idoneo
a conquistare territori sempre più ampi.
Nella prima parte della trattazione si cercherà di offrire un profilo quanto più
completo della fattispecie in oggetto e della relativa struttura: in primo luogo, ne
saranno esaminati il significato, la portata, nonché i profili psico-sociologici, per
poi approfondire le differenti tipologie di condotte vessatorie e gli aspetti
oggettivi e soggettivi costitutivi del mobbing. Non saranno tralasciate le diverse
opportunità di tutela di cui il lavoratore, e il soggetto mobbizzato più in generale,
dispongono nel nostro ordinamento; sarà altresì indispensabile operare un’ampia
ricognizione delle diverse tipologie di danno subite dal soggetto passivo, tanto
quelle di tipo economico-patrimoniale quanto, e soprattutto, quelle di tipo
psichico-fisico-esistenziale.
In riferimento alla peculiare dislocazione del mobbing tra diritto del lavoro e
diritto della responsabilità civile, si è osservato come esso rientri indubbiamente
negli schemi del rapporto di lavoro ma, anche, come la sua repressione civilistica
passi essenzialmente attraverso i meccanismi della responsabilità civile, i quali
sono “estranei”, perché più generali ed onnicomprensivi, ai rapporti lavoristici
1
.
1
Cfr. Monateri, I paradossi del mobbing, in Il mobbing, a cura di Tosi, Torino, 2004, p. 84. Non
bisogna inoltre sottacere la interdisciplinarietà dell’argomento: le tre professionalità più chiamate
in causa in fatto di mobbing, psicologo, medico e avvocato, dovrebbero cooperare e rapportarsi
reciprocamente. Solo una fattiva e puntuale collaborazione, fatta di scambio di informazioni,
convidisione di strategie e coerenza di finalità, potrà portare a risultati concreti e decisivi, e ciò
non vale certamente solo in fatto di mobbing. In questo modo ognuno dei singoli professionisti
potrà garantire il massimo contributo della sua scienza e agire nel pieno rispetto dell’etica
professionale. Non è un caso che nei Codici deontologici dello psicologo, del medico e
dell’avvocato si trovino espressi, in maniera del tutto analoga, i medesimi, universali principi:
competenza nel proprio operato, coscienza dei propri limiti, trasparenza degli intenti e, soprattutto,
pieno rispetto della persona che richiede l’aiuto specialistico.
3
Una volta delineato dogmaticamente il fenomeno e prese in rassegna le più
interessanti sentenze in materia, saranno affrontati alcuni dei temi maggiormente
problematici, e al contempo più stimolanti, della responsabilità extracontrattuale.
Faccio riferimento all’elemento dell’ingiustizia del danno nonché alla questione,
antica ma non per questo ancora risolta, dei confini della responsabilità civile.
Quanto al primo aspetto, mi limito per ora ad anticipare che il problema della
determinazione dell’ingiustizia del danno è sostanzialmente coincidente con
quello dell’istituzione di un ordine assiologico di prevalenza tra le contrapposte
posizioni soggettive dell’agente e della vittima, attraverso l’individuazione di
precisi criteri risolutori del conflitto
2
. Questi ultimi, tuttavia, non sono
individuabili aprioristicamente una volta per tutte, bensì devono essere
assiduamente posti in relazione alla fattispecie concreta; si dovrà allora vagliare la
natura dei beni colpiti, il rango degli interessi sottesi, la condizione individuale dei
soggetti coinvolti e via dicendo. L’interrogativo di fondo è però sempre lo stesso,
ossia quando sia giusto che il danno rimanga in capo alla vittima e quando,
invece, l’ordinamento non possa più tollerare che una condotta dannosa rimanga
priva di conseguenze per l’agente. La clausola generale di cui all’art. 2043 c.c.
rappresenta il fulcro della questione: solamente la caratterizzazione del danno
come “ingiusto” rende opportuno spostare le conseguenze della condotta in capo
al danneggiante e si comprende bene, quindi, perché l’interpretazione del
significato e dell’estensione della clausola dell’ingiustizia del danno possa
comportare ripercussioni notevoli sul piano concreto.
2
Scalisi, Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 2004, p. 56.
4
Quanto ai confini della responsabilità aquiliana, ci si chiede se stiamo cadendo in
un paradosso o se, a ben vedere, non ci siamo già caduti. In ogni caso, dovremmo
domandarci se valga la pena estendere a dismisura l’applicazione delle norme di
tutela o, comunque, spiegare con troppa facilità le ali protettrici della
giurisprudenza, sia essa di merito o di legittimità. Non vi sono opere o rassegne
sulla responsabilità civile che non paghino un tributo ai nuovi tempi e che non
tengano conto, da un lato, dei nuovi tipi di danno generati dal progresso
tecnologico, tanto necessario ed utile quanto insidioso e, dall’altro, del diverso
modo di sentire dei consociati dettato da una visione sociale dello Stato, uno Stato
cioè che non lascia i cittadini in balia di loro stessi, vittime di un bellum omnium
contra omnes
3
, bensì che riconosce e garantisce le appropriate tutele, sia in ottica
preventiva sia in ottica riparatoria.
Scrive Rodotà, con grande lucidità e non senza una vena polemica, che “nessuna
organizzazione sociale, infatti, ha mai disposto di strumenti di protezione
dell’individuo paragonabili a quelli presenti: sì che attualmente risulta coperta
un’area assai più estesa di quella che, in tempi meno feroci, era garantita dalla
tradizionale disciplina della responsabilità. Se, dunque, alludendo al maggior
bisogno di sicurezza, si vuol dire che una società ben organizzata non può
tollerare che un danno non sia risarcito solo perché è difficile o impossibile
risalire al suo autore, si dice cosa ovvia; ma si pecca di parzialità quando si dice
3
Nello stato di natura, cioè uno stato in cui non esiste alcuna legge, ciascun individuo, mosso dal
suo più intimo istinto, cerca di danneggiare gli altri e di eliminare chiunque sia di ostacolo al
soddisfacimento dei suoi desideri. Ognuno vede nel prossimo un nemico. Da ciò deriva che un tale
stato si trovi in una perenne conflittualità interna, in un continuo bellum omnium contra omnes
(trad. “guerra di tutti contro tutti”) (Hobbes, De cive, 1, 12), nel quale non esiste torto o ragione
(che solo la legge può distinguere), ma solo il diritto di ciascuno su ogni cosa (anche sulla vita
altrui).
5
che tale maggior bisogno discende unicamente dalle più frequenti occasioni di
danneggiamento, mentre è vero, invece, che esso va pure ricondotto alle esigenze
più ampie che lo Stato del benessere ha portato con sè. Sì che danni in passato
subiti senza protesta dalla vittima ed ignorati dalla legge suscitano oggi la
reazione dell’ordinamento giuridico”
4
.
Del pericolo di una moltiplicazione incontrollata dei diritti e dei danni risarcibili si
è avveduto anche chi afferma che “il comune paradigma seguito consiste, perciò,
rispettivamente, nella moltiplicazione indefinita dei “diritti della persona” (alla
salute, alla riservatezza, all’identità personale, ecc.) e nella moltiplicazione
altrettanto indefinita delle categorie di “danni nominati”, ad essi più o meno
correlativi (danno biologico, estetico, ecc.), attraverso la formazione di altrettanti
cataloghi che allo stato non sembrano certo esauriti”
5
. Il quesito da porsi è se
l’esigenza di giustizia sostanziale e di solidarietà verso i soggetti danneggiati
ingiustamente possa portare, o abbia già portato, alla perdita di vista di una
precisa ratio risarcitoria, all’adesione ad un “neodogmatismo debole”, laddove
cioè ad un tradizionale approccio giuspositivistico si sostituisce un approccio
neoempiristico, oppure se sia possibile ancora scorgere, nelle innumerevoli
pronunce giurisprudenziali, un fil rouge che permetta di avere ben presenti i
confini della tutela giuridica. Una prima annotazione in tal senso può essere quella
per cui, sempre più sovente, viene trascurata l’analisi dell’eventuale trasgressione
di divieti posti dall’ordinamento, concentrandosi invece prioritariamente
4
Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1967, pp. 23-24.
5
Messinetti, Recenti orientamenti sulla tutela delle persone. La moltiplicazione dei diritti e dei
danni, in Riv. crit. dir. priv., 1992, pp. 173-174.
6
sull’individuazione dell’interesse leso: sarebbe dunque auspicabile un migliore
bilanciamento nella considerazione dei due poli, quello attivo (relativo alla
condotta) e quello passivo (relativo al bene giuridico leso).
Al termine di questa premessa, si vuole segnalare un tipo di approccio al mobbing
forse un po’ cinico, ma certamente apprezzabile per l’originalità
6
. Tale punto di
vista, sostenuto da Monateri, è quello per cui una situazione di oppressione,
esclusione, emarginazione di un soggetto da parte dei propri colleghi di lavoro o
dei superiori (ma anche in famiglia, ad esempio), rappresenta un tipico esempio di
inefficienza, di dispersione di risorse, di diminuzione della competitività. Il
peggioramento derivante dal mobbing è dunque, prima ancora che soggettivo ed
individuale, oggettivo e collettivo. Ciò che colpisce, nelle parole dell’Autore, è
che il danno principale cagionato dal mobbing non sarebbe identificabile tanto in
un insieme di dolori e frustrazioni individuali, che peraltro vengono ritenute
“evanescenti” e “nebulose”, quanto invece in una perdita di efficienza del sistema
produttivo, in un costo sociale da abbattere. Sconfiggere il mobbing, prosegue
Monateri, rappresenta “l’imperativo di ogni organizzazione intelligente”, giacché
la “peace of mind è ormai condizione costitutiva di efficienza”: lo scopo della
responsabilità civile, d’altro canto, sarebbe proprio quello di minimizzare i costi
sociali, creando una serie di incentivi e di disincentivi che inducano le parti ad
evitare tali costi.
Pur concordando sull’esigenza di rendere più efficiente il sistema nel suo
complesso e di guardare al mobbing anche (ma non solo) come fattore di
inefficienza, non sembra però opportuno porre in secondo piano, quasi
6
Cfr. Monateri, Introduzione. Il costo sociale del mobbing, in Monateri, Bona, Oliva, Mobbing.
Vessazioni sul lavoro, Milano, 2000, p. 1 ss.
7
emarginandole o comunque dandole per scontate, tutte quelle conseguenze a
livello individuale che il soggetto mobbizzato subisce. Non si può infatti
declassare la serenità personale e il rispetto reciproco, di cui ogni individuo ha
diritto di godere sul posto di lavoro come in qualsiasi altro ambiente, ad una mera
“condizione costitutiva di efficienza”.
8
1. MOBBING: PROFILI DEFINITORI
1.1. Il fenomeno “mobbing”
Il termine “mobbing” (nei paesi anglosassoni spesso si parla di bullying o di
embarassment) è comparso solo in tempi relativamente recenti all’interno del
mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Provare a delineare i confini di tale
nozione non è semplice poiché, da un lato, con questa si vuole fare riferimento ad
un fenomeno che comprende più ambiti dello scibile umano (in particolare, le
scienze giuridiche, psicologiche e sociologiche) e, dall’altro, perché essa deve
necessariamente essere di tipo convenzionale, non esistendo ancora a livello
nazionale una norma che ne stabilisca univocamente i confini
7
.
“Mobbing” deriva dall’inglese “to mob”
8
ed è utilizzato anche in etologia (a
partire dallo studioso Konrad Lorenz) per indicare il comportamento aggressivo
ed ostile del branco nei confronti di un singolo animale che sia parte del gruppo,
diretto a provocarne l’allontanamento. Simmetricamente, nel mondo del lavoro,
con tale termine si allude ad atteggiamenti ostili, di persecuzione psicologica e
violenza morale, posti in essere sistematicamente e in modo duraturo attraverso
7
Bona, Oliva, Il fenomeno del mobbing, in Monateri, Bona, Oliva, Mobbing. Vessazioni sul
lavoro, Milano, 2000, p. 6.
8
Nella lingua inglese corrente “to mob” indica essenzialmente due tipi di azioni: 1) assalire
tumultuando, malmenare, aggredire; 2) affollarsi, accalcarsi intorno a qualcuno. Il sostantivo
“mob”, dal latino “mobile vulgus”, significa invece folla tumultuante, spesso nell’accezione
dispregiativa di gentaglia, plebaglia, banda di delinquenti. I dizionari parlano anche di “mob law”,
cioè di legge imposta dalla piazza a furor di popolo. È chiaro comunque che tale termine è centrato
sul concetto cardine di “aggressione”.
9
condotte vessatorie di diverso tipo da parte di uno o più soggetti, definiti mobbers,
nei confronti di una o più vittime, i cosiddetti mobbizzati.
Il termine, nella sua brevità e potenza semantica, ha la forza di raggruppare
un’universalità di comportamenti tra loro differenti e tuttavia accomunati dagli
elementi dell’aggressività, della vessatorietà, della finalità di eliminazione o
emarginazione di questo o quel soggetto
9
. Il mobbing, come si vedrà, si
concretizza attraverso varie condotte che, a titolo esemplificativo, possono
consistere nell’emarginazione del soggetto attraverso le continue critiche sul suo
operato, nell’assegnazione a mansioni umilianti o comunque dequalificanti, nella
diffusione di maldicenze, nella compromissione dell’immagine del soggetto
davanti ai colleghi, clienti o superiori, in molestie sessuali, in spostamenti continui
da un ufficio all’altro, nell’assegnazione di compiti troppo difficili da svolgere,
specie se consapevolmente non supportati da strumenti adeguati.
La nozione in oggetto, pur essendo nuova, dipinge un fenomeno di vecchia data.
Certi episodi riportati in passato dalle cronache giudiziarie, quali i trasferimenti ai
c.d. “reparti-confino”, possono apparire poco attuali, specialmente in seguito
all’approvazione dello “Statuto dei lavoratori” (legge 300/1970), ma la violenza,
soprattutto di tipo psicologico, che essi incarnano, non è affatto venuta meno e si
manifesta anche ai nostri giorni, seppure in forme ancor più subdole
10
. Il mobbing
è ormai una realtà studiata e riconosciuta in tutto il mondo e si stima che nel
9
Bona, Oliva, Il fenomeno del mobbing, in Monateri, Bona, Oliva, op. cit., p. 8.
10
Miscione, I fastidi morali sul lavoro e il mobbing, in ILLeJ, vol. II, n. 2, www.labourlaw.it.
10
Vecchio Continente almeno l’8% dei lavoratori
11
sia stato oggetto, almeno una
volta, di soprusi o discriminazioni da parte di colleghi o superiori. Convertendo
questa percentuale, possiamo dire che i soggetti mobbizzati siano stati circa 12
milioni solo in Europa, dei quali circa un milione e mezzo in Italia, dove
l’indagine sul fenomeno è cominciata successivamente rispetto a Stati come la
Svezia, la Germania
12
o la Francia. Il fenomeno “mobbing”, drammaticamente
manifestatosi soprattutto nella pubblica amministrazione, nel settore del credito e,
in misura minore, nelle realtà industriali e commerciali, ha di recente assunto
proporzioni tali da “conquistarsi” la dignità di fatto giuridico e ciò perchè,
considerate le gravi ripercussioni sociali che hanno indotto a parlare del mobbing
in termini di “malattia sociale”
13
, non si è più potuto continuare ad ignorare il
problema. Per meglio comprendere la violenza intrinseca nel mobbing bisogna
rifarsi agli studi e alle opere del primo e più autorevole studioso di tale fenomeno,
Heinz Leymann
14
. Le indagini, che furono effettuate inizialmente in Svezia nel
11
I dati sono forniti dalla European Foundation for the Improvement of Living and Working
Conditions, il cui sito web è www.eurofound.eu.int.
12
La Germania risulta essere attualmente un Paese molto evoluto in fatto di studio e di
prevenzione del mobbing. Questo, infatti, non è solamente un argomento abituale di discussione
tra la gente e attraverso i principali mezzi di comunicazione, ma viene anche riconosciuto come
malattia professionale e le strutture sanitarie statali sono dotate di appositi strumenti per la
diagnosi e la cura delle vittime di mobbing. Alcuni contratti sindacali, come quello dei
metalmeccanici, prevedono un risarcimento di circa 250.000 euro per i lavoratori mobbizzati. I
sindacalisti della Volkswagen furono i primi a introdurre nei contratti di lavoro un capitolo sul
mobbing, con relativa indennità e strumenti di prevenzione (in particolare, i centri d’ascolto
aziendale).
13
Molti sociologi e psicologi concordano nel ritenere il mobbing una vera e propria malattia
sociale da cui derivano, in capo al soggetto mobbizzato, una serie di patologie sia a livello psichico
sia, per somatizzazione, a livello fisico.
14
Tedesco emigrato in Svezia, è stato il fondatore di quello che oggi può dirsi un settore di ricerca
ben definito. Egli ha avuto l’indubbio merito di intuire e teorizzare per primo il fenomeno in
oggetto, riscuotendo da subito un grande apprezzamento in Svezia e in Germania nonché, da
ultimo, negli Stati Uniti. La sua opera più celebre è Psychoterror am Arbeitspaltz und wie sich
dagegen wehren kann (1993).
11
corso degli anni ’80, misero in luce come il mobbing sul posto di lavoro (che ha
come corrispondente il bullismo tra gli studenti e il nonnismo nella vita militare)
fosse una forma di prepotenza subdola ma incisiva, con l’intento e il risultato
finale di indurre la vittima a lasciare l’azienda, di norma tramite un atto di
dimissioni o di pensionamento anticipato, in ragione dell’insostenibilità
psicologica e fisica della situazione creatasi.
La definizione data da Leymann riconosce nel mobbing “una forma di terrorismo
psicologico che implica un atteggiamento ostile e non etico posto in essere in
forma sistematica - e non occasionale o episodica - da una o più persone,
eminentemente nei confronti di un solo individuo il quale, a causa del mobbing,
viene a trovarsi nella condizione indifesa e fatto oggetto di una serie di iniziative
vessatorie e persecutorie. Queste iniziative debbono ricorrere con una
determinata frequenza (statisticamente: almeno una volta a settimana) e nell’arco
di un lungo periodo di tempo (statisticamente: per almeno sei mesi di durata). A
causa dell’alta frequenza e della lunga durata del comportamento ostile, questa
forma di maltrattamento determina considerevoli sofferenze mentali,
psicosomatiche e sociali”
15
.
Nel nostro Paese è stato soprattutto Harald Ege
16
ad occuparsi dell’argomento,
dando del mobbing la seguente definizione: “Un’azione (o una serie di azioni) che
15
Definizione riportata in Meucci, Considerazioni sul “mobbing” ed analisi del disegno di legge
n. 4265 del 13 ottobre 1999, in Lav. prev. oggi, 1999, p. 1954.
16
Harald Ege è il maggior esperto di mobbing in Italia, il primo studioso che abbia svelato nel
nostro Paese la presenza del “terrore psicologico” sul luogo di lavoro. Un fenomeno che egli studia
da undici anni e sul quale fa ricerca da nove all’Università di Bologna. Un impegno capillare
quello dello studioso tedesco, dottore di ricerca in Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione,
tanto che, per concretizzare la divulgazione della conoscenza di questo fenomeno, egli ha fondato
a Bologna un’associazione chiamata “Prima”, attiva sul fronte della prevenzione, lotta e
formazione contro il mobbing.
12
si ripete per un lungo periodo di tempo, compiuta da uno o più mobbers (datore
di lavoro o colleghi) per danneggiare qualcuno, di solito in modo sistematico e
con uno scopo preciso. Il mobbizzato viene accerchiato e aggredito
intenzionalmente dai mobbers che mettono in atto strategie comportamentali volte
alla sua distruzione psicologica, sociale e professionale”
17
.
Come si può ricavare dalle due autorevoli citazioni riportate, la definizione di
mobbing esclude le conflittualità temporanee e concentra l’attenzione sulla durata
e sull’intensità del comportamento vessatorio. La distinzione dal mero conflitto
sul lavoro non consiste su “ciò” che viene inflitto alla vittima e su “come” ciò
avviene, quanto piuttosto sulla frequenza e sulla durata del trattamento vessatorio.
Sussiste inoltre una differenza dal bullismo studentesco e dal nonnismo militare,
poiché mentre queste manifestazioni di aggressione sono preminentemente
caratterizzate da atti di violenza o di minaccia corporea, il mobbing sfocia assai
difficilmente in lesioni personali di tipo fisico, essendo quasi sempre
caratterizzato da comportamenti subdoli e molto più sofisticati, da una crudeltà
non corporea ma psicologica
18
. Efficacemente sostiene R. Girard: “La violenza
non consiste tanto nel ferire e nell’annientare, quanto nell’interrompere la
continuità delle persone, nel far loro recitare delle parti nelle quali non si
ritrovano più, nel far loro mancare non solo a degli impegni ma alla loro stessa
sostanza, nel far compiere degli atti che finiscono con il distruggere ogni
17
Tale definizione è possibile rinvenirla nei numerosi saggi di Ege sulla materia, tra i quali si
citano: Mobbing: che cos’è il terrore psicologico sul posto di lavoro, Bologna, 1996; Mobbing,
conoscerlo per vincerlo, Milano, 2001; Oltre il Mobbing. Straining, Stalking e altre forme di
conflittualità sul posto di lavoro, Milano, 2005.
18
Meucci, Violenza da mobbing sul posto di lavoro, in Riv. crit. dir. lav., 2000, p. 279.
13
possibilità di atto…nel distruggere l’identità dello Stesso. Gli individui sono
ridotti ad essere portatori di forze che li comandano a loro insaputa”
19
.
Spesso in passato questo tipo di sopruso non è stato ritenuto perseguibile dal
sistema giudiziario, essendo stato ricondotto ad una forma di violenza “legittima”
che attraverso i rituali, le prassi e i regolamenti si impone al prossimo, specie se
questo è un soggetto debole, e si camuffa sotto il profilo del doverismo, della
rigidità verticistica. Questa subdola ferocia fa leva sulla paura, sulla debolezza,
sull’ignoranza e dunque impedisce la libertà di scelta e di decisione autonoma,
disgregando l’identità personale e la capacità di relazioni intersoggettive
20
.
Quando tale violenza diviene strumentale e consapevole non può più essere
ignorata dall’ordinamento, proprio come non lo sono un omicidio o una lesione.
1.2. Rilievi socio-economici
Come già segnalato, alcuni recenti studi rivelano che il mobbing colpisce un
numero insospettabilmente alto di individui. Osservando le tabelle
21
che riportano
i dati percentuali dei soggetti mobbizzati, colpisce il valore relativo alla situazione
italiana, sensibilmente più basso rispetto a quelli di altri Paesi notoriamente più
avanzati dal punto di vista della tutela dei lavoratori; in Italia sarebbe vittima del
19
Renè Girard è un noto filosofo ed antropologo francese la cui opera prima, da cui è estratto il
passo, è La violenza e il sacro, trad. it. di Fatica e Czerkl, Milano, 1980.
20
E’ possibile trovare questi e altri spunti sulla natura della violenza da mobbing in numerosi
articoli pubblicati sul sito, www.mobbing-prima.it, dell’associazione “Prima”, organizzazione no
profit fondata a Bologna dal dott. Harald Ege nel 1996.
21
Ad esempio, quelle dell’Eurispes (Istituto di studi politici, economici e sociali), www.eurispes.it.
14
mobbing “solo” il 5% circa dei lavoratori, mentre in Germania il 7%, in Svezia e
in Francia il 10%, e nel Regno Unito addirittura il 16%. Secondo alcuni, tuttavia,
tale cifra dovrebbe essere ritoccata al rialzo sia perché, nel nostro Paese, essa
sarebbe in parte viziata da una minore consapevolezza del fenomeno rispetto a
quella sussistente in altre realtà sociali, sia perché esisterebbe una diversa soglia
di accettazione delle molestie morali: ad esempio, un atteggiamento arrogante di
un superiore verso il subalterno è frequente e tollerato nelle regioni meridionali,
mentre nel Nord Europa un simile atteggiamento sarebbe considerato un atto di
molestia
22
. Bisogna quindi ritenere che in Italia il numero dei soggetti mobbizzati
sia di gran lunga superiore a quello riscontrato dai sondaggi, falsati,
probabilmente, da ignoranza ed omertà.
Per quanto riguarda, poi, l’incidenza delle diverse tipologie di mobbing e la fascia
d’età delle vittime, è stato osservato come in Italia il mobbing verticale (c.d.
bossing
23
) si presenti in più del 50% delle situazioni di vessazione sul lavoro. Nel
40-45% dei casi si tratta invece di mobbing orizzontale. Assai più raro (circa il 5%
sul totale dei casi denunciati) è invece il mobbing ascendente, ossia il boicottaggio
di un superiore messo in atto da un gruppo compatto di subalterni. Il fenomeno
della violenza psicologica sul lavoro, ma anche in ambiente familiare, colpisce sia
gli uomini che le donne con una prevalenza, però, di vittime femminili. Il
mobbing colpisce sia persone giovani sia anziane, ma la fascia d’età da cui
provengono più richieste di aiuto è quella dai 45 anni in poi: questo è dovuto,
22
Gilioli R., Gilioli A., Cattivi capi, cattivi colleghi, Milano, 2000, p. 17.
