Dalla propaganda neo-conservatrice incentrata sul concetto di “scontro di
civiltà” successiva all’11 settembre alla recente messa in discussione di modelli
societari multi-culturali sedicenti “di successo”, dall’instaurazione di cariche
politiche espressamente dedicate all’attuazione delle “pari opportunità” tra i
sessi al ritorno alla ribalta di ideologie riguardanti la famiglia ed il ruolo della
donna ispirate all’integralismo cattolico più oscurantista, dalla retorica post-
modernista sulle “società senza classi” alla ri-definizione di tali
raggruppamenti sociali secondo le linee di una frammentarietà esperita (subita)
proprio nell’ambito che le teorie post-moderne volevano svuotato di centralità,
il lavoro, tali dimensioni si confermano come fondamentali nella strutturazione
dell’azione reciproca dei soggetti sociali e delle loro interpretazioni della
realtà.
Diverso è lo spazio di azione politica che questi concetti creano intorno a sé:
come fa notare Slavoj Žižek (cfr. il manifesto, 7/10/04), razza e genere sono
due costrutti sociali a base identitaria, e le rispettive pratiche “progressiste” cui
danno adito (antirazzismo, antisessismo) mirano ad una neutralizzazione degli
antagonismi insiti nel loro orizzonte discorsivo e ad una loro trasformazione in
riconoscimento “orizzontale” delle differenze e delle possibilità di esprimere
liberamente in tutti i campi (culturale, economico, politico) tali differenze.
Quello di classe è invece un concetto “verticale”, in quanto la lotta cui fa
riferimento tende all’affermazione della prospettiva opposta: qui le differenze
vengono radicalizzate e trasformate in antagonismo, fino al prevalere (fisico o
socio-politico) di una classe su un’altra e non alla conquista della possibilità
per tutte le classi di esprimersi liberamente, in quanto l’espressione di una
costituisce necessariamente la subalternità di un’altra. In altre parole,
quest’ultima è una dimensione fondamentalmente relazionale e non identitaria:
omologarla al catalogo delle differenze “culturali” quali, appunto, razza e
genere (ma anche religione, nazionalità, orientamento sessuale) significa
normalizzarne la portata sovra-determinante rispetto a tutti gli altri tipi di
conflitti tipici della contemporaneità, e ridurre le dinamiche da essa generate a
VI
meccanismi affermativi di una singolarità sociale declinabile in termini di
“orgoglio” o “appartenenza”, perdendo di vista la loro natura di lotte di potere.
Affermazione dell’altro contro sua sottomissione, quindi. Se queste
osservazioni aiutano senza dubbio a far chiarezza sulle caratteristiche
strutturali delle categorie in questione e a sgomberare il campo da tentazioni
verso facili quanto improprie assimilazioni, esse non impediscono tuttavia di
asserire uno stretto legame tra razza, genere e classe sociale. Che il ruolo di
quest’ultima sia predominante nella definizione e nel divenire storico dei
rapporti di potere all’interno della società è un assunto condiviso all’interno
della trattazione contenuta nelle pagine seguenti: che categorie socialmente
costruite e recepite come genere e razza svolgano un’importante funzione di
mediazione ed articolazione degli interessi di classe e dell’espressione
simbolica di tali interessi è un convincimento teorico non meno fondamentale.
Tale problematica viene sviluppata, in guisa di riflessione di respiro generale
sui meccanismi della produzione di senso nelle società contemporanee,
nell’ultimo capitolo, ove viene usata come teoria di riferimento l’elaborazione
gramsciana del rapporto tra struttura e sovrastruttura che attribuisce a
quest’ultima (in particolare, alle formazioni culturali) un ruolo relativamente
autonomo.
L’analisi testuale al centro del presente lavoro ha come oggetto un film
americano di inizio anni Settanta, Shaft il detective. La scelta di tale testo è
stata dettata, oltre che, inevitabilmente, da un orientamento del gusto
individuale difficilmente (in quanto si tratterebbe di una auto-analisi) rendibile
in termini rigorosi da un punto di vista scientifico, dalla constatazione del ruolo
avuto dalla pellicola in questione nella codificazione di una serie di
componenti fondamentali del sotto-genere che in quegli anni informerà di sé
una parte rilevante della produzione di immaginario estetico e socio-culturale,
ovvero la blaxploitation. Dalla musica all’abbigliamento, dall’esibizione di
comportamenti rituali alla costruzione di un gergo comune, alla formulazione
di una certa idea di corporeità, questo filone di film (allora) considerati di serie
B (un sotto-genere, appunto, del gangster movie di ambientazione urbana),
VII
“fatti da neri per un pubblico nero” , rivelerà negli anni a seguire tutte le sue
potenzialità di referente culturale a cui non solo i professionisti del pastiche
iconografico e sonoro attingeranno a piene mani a vent’anni di distanza (cfr. in
campo cinematografico il Tarantino de Le Iene e Pulp Fiction, fino
all’omaggio esplicito di Jackie Brown; in campo musicale, il revival del funky
tra le basi da cui sviluppare il proprio discorso rock e hip hop promosso da
artisti quali Rage Against The Machine e Cypress Hill a partire dall’inizio degli
anni Novanta), ma da cui anche le “nuove leve” del cinema afro-americano
politicamente più impegnato saranno influenzate, anche e forse soprattutto in
termini oppositivi, di critica ad una professata “rinuncia al messaggio politico”
in realtà estremamente politica in sé e nelle rappresentazioni che la sorreggono
(cfr. le opere di Spike Lee, Mario Van Peebles e John Sigleton, quest’ultimo
autore nel 2000 di un bizzarro sequel-remake di Shaft).
