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introdotto il “giustificato motivo oggettivo”: consente cioè, che il lavoratore
possa essere licenziato per ragioni tecnico-produttive-organizzative
collegate alla posizione di lavoro occupata; riproponendo la principale
causale dei licenziamenti collettivi.
Negli ultimi anni si è fatta avanti con forza una nuova nozione,
impiegata in alcuni ordinamenti europei ma trascurata in quello italiano. È
la nozione di licenziamento per ragioni economiche, che abbraccia tutte le
ipotesi di risoluzione di uno o più rapporti di lavoro ad iniziativa del datore
di lavoro aventi causa in esigenze tecnico-organizzative o produttive. La
disciplina normativa si trova, pertanto, a mediare tra l’ovvio interesse del
lavoratore alla conservazione del posto di lavoro, quello datoriale a
preservare le ragioni di funzionalità dell’organizzazione produttiva e quello
sindacale a monitorare ed eventualmente a incidere sulla vicenda, a tutela
della rappresentanza di interessi collettivi.
Questa semplificata visione della mediazione legislativa si complica
allorquando ci si interroga su quale sia l’interesse datoriale ritenuto
meritevole di tutela, ai fini della legittimità del licenziamento: se cioè sia
sufficiente a giustificare la risoluzione del o dei rapporti qualunque perdita
economica o di efficienza aziendale o se occorra una perdita
particolarmente qualificata (specie se comparata con il sacrificio imposto al
o ai lavoratori) o se sia necessaria la definitiva soppressione del o dei posti
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di lavoro o se legittimi il licenziamento anche la mera sostituzione del o dei
lavoratori con altri meno costosi o più efficienti.
Al di là del profilo definitorio, questo studio ha lo scopo di
esaminare il rapporto esistente nel nostro ordinamento tra le fattispecie del
licenziamento collettivo e del licenziamento individuale per giustificato
motivo oggettivo. Con un rapido excursus viene ripercorsa l’evoluzione del
profilo definitorio delle due figure: dall’originaria disciplina degli accordi
interconfederali sino ai più recenti orientamenti della dottrina e della
giurisprudenza, con riferimenti anche all’impostazione degli interventi
comunitari.
Particolare attenzione viene al riguardo prestata alla proposta dottrinale di
accorpare le due fattispecie in un'unica categoria di licenziamenti per
«ragioni economiche», sul presupposto della sostanziale identità causale
delle due tipologie di licenziamento e sulla falsa riga di quanto avviene in
altri ordinamenti, con cenni di comparazione e di revisione del concetto del
repechage in relazione con i licenziamenti collettivi.
Ci si sofferma, poi, sulle forme di garanzia sostanziale (vincoli causali) e
procedurale (controllo pubblico-sindacale) poste a tutela dei lavoratori: le
prime, tipicamente riferite al licenziamento individuale, sollecitano un
dibattito in ordine alla loro applicabilità anche ai licenziamenti collettivi,
sicuramente investiti, invece, da corpose tutele di tipo procedurale.
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La disputa sui vincoli causali dei licenziamenti collettivi e, quindi, sulla
sindacabilità giudiziale dei presupposti legittimanti, vede dottrina e
giurisprudenza attestate su posizioni tendenzialmente divergenti: la prima
propensa a valorizzare il rilievo delle giustificazioni causali; la seconda, al
contrario, attenta soprattutto, se non esclusivamente, al solo rispetto degli
oneri procedurali predisposto in particolare, dalla legge n. 223/1991.
Il dibattito è reso particolarmente attuale dalla contraddizione che
viene a crearsi tra la frequente adozione del criterio di scelta dei lavoratori
da sodare imperniato sulla maggiore anzianità contributiva e la necessità di
ancorare la scelta medesima a presupposti oggettivi (funzioni o posizioni
oggettivamente esuberanti), spesso non coincidenti con il criterio ‘sociale’
della prossimità al pensionamento.
Com’è noto la disciplina del licenziamento in Italia è di orientamento
squisitamente liberista: il sistema è imperniato sul recesso ad nutum,
parzialmente corretto, negli anni, attraverso una serie di accordi
interconfederali che, tra l’altro, aprono la strada ad una canonizzazione
della distinzione tra licenziamenti collettivi e licenziamenti individuali
(legge n. 604/1966), seguita da quella disciplinante i licenziamenti per
riduzione di personale (legge n. 223/1991); mutazione che, in ogni caso,
sembra non essersi arrestata visto l’avvicendarsi di ulteriori interventi
normativi (comunitari e nazionali) nonché di continui spunti di riflessione
offerti dalla dottrina e dalla giurisprudenza.
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L’evoluzione normativa ed interpretativa si rivela non priva di
interesse agli occhi non solo dei giuristi ma anche di economisti, sociologi e
politologi, che in essa rinvengono la causa o l’effetto delle alterne vicende
che hanno interessato, nella seconda meta del Novecento, il sistema
produttivo italiano. Un cenno in prospettiva storica a tale evoluzione si
presenta, pertanto, indispensabile. Tentiamo allora di riassumere
brevemente questa evoluzione nelle sue tappe fondamentali.
Generalmente si afferma che presupposto naturale della
configurabilità del licenziamento è la sussistenza del rapporto di lavoro.
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II. – Precedenti storici
Il codice civile del 1865, non regolava il contratto di lavoro, fatta
eccezione della norma che prescriveva il contratto di lunga durata (art.
1628). Niente diceva la legge, quindi, in ordine ai modi di risoluzione del
rapporto; prospettandosi, secondo un impostazione rigorosa, l’inevitabilità
della risoluzione per pronuncia del giudice.
Nell’affanno della ricerca di uno schema contrattuale di diritto
comune adattabile, nella quale cercare di inquadrare il contratto di lavoro,
la dottrina ha parlato di locatio operarum.
Nell’esperienza venne costruendosi di fatto, secondo l’esigenza di
dinamismo derivante dalla realtà dei rapporti, l’istituto del recesso,
ammettendosi la possibilità, per ognuno delle parti del rapporto, di risolvere
il medesimo per libera manifestazione unilaterale di volontà.
Questa costruzione venne avvallata dalla giurisprudenza dei probiviri
che contestualmente consolidò, la regola del preavviso, al fine di porre la
parte non recedente in condizioni di poter provvedere ai propri interessi, per
la ricerca di altra occupazione da parte del lavoratore o per il reperimento di
altra persona da parte del datore di lavoro.
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Anche la dottrina andò orientandosi in questo. Massimamente con
due elaborazioni attribuibili a F. Carnelutti e a L. Barassi
1
; il primo
argomentato al principio di temporaneità di tutti i vincoli obbligatori tipico
degli ordinamenti individualistico-borghesi dell’epoca post rivoluzione
francese; il secondo, soprattutto, dalla natura intrinsecamente fiduciaria del
rapporto.
1
Sul pensiero dei quali, v. MANCINI, G. F., Relazione al seminario del 1966 organizzato dall’Ist.
Dir. Lav. Univ. Di Firenze su Giusta causa e giustificato motivo nei licenziamenti individuali,
Milano, 1967, 1 ss.
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III. – Il Codice del 1942 e la successiva evoluzione della
normativa.
Il codice del 1942 formalmente accolse e generalizzò, con una
soluzione tipicamente liberale, rigettando ogni suggestione che avrebbe
potuto ben trarsi da una diversa concezione del rapporto di lavoro
propiziata dall’ideologia corporativa, il principio del recesso c.d. ad nutum,
con piena ed insindacabile libertà delle parti. «Ciascuno dei contraenti può
recedere dal contratto di lavoro di lavoro a tempo indeterminato dando il
preavviso» (art. 2118) ma non vi è alcun cenno alla necessità di forma
scritta, né di motivazione o di giustificazione. Sempre per ambedue i
contraenti il codice prevede, all’art. 2119, la possibilità di recedere dal
contratto senza preavviso in quello a tempo indeterminato o prima della
scadenza del termine in quello a tempo determinato, nell’insorgenza di una
giusta causa; cioè «qualora si verifichi una causa che non consenta la
prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto». Sulla base di questa
sistemazione si è posto in dottrina il problema se sia tuttavia possibile la
risoluzione per inadempimento del contratto alla stregua del diritto comune
(art. 1453 c.c.) per via giudiziaria, con una risposta generalmente negativa.
Il problema è di scarsa importanza pratica, posto il riconoscimento del
potere o diritto potestativo di recesso nei termini indicati.
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Sopravvenuta la Costituzione repubblicana del 1948, a largo
impegno sociale, prese avvio in dottrina un vario movimento volto al
pratico superamento del principio di licenziabilità ad nutum scritto nel
codice, proponendosi una «rilettura» della normativa quivi convenuta.
Questo movimento, e questa tensione ideale, meritano di essere ancor oggi
ricordati, sol perchè, come si vedrà dopo, per dato positivo la disciplina del
codice permane, seppur in una zona ridotta; onde permane ancor oggi il
problema di giustificarne, in ipotesi, la contrarietà ai disposti costituzionali.
In verità il movimento riformistico non fu solo di pretta ispirazione
costituzionalistica. In un altro filone della dottrina, si prospetto altra
impostazione ricostruttiva, in termini diversi rispetto a quelli solitamente
correnti, del rapporto di lavoro e della sua natura. Alcuni scrittori,
proposero con impegno di superare la concezione per cosi dire libero –
scambista del rapporto, configurandolo in termini associativi,
nell’identificazione di un interesse comune ad ambedue le parti egualmente
impegnate a proseguirlo in reciproca collaborazione ed in valutazione delle
rispettive posizioni. Se ne deduceva che non poteva ammettersi una libertà
assoluta di licenziamento e che questo, invece, poteva aver corso solo nella
ricorrenza di una giustificazione obiettiva comprovabile e controllabile dal
magistrato. Il principio di necessaria giustificazione del licenziamento
sarebbe generalmente operante, in un certo senso per «diritto comune»,
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anche oltre i limiti positivamente dettati dalla legge per la delimitazione del
campo di applicazione della disciplina limitativa dei licenziamenti.
La tesi costituzionalistica venne sostenuta da alcuni autorevolissimi
autori (Mortati e Natoli)
2
. Si argomentava dal principio secondo il quale
l’iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale
(art. 41, 2° co., Cost.), sulla premessa, ovvia, che il licenziamento non
assistito da giustificato motivo fosse in sé contrastante con l’utile sociale. Si
affermava, altresì, che dal principio costituzionale del diritto al lavoro ( art.
4 Cost.) logicamente derivava la tutela dell’interesse del lavoratore alla
conservazione del posto di lavoro acquisito. Da questo la conclusione che il
licenziamento non giustificato poteva valutarsi in termini di eccesso di
potere o abuso di diritto, tuttavia addossandosi al lavoratore l’onere della
prova della mancanza di giustificazione.
Queste impostazioni venivano disattese in larga parte dalla dottrina,
con varia argomentazione. Si negava che l’obbligo della repubblica di
procurare ad ogni cittadino il lavoro dovesse comportare di necessità una
regolamentazione limitativa del licenziamento, intendendosi il medesimo
come impegno di provocare una situazione complessiva di pieno impiego,
in se compatibile con il mantenimento della regola di libera recedibilità del
rapporto. Si negava poi che la clausola dell’utilità sociale dell’art. 41 Cost.
2
NATOLI U., Limiti costituzionali dell'autonomia privata nel rapporto di lavoro: introduzione. –
Milano, Giuffrè, 1955.
MORTATI C., Studi sul potere costituente e sulla riforma costituzionale dello Stato – Milano,
Giuffrè, 1972. - XVII.
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potesse aver immediato corso, esigendosi, per lo svolgimento della
medesima, corrispondenti interventi legislativi.
Della questione di legittimità dell’art. 2118 c.c. venne investita la
Corte Costituzionale che con sentenza 9.6.1965, n. 45, ne dichiaro
l’infondatezza in quanto l’art. 4 Cost. non garantisce ai cittadini né il diritto
al conseguimento di un’occupazione, né quello alla sua conservazione. La
Corte escluse che la normativa costituzionale potesse in sé comportare il
superamento della regola posta nel codice; per altro verso non escludendosi
la possibilità di un eventuale intervento limitativo della legge. Questa
pronuncia di poco prima alla legge limitativa del 1966, va ricordata;
soprattutto perché la medesima fa corpo con tutti i pronunciati successivi in
ordine di legittimità o no della limitata operabilità del regime limitativo dei
licenziamenti. Essendosi in ogni caso la Corte sempre rifiutata di mettere in
discussione le scelte di volta in volta adottate dal legislatore. Da questo
corpo di giurisprudenza si deduce che la Costituzione non impone, in se, un
determinato regime limitativo dei licenziamenti, tutto essendo demandato
alle libere scelte politiche del legislatore. In altre parole può dirsi che
questo regime imitativo non è costituzionalizzato. Posta l’intrinseca
evanescenza del concetto di utilità sociale, le contrapposte ideologie sociali
in definitiva si risolvono in diverse concezioni tutte opinabili, dell’utile
sociale, e tutte proponibili; quella di «giustizia sociale» che ritiene
inderogabile la regola della giustificazione e quella liberale secondo la
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quale solo un regime di libera recedibilità contribuisce alle fortune
dell’impresa, e, quindi all’interesse generale.
Almeno nel settore dell’industria, la riforma del luglio 1966 è stata
preceduta da una significativa esperienza sul piano contrattuale collettivo.
Dopo il blocco dei licenziamenti disposto per legge, in una seconda fase in
forma più attenuata, nel primo dopoguerra, nelle eccezionali condizioni del
momento, si ebbe nel 1947, un accordo interconfederale per le procedure in
tema di licenziamenti e per le commissioni interne, subentrando nel 1950
due accordi, poi rinnovati nel 1965. Uno di essi (ancora vigente) riguardava
i licenziamenti collettivi per riduzione del personale, un secondo i
licenziamenti «individuali», ossia disposti nell’assunta emergenza di un
fatto rimproverabile al lavoratore; con questo prendendo avvio, sul piano
contrattuale, il processo che ha condotto al (parziale) superamento del
recesso ad nutum.
Secondo l’accordo, il lavoratore poteva impugnare il licenziamento
innanzi un collegio di conciliazione e di arbitrato, ponendosi pero la riserva
della deducibilità della lite sulla giusta causa innanzi al giudice ordinario. Il
collegio, ove ritenesse non giustificato il licenziamento, poneva al datore di
lavoro l’alternativa tra il ripristino de rapporto o il pagamento di una penale
risarcitoria da determinarsi tra un minimo un massimo di mensilità di
retribuzione. Si fece questione della natura e, quindi, della possibilità
giuridica o no di questo arbitrato, in riferimento ai disposti del codice di