23
Delle classificazioni delle condotte mobbizzanti si tratterà più avanti. Si specifica sin d’ora,
comunque, che il bossing è quel tipo di mobbing che viene messo in pratica dai superiori verso
individui sottoposti al proprio potere organizzativo e/o direttivo.
15
innanzitutto, al fatto che i giovani neoassunti accettano più facilmente i piccoli
soprusi quotidiani e quindi raramente denunciano le situazioni di violenza
psicologica e, in secondo luogo, alla ragione che un lavoratore anziano costa di
più all’azienda e quindi diviene oggetto, con maggiore frequenza, di mobbing
verticale con il fine di ottenerne le dimissioni, potendo così poi assumere al suo
posto giovani con meno pretese. La fascia d’età tra i 55 e i 60 anni è più a rischio
delle altre, poiché il datore di lavoro potrebbe volere mettere in atto condotte
vessatorie per costringere il soggetto mobbizzato a prepensionarsi
24
.
Un interessante filone di analisi del problema emerge, infine, da alcuni studi
sociologici che pongono in relazione le cause del fenomeno con i diversi e
alternativi sistemi di organizzazione dell’attività produttiva. Si è molto discusso,
infatti, su quale sia il modello di regolamentazione del lavoro che possa favorire
o, viceversa, scoraggiare i fenomeni di mobbing. In realtà, sotto questo aspetto, si
può convenire che non esistano principi univoci ed assoluti. Se è vero, infatti, che
un mercato del lavoro più libero permette all’impresa di licenziare più facilmente
il dipendente e quindi annullerebbe il bisogno di ricorrere al mobbing, essendo
questo svuotato della sua funzione principale, vale a dire quella di “sbarazzarsi”
del dipendente inviso
25
, è pur vero che una flessibilità eccessiva determina alcune
conseguenze a livello organizzativo, quali accorpamenti e razionalizzazioni dei
settori aziendali, che acuiscono il timore di essere sopravanzati o licenziati e
quindi aggravano la competizione e l’aggressività tra i colleghi. Oltre a ciò,
24
Gilioli R., Gilioli A., op. cit., p. 6.
25
Si segnalano, però, anche dei casi di mobbing nei quali lo scopo delle condotte mobbizzanti è
quello di indurre la vittima ad accettare condizioni retributive peggiori o mansioni inferiori, senza
così dovere ricorrere ad una nuova assunzione.
16
un’eccessiva flessibilità comporta una certa desindacalizzazione e, come
facilmente intuibile, ad un indebolimento della posizione dei sindacati si
accompagna una diminuita tutela dei lavoratori
26
. È interessante notare,
comunque, come anche nel caso in cui fosse ammessa a livello normativo una più
ampia libertà di licenziamento, il mobbing verticale non per questo verrebbe
sradicato. Se pensiamo, ad esempio, alle consistenti buonuscite dei dirigenti in
caso di licenziamento, i vertici aziendali potrebbero essere tentati dall’idea di
porre il dirigente in condizioni di lavoro discriminatorie, o comunque sgradevoli,
al fine di ottenerne le dimissioni “spontanee”, evitando così il pagamento
dell’indennità di buonuscita.
Dall’altra parte, a ben vedere, neanche un mercato del lavoro più rigido e
regolamentato costituirebbe un valido argine all’eventualità di violenze
psicologiche e morali sul posto di lavoro, poiché un’eccessiva difficoltà nella
punibilità e nella licenziabilità di chi si comporta in modo arrogante con i
colleghi, nonché le frustrazioni che sono proprie di un ambiente in cui non
vengano riconosciuti adeguatamente i propri meriti e vi sia un generale
livellamento verso il basso (com’è naturale aspettarsi in tutte quelle circostanze in
cui non vi sia alcuna competizione), sono possibili cause di un atteggiamento
vessatorio nei confronti dei propri colleghi
27
.
26
Desta attenzione il fatto che l’emersione dell’interesse per il mobbing sia stata parallela ad un
affievolimento del ruolo del sindacato come gestore del contratto di lavoro: a fronte di sindacati
deboli, infatti, i rapporti di impiego tendono a sfuggire alla regolamentazione contrattuale
collettiva, rifluendo nella responsabilità civile (cfr. Monateri, I paradossi del mobbing, op. cit., p.
85).
27
Gilioli R., Gilioli A., op. cit., pp. 19-20.