Il prodotto cinematografico viene così contestualizzato all’interno di dinamiche
che superano i confini propri dell’immaginario filmico, e diviene un momento
di elaborazione e proposta di strategie simboliche e pratiche di adattamento alla
realtà attraverso un’attiva ri-costruzione iconico-testuale di quest’ultima, che
reca in sé l’offerta di una soluzione più o meno definitiva dei macro-conflitti
valoriali che la percorrono.
Lo scopo principale dell’analisi diventa a questo punto rintracciare i sedimenti
di discorsi sociali e politici provenienti da diversi contesti culturali, e fornire
un’interpretazione dei risultati della loro interazione nella costruzione del testo
orientata all’esposizione delle posizioni valoriali che le varie rappresentazioni
così conseguite esprimono.
Si è tentato di conseguire tale obiettivo attraverso la divisione del lavoro in due
parti, “testo” e “contesto”.
Nella prima parte si cerca di fornire definizioni pragmaticamente orientate
verso i fini dell’analisi testuale di termini quali “cultura”, “popolarità”,
“prodotto culturale” (capitolo 1) e “rappresentazione” (capitolo 2), ovvero
definizioni che contengano in sé la dichiarazione di una chiara collocazione
concettuale dei termini in questione e le indicazioni di carattere metodologico
VIII
necessarie per una loro indagine. I contribuiti teorici utilizzati sono di vario
genere e provenienza: da quelli più propriamente sociologici a quelli derivanti
da un filone di studi interdisciplinare ormai largamente consolidato come i
cultural studies, da impostazioni programmatiche circa la decostruzione di un
testo di stampo strutturalista a intuizioni sul modo di tenere uniti nell’analisi gli
aspetti estetico e contenutistico di derivazione socio-semiotica, sino ad
approcci che già al loro interno sintetizzano e superano discorsi disciplinari
diversi (sociologico, economico, psicoanalitico) quali le teorie dell’industria
culturale e della società di massa. Successivamente, si procede ad un affresco
contestualizzante dell’oggetto di studio prescelto che tiene in considerazione
tanto il panorama storico e socio-politico quanto le dinamiche produttive
proprie dell’industria cinematografica negli anni immediatamente precedenti
alla realizzazione dell’opera, e si dà l’avvio all’analisi testuale vera e propria
rispettando la cronologia interna del testo e quindi proponendo una lettura
dell’inizio del film, pratica analitica questa che ha dato origine ad un campo di
studi a sé stante (capitolo 2).
Nei successivi tre capitoli l’analisi si sviluppa secondo una divisione del testo
ispirata ai due macro-contenitori simbolici di razza e genere: viene quindi presa
in considerazione la rappresentazione dei rapporti del protagonista (il detective
Shaft, appunto) con i bianchi (cap. 3), i neri (cap. 4) e le donne (cap. 5).
All’interno di questi ambiti viene poi inserita un’ulteriore suddivisione operata
in base al “lavoro” in senso lato (essendo presenti anche gangster e
rivoluzionari) svolto dai personaggi del film, ove anche gli aspetti relativi alla
classe sociale, così come alle inclinazioni politico-ideologiche e “morali”,
possono essere tenuti in considerazione. Nel corso della trattazione frequenti
sono i confronti con altre pellicole e, in un caso, con un romanzo, derivanti
dalla convinzione teorica che un testo esprima parte del suo potenziale
semantico attraverso catene inter-testuali di rimandi non inscritte nella sua
superficie manifesta, bensì attivabili a posteriori da un soggetto quale lo
spettatore/lettore/critico interessato allo sviluppo storico e culturale di
determinati discorsi sociali.
IX
Nella seconda parte, lo sguardo si allarga e si generalizza nel tentativo di
operare una sintesi tra livello macro (contesto sociale) e livello micro (oggetto
culturale) dell’analisi, passando attraverso un livello meso rappresentato dall’
organizzazione, vista come un diaframma che riceve input culturali dalla
società o da strati di essa e li filtra, codificandoli, verso un determinato
prodotto. Ad un’esposizione delle varie teorie sociologiche sulle
organizzazioni e dei loro sfondi teorici di riferimento (cap. 6) fa quindi seguito
un’applicazione pratica di concetti e nozioni di carattere euristico allo studio di
un’organizzazione in particolare, o meglio a un sistema di organizzazioni
ispirate a parametri economici, valoriali e di divisione del lavoro comuni,
Hollywood (cap. 7).
L’ultimo capitolo è dedicato all’approfondimento del concetto di ideologia,
attraverso il quale possono essere spiegate tanto le rappresentazioni individuate
all’interno del testo di riferimento quanto le scelte operate a livello produttivo
ed organizzativo nella composizione di questo tipo di testi, e, più in generale, i
meccanismi di costruzione, percezione e “virtualizzazione” della realtà sociale
così come la esperiamo (o crediamo di esperirla) quotidianamente.
Si ritorna in questo modo alla trattazione di categorie di senso (e,
nell’accezione riportata nel capitolo 9, ideologiche) centrali nell’orientamento
valoriale e nella produzione normativa e simbolica di qualsiasi collettività
sociale estesa quali razza, genere e classe sociale. Categorie, queste, che
possiedono un potere disciplinare sugli atteggiamenti e i comportamenti
collettivi enorme, e che proprio per questo sono l’oggetto di un’incessante lotta
di definizione semantica, soprattutto per quanto riguarda la razza e soprattutto
adesso che “’l’altro’ non è più esotico, ma ti vive accanto”, come ha rilevato la
professoressa Paola Boi in un recente congresso sui significati della “razza”, tra
virgolette per sottolinearne il carattere di costrutto sociale, nel XXI secolo. