7
simmetria, di recedere dal contratto senza altro vincolo che quello del
preavviso.
Passando a trattare, in generale, delle cause estintive del rapporto di
lavoro, l’opinione tradizionale suole distinguere tra cause di estinzione del
rapporto e cause di risoluzione del contratto. Le prime si verificano
quando la causa del contratto si sia in concreto realizzata: compimento del
lavoro dedotto in obbligazione, scadenza del termine finale e, nel contratto
a tempo indeterminato, il recesso, inteso come normale strumento di
autonomia contrattuale idoneo a far cessare un rapporto di durata
potenzialmente illimitata. Le seconde determinano, in sé, l’esclusione del
rapporto, essendo collegate alla mancata realizzazione della causa, come
l’avveramento della condizione, o a un suo difetto funzionale, com’è in
caso di inadempimento, di impossibilità sopravvenuta o di eccessiva
onerosità della prestazione.
Focalizzando la nostra attenzione sulle cause di estinzione per
volontà delle parti, si rileva che il recesso unilaterale, che prende il nome
di licenziamento se proviene dal datore di lavoro e di dimissioni se
proviene dal lavoratore, costituisce indubbiamente la causa di estinzione
del rapporto socialmente più significativa: quella sulla quale si è
sviluppata una articolata e differenziata disciplina legislativa a protezione
dell’interesse del lavoratore alla stabilità del rapporto di lavoro.
1.2 Il recesso dal rapporto di lavoro nel codice civile.
La disciplina del codice civile, oggi ormai del tutto residuale,
attribuisce ad entrambe la parti la facoltà di recedere unilateralmente e
liberamente dal contratto di lavoro. L’art. 2118 c.c., infatti, afferma che “
ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto a tempo indeterminato,
dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dalle norme
corporative, dagli usi o secondo equità ”.
8
Il recesso unilaterale assolve dunque alla funzione di porre fine ad un
rapporto la cui durata non è predeterminata e in relazione a ciò colloca le
parti su un piano di parità, senza considerare il possibile diverso interesse
di ciascuna alla conservazione del vincolo. La tutela della formale libertà
delle parti si manifesta nell’assenza di vincoli in ordine ai motivi che
hanno indotto al recesso; non a caso il recesso di cui all’art. 2118 c.c. è
tradizionalmente denominato recesso ad nutum, cioè al semplice cenno,
senza che occorra fornire giustificazione alcuna. L’unica limitazione a
questa ampia libertà di recesso è costituita dall’obbligo del preavviso,
incombente sulla parte che assume l’iniziativa: in altre parole, l’autore del
recesso deve comunicare alla controparte la propria decisione con un
congruo anticipo, durante il quale il rapporto prosegue, a meno che la parte
recedente non decida di corrispondere la cosiddetta indennità di mancato
preavviso, ovvero una somma di denaro corrispondente alla retribuzione
dovuta per il tempo del preavviso non lavorato.
L’obbligo del preavviso non è peraltro previsto in modo
immancabile: qualora la risoluzione del rapporto dipenda da una giusta
causa che impedisce la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto,
questo si risolve immediatamente e senza che la parte recedente sia tenuta
al preavviso o alla corrispondente indennità sostitutiva ( c.d. recesso per
giusta causa: art. 2119 c.c.). Qui peraltro finisce l’originaria simmetria tra
licenziamento e dimissioni
1
: infatti, il lavoratore – a differenza del datore
di lavoro - che receda per giusta causa, ha diritto all’indennità sostitutiva
del preavviso. Al riguardo merita di essere segnalato che, come
confermato dalla più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione
2
,
non si è in presenza di due differenti negozi di recesso, uno semplice e
l’altro per giusta causa, bensì di un unico tipo di negozio, rispetto al quale
1
Cfr.: CHIUSOLO, Il licenziamento. Analisi normativa, orientamenti della giurisprudenza
,Milano, 1994, p.1.
2
Cfr.: Cass. S.U. 18 maggio 1994, nn. 4844 e 4846, in FI, 1994, I-II, 2706.
9
la giusta causa costituisce solo un presupposto che esonera dal preavviso
3
.
Ciò significa che, qualora si accerti che una siffatta causa non sussista in
fatto, ferma restando comunque la validità ed efficacia del recesso
intimato, il recedente dovrà erogare un’indennità equivalente all’importo
della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.
La disciplina della libera recedibilità come sopra descritta è oggi
vigente per alcuni casi residuali, nonché per le dimissioni del lavoratore.
Al contrario, per quanto concerne il licenziamento, con l’andare del tempo
si è venuta sovrapponendo alla disciplina codicistica una normativa
speciale, che ha sottratto il licenziamento all’area della libera recedibilità,
espressione del favor dell’ordinamento verso il lavoratore quale soggetto
socialmente sottoprotetto. Questo processo di sovrapposizione è avvenuto
per gradi, e ha tratto origine dalla pronuncia della Corte Costituzionale 9
settembre 1965, n. 45, la quale, investita della questione di
costituzionalità dell’art. 2118 c.c., la dichiarò infondata sull’assunto che
l’art. 4 Cost. non garantisce ai cittadini né il diritto al conseguimento
dell’occupazione, né quello alla sua conservazione
4
. In questa occasione,
però, la Corte aveva anche evidenziato come la garanzia costituzionale del
diritto del lavoro imponesse al legislatore di approntare una disciplina
idonea ad assicurare la continuità del rapporto, circondando di doverose
garanzie i casi in cui fosse consentito dar corso al licenziamento.
5
3
Cfr.: GHERA, Diritto del lavoro, Bari, 2006, pp. 180-181.
4
Cfr.: Corte Cost. 9 settembre 1965, n. 45, in FI, 1965, I, 1118: “ dal complessivo contesto del
1°comma dell’art. 4 Cost. si ricava che il diritto del lavoro, riconosciuto ad ogni cittadino, è da
considerare quale fondamentale diritto di libertà della persona umana, che si estrinseca nella
scelta e nel modo di esercizio dell’attività lavorativa. A questa situazione giuridica del cittadino
fa riscontro, per quanto riguarda lo Stato, da una parte il divieto di creare o di lasciar sussistere
nell’ordinamento norme che pongono o consentono di porre limiti discriminatori a tale libertà,
dall’altra l’obbligo di indirizzare l’attività di tutti i pubblici poteri e dello stesso legislatore alla
creazione di condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l’impiego di tutti i
cittadini idonei al lavoro. Da siffatta interpretazione deriva che l’art. 4 cost., come non
garantisce a ciascun cittadino il diritto al conseguimento di una occupazione, così non
garantisce il diritto alla conservazione del lavoro, che nel primo dovrebbe trovare il suo logico e
necessario presupposto. Con ciò non si vuol dire che la disciplina dei licenziamenti si muova su
un piano del tutto diverso da quello proprio dell’art. 4 della Costituzione…”
5
Cfr. E. COSTA, Percorsi giurisprudenziali nel diritto del lavoro, Torino, 2001, pp.134-135.
10
1.3 Limiti sostanziali al potere di licenziare: principio di
giustificazione e regola del recesso vincolato.
L’imposizione di limiti al potere di licenziamento come garanzia per i
lavoratori presupponeva, ovviamente, il superamento del dogma liberale
della parità formale delle parti del contratto di lavoro e il parallelo
riconoscimento della necessità di introdurre correttivi nella dinamica di
funzionamento di un rapporto di potere diseguale.
6
Il passaggio dalla
libertà di licenziamento alla logica del licenziamento vincolato comincerà
a materializzarsi nel nostro ordinamento, soltanto verso la metà degli anni
’60 del secolo scorso, con l’approvazione della legge 15 luglio 1966, n.
604, nonostante già da tempo di dubitasse della compatibilità della regola
del recesso ad nutum col mutato quadro di valori accolto dalla
Costituzione del 1948.
In verità, limiti al potere di licenziamento ad nutum erano già stati
introdotti dalla contrattazione collettiva, già prima della legge n. 604
7
; la
legge del 1966 riprende, in sostanza, i contenuti della disciplina stabilita in
sede sindacale, e viene indicata come “ Legge sulla giusta causa ”. Si
tratta, in realtà, di una denominazione impropria, in quanto la giusta causa
era già prevista dal codice civile allo scopo di esonerare la parte recedente
dall’obbligo del preavviso; nel nuovo sistema la giusta causa continua ad
assolvere la medesima funzione, ma diviene anche una delle ragioni che
possono essere addotte per giustificare la legittimità di un licenziamento.
6
Cfr.: ROCCELLA, Manuale di diritto del lavoro, seconda edizione, Torino, 2001, pp. 390-391.
7
In particolare, dagli accordi interconfederali del 1950 e del 1965, applicabili nel solo settore
industriale; in forza di tali accordi, il potere di recesso del datore di lavoro era sottoposto, oltre
che a vincoli formali 8 comunicazione scritta ), al limite sostanziale del giustificato motivo o
della giusta causa; in caso di licenziamento ingiustificato, il datore di lavoro era obbligato alla
riassunzione o, in mancanza, al pagamento di una penale a titolo di risarcimento del danno ( c.d.
tutela obbligatoria ). La disciplina collettiva aveva però un’efficacia alquanto ridotta: gli accordi
interconfederali, oltre ad essere vincolanti soltanto per i soggetti iscritti alle associazioni
sindacali stipulanti, erano applicabili solo ai datori di lavoro con più di 35 dipendenti, e
demandavano l’accertamento della giustificazione del licenziamento alla valutazione equitativa
di un apposito collegio di conciliazione ed arbitrato.
11
La novità vera consiste nella trasformazione del potere di licenziamento da
atto di autonomia privata totalmente insindacabile, a negozio giuridico la
cui legittimità suppone non soltanto il rispetto di determinati requisiti di
forma, ma soprattutto l’esistenza di ragioni giustificatrici: giusta causa ai
sensi dell’art. 2119 c.c. o giustificato motivo; alla regola del recesso ad
nutum fa seguito quella per cui il licenziamento è valido ed efficace
soltanto se è assistito da un giustificato motivo, che occorre, poi, provare
in giudizio ad onere del datore di lavoro
8
.
La legge n. 604 introduceva, quindi, il principio per cui il datore di
lavoro che occupasse più di 35 dipendenti, poteva licenziare il lavoratore
solo per iscritto e solo per giusta causa o giustificato motivo; in caso di
licenziamento privo di giustificazione, si consentiva al datore di lavoro di
offrire al lavoratore una somma di denaro ( compresa tra 5 e 12 mensilità )
in luogo della reintegrazione nel posto di lavoro. Proprio per il fatto che la
legge non garantiva il posto di lavoro al lavoratore illegittimamente
licenziato, ma si limitava a prevedere un obbligo alternativo come quello
di cui sopra, la dottrina indicava come meramente obbligatoria la tutela
che la legge stessa offriva al lavoratore, in contrapposizione alla ben più
efficace tutela, detta reale, che sarebbe stata offerta dallo Statuto del
lavoratori
9
.
1.4 Lo Statuto dei lavoratori e la legge n. 108 del 1990.
Il salto di qualità nella tutela contro i licenziamenti illegittimi è frutto
della disciplina contenuta nello Statuto dei lavoratori, mediante la quale
sono state colmate le evidenti inadeguatezze delle regole varate appena
quattro anni prima. L’art. 18 dello Statuto, infatti, colpisce in maniera
radicale il licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo: l’atto
8
Cfr.: DEL PUNTA, Lezioni di diritto del lavoro, Milano, 2006, p. 486.
9
Cfr.: CHIUSOLO, op. cit., p.2.
12
riconosciuto illegittimo dal giudice è privo di ogni effetto giuridico e il
datore di lavoro è condannato, senza possibilità di opzioni alternative, alla
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro. Attraverso la specifica
misura sanzionatoria, in altre parole, si tende ad ottenere l’effetto della
restituzione in forma specifica del bene leso ( il posto di lavoro di cui il
lavoratore è stato ingiustamente privato ): un bene nel quale confluiscono
valori, ad un tempo, di natura patrimoniale e personale e che, dunque,
appare al legislatore meritevole di essere garantito da una forma di tutela
reale
10
.
Con l’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, inoltre, l’area
della libera recedibilità si restringe ulteriormente: l’obbligo di giustificare
il licenziamento, infatti, viene esteso agli imprenditori che occupino,
all’interno dell’unità produttiva o nell’ambito dello stesso comune, più di
quindici dipendenti ( più di cinque con riferimento agli imprenditori
agricoli ). Vengono in tal modo a coesistere, in relazione ai limiti
dimensionali dell’impresa ed alla natura dell’attività svolta, tre regimi del
tutto diversi di tutela contro il licenziamento
11
:
a) quello della tutela reale ( art. 18 dello Statuto dei lavoratori )
per i lavoratori delle imprese agricole con più di cinque
dipendenti o delle imprese industriali e commerciali
occupanti in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o
reparto autonomo, o comunque, sul territorio comunale, più
di quindici dipendenti, a prescindere dal loro numero
complessivo;
b) quello della tutela obbligatoria ( art. 8 della legge n. 604 del
1966 ) per i lavoratori delle imprese industriali e
commerciali occupanti un numero di dipendenti superiore a
trentacinque, relativamente ai lavoratori di unità produttive
10
Cfr.: ROCCELLA, op. cit., p. 392.
11
Cfr.: TATARELLI, Il licenziamento individuale e collettivo, Padova, 2006, pp. 4-5.
13
che sul territorio comunale non raggiungevano i 16 addetti,
nonché per i dipendenti da datori di lavoro non imprenditori
occupanti più di trentacinque lavoratori;
c) quello della recedibilità ad nutum ai sensi dell’art 2118 c.c.
per i lavoratori delle imprese occupanti sino a trentacinque
dipendenti in unità produttive che sul territorio comunale
non raggiungevano i sedici addetti, nonché per i dipendenti
dei datori di lavoro non imprenditori con forza lavoro
inferiore ai trentasei dipendenti.
La sovrapposizione delle due discipline ( la legge n. 604 del 1966 e la
legge n. 300 del 1970 ) che si era creata, aveva suscitato non poche
questioni interpretative di rilievo, stante la differente tutela accordata ai
lavoratori colpiti da licenziamenti ingiustificati ed il significato fortemente
innovativo dell’art. 18 dello Statuto
12
. Secondo alcuni, il legislatore del
1966 aveva dettato una disciplina caratterizzata dalla “ stabilità
obbligatoria ” del posto di lavoro, mentre il legislatore dello Statuto aveva
introdotto la ben più incisiva “ stabilità reale
13
”; altri, invece, osservavano
che la tutela obbligatoria non era altro che una variante onerosa della
libera recedibilità, e che quindi lo Statuto introduceva una “ stabilità senza
aggettivi
14
”.
Il difficile coordinamento delle diverse discipline ha portato la
dottrina, ma soprattutto la giurisprudenza, ad interrogarsi sulla razionalità
e la ragionevolezza della disparità di trattamento che ne consegue, e ha
segnato la strada che ha condotto alla consolidazione dell’ormai pacifica
teoria delle tutele parallele.
Secondo una prima teoria, minoritaria sia in dottrina che in
giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore dell’art. 18 dello Statuto, l’unica
12
Cfr.: BALLESTRERO, I licenziamenti, Milano, 1975, pp. 76-80.
13
Vedi: TREU, Lo Statuto dei lavoratori: vent’anni dopo, in QDLRI, n.6, 1989, P. 38.
14
Vedi: MANCINI, Il nuovo regime del licenziamento, in AA.VV., L’applicazione dello Statuto
dei lavoratori. Tendenze e orientamenti, Milano, 1975, pp. 191-192.
14
reazione dell’ordinamento ad un licenziamento illegittimo doveva essere
individuata nella reintegrazione, in quanto tale disposizione avrebbe
definitivamente abrogato l’art. 8 della legge del 1966, sostituendo così la
tutela reale alla tutela obbligatoria
15
.
Secondo un’autorevole dottrina, invece, la tutela reale doveva essere
garantita a tutti i lavoratori, in quanto il riferimento contenuto nell’art. 35
dello Statuto, alla consistenza numerica dell’unità produttiva dovrebbe
essere correttamente riferito al solo titolo III dello Statuto stesso e agli
ultimi tre commi dell’art. 18, che disciplinano gli effetti del
licenziamento illecito di un dirigente sindacale
16
.
Un orientamento giurisprudenziale degli anni ‘70, di merito e di
legittimità, aveva elaborato la c.d. “ teoria della doppia chiave
17
”; secondo
tale interpretazione le disposizioni di cui all’art. 11 della legge del 1966
ed all’art. 35 dello Statuto si integrerebbero. Il procedimento per definire
la sfera di operatività dell’art. 18 sarebbe articolato un due fasi: in primo
luogo sarebbe necessario verificare l’illegittimità del licenziamento alla
stregua del requisito dimensionale stabilito dall’art. 11 ( trentacinque
dipendenti nell’impresa ); successivamente, al momento di stabilire le
conseguenze del licenziamento illegittimo, si dovrebbe verificare
l’applicabilità dell’art. 18 ( quindici dipendenti nell’unità produttiva ). Ma
una simile interpretazione conduceva ad una notevole riduzione dell’area
della tutela reale.
La tesi fino ad oggi prevalente è quella espressa a partire dalla
decisione della Corte Costituzionale n. 55 del 1974
18
, ossia la “ teoria
delle tutele parallele ”. Secondo tale teoria, la tutela reale e la tutela
15
In dottrina cfr.: BIAGI, La dimensione dell’impresa nel diritto del lavoro, Milano, 1978, p. 99
ss. In giurisprudenza vedi: Cass. 30 maggio 1975, n. 2199, in MGL, 1975; Cass. 22 luglio 1976,
n. 2945, in GC, 1976, I, p. 1765; Trib. Milano, 15 aprile 1979, in RGL, 1979, p.336.
16
Cfr.: MANCINI, sub art. 35, Statuto dei diritti dei lavoratori, Commentario a cura di Scialoja-
Branca, Bologna-Roma, 1972, p. 538 ss.
17
Vedi: Pret. Firenze, 3 giugno 1972, in MGL, 1972, p. 344; cfr. contra: Pret. Milano, 19 luglio
1984, in OGL, 1984, p. 1160; Cass. S.U. n.6068/1983, in GC, 1984, I, p.123.
18
Vedi: Corte Cost. n. 55/1974, in FI, 1974, I, p.959; cfr. anche: Cass. 7 gennaio 1978, n. 5058,
in FI, 1978, I, p. 2398 e Cass. 15 ottobre 1985, n. 5050, in FI, 1985, I, p. 2876.
15
obbligatoria si muoverebbero su binari paralleli, e ciascuna opererebbe sul
proprio distinto campo di applicazione, definito rispettivamente nell’art.
35 dello Statuto per la stabilità reale ( unità produttive con più di quindici
dipendenti ) e nell’art. 11 della legge n. 604 del 1966 per la stabilità
obbligatoria ( imprese con più di trentacinque dipendenti ).
Sulla base di tale assetto, restavano però prive di tutela, in quanto
ancora assoggettate alla disciplina codicistica del libero recesso,
consistenti fasce di lavoratori, in particolare quelli dipendenti dalle piccole
imprese
19
. L’esigenza, sottolineata anche dalla Corte Costituzionale
20
, di
offrire anche a questi lavoratori una protezione contro il licenziamento
ingiustificato, specie in ragione del numero crescente degli occupati in tali
imprese, ha infine condotto all’emanazione della legge n. 108 del 1990, la
quale ha ridisegnato in larga misura la disciplina preesistente, sia
ridefinendo il campo di applicazione della tutela reale e della tutela
obbligatoria, sia sancendo esplicitamente il generale principio della
giustificazione del licenziamento, che ormai vale per tutti i lavoratori,
salvo rare eccezioni
21
.
Seguendo le sollecitazioni della Corte Costituzionale, la nuova legge
ha esteso in modo significativo l’area della tutela reale
22
: in primo luogo
viene definitivamente superata la distinzione tra impresa e datore di
lavoro, estendendo l’obbligo della reintegrazione ai datori di lavoro non
imprenditori che soddisfino gli stessi requisiti dimensionali posti dalla
legge per le imprese, ossia quindici dipendenti nella singola unità
produttiva o comunque distribuiti nella stessa area comunale; in secondo
luogo, anche se resta la distinzione fra datore di lavoro ed unità produttiva,
il 2° comma dell’art. 18 prevede che le disposizioni inerenti alla
19
Si trattava, più precisamente, dei lavoratori occupati in imprese con meno di 16 dipendenti, ma
anche di quelli occupati in unità produttive con meno di 16 dipendenti facenti capo a datori di
lavoro con meno di 36 dipendenti.
20
Cfr.: Corte Cost. 14 gennaio 1986, n. 2, in GC, 1986, I, p. 235.
21
Cfr.: GHERA, op. cit., p. 183.
22
Cfr.: MAZZOTTA, I licenziamenti, Commentario, Milano, 1992, pp. 686-688.
16
reintegrazione si applichino, in ogni caso, al datore di lavoro, imprenditore
e non, che occupi più di sessanta dipendenti.
Risultano così garantiti dalla stabilità reale i lavoratori di imprese con
più di sessanta dipendenti addetti a micro-unità produttive con meno di
sedici dipendenti nello stesso comune. Infine, l’allargamento dell’area
della tutela reale consegue anche dai nuovi criteri di computo dei
lavoratori, che hanno aumentato il numero di datori di lavoro sottoposti
alla reintegrazione.
1.5 Licenziamento ad nutum: da regola ad eccezione.
La legge n. 108 del 1990 ha comportato la cancellazione pressoché
totale dall’ordinamento dell’istituto del licenziamento ad nutum, il quale
oramai sopravvive in un’area del tutto residuale. L’esclusione di alcune
categorie di lavoratori dalla tutela contro il licenziamento ingiustificato
può essere, volta a volta, spiegata in ragione dello specifico contenuto
della prestazione lavorativa, ovvero della natura fiduciaria del rapporto di
lavoro, o, ancora, in ragione del presunto venir meno dell’interesse del
lavoratore alla stabilità del rapporto. Nell’area in questione rientrano:
● i lavoratori domestici, per evidenti ragioni legate all’ambito di
svolgimento del rapporto di lavoro e al carattere fortemente fiduciario del
rapporto;
● i lavoratori ultrasessantacinquenni in possesso dei requisiti per il
conseguimento della pensione di vecchiaia
23
;
● i dirigenti, in ragione della particolare caratterizzazione fiduciaria
del rapporto di lavoro e della loro collocazione nell’impresa, che li rende
non omologabili agli altri lavoratori. Va tuttavia segnalato che la
contrattazione collettiva ha introdotto una nozione di giustificatezza del
23
Lo stesso limite di età, ai fini dell’esercizio del potere di licenziamento ad nutum, deve
ritenersi applicabile anche alle lavoratrici, che pure conseguono la pensione di vecchiaia a
sessanta anni. Vedi, in tal senso: Cass. 24 aprile 2003, n. 6535, in RIDL, 2003, II, p. 829.
17
licenziamento, in mancanza del quale il dirigente può ottenere, ricorrendo
ad un collegio di conciliazione ed arbitrato, ma anche al giudice di merito,
un’attribuzione patrimoniale risarcitoria ( c.d. indennità supplementare );
24
● ed infine i lavoratori in prova, in base alla loro esplicita
esclusione dalla disciplina limitativa dei licenziamenti
25
; esclusione che,
peraltro, cessa nel momento in cui l’assunzione diventa definitiva e, in
ogni caso, decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro. La Corte
costituzionale ha ritenuto legittima tale esclusione
26
, affermando che il
lavoratore è sufficientemente garantito contro possibili abusi
dell’imprenditore dalla possibilità sia di dimostrare che non è stata
consentita la verifica delle sue capacità professionali alla quale è
finalizzato il periodo di prova, sia di provare l’imputabilità del
licenziamento ad un motivo illecito. Va precisato, inoltre, che in caso di
recesso dell’una o dell’altra parte durante il periodo di prova, non è dovuto
il preavviso né, naturalmente, la corrispondente indennità sostitutiva; ma
se la prova è stata stabilita per un periodo minimo, la facoltà di recesso
non può essere esercitata prima della scadenza di tale periodo ( art. 2096,
co. 3°, c.c. ).
24
Vedi: Cass. 8 novembre 2002, n. 15749, in DPL, 2003, p. 512 : “… la nozione di
giustificatezza non coincide con quella di giustificato motivo.. si tratta di una nozione più vaga,
che consiste nell’assenza di arbitrarietà, o, per converso, nella ragionevolezza del
provvedimento che lo dispone…”; nello stesso senso cfr.: Cass. 7 agosto 2004, n. 15322, in DPL,
2005, p. 127.
25
Vedi l’art. 10 della legge n. 604 del 1966.
26
Vedi: Corte cost. 4 dicembre 2000, n. 541, in GC, 2000, p. 4198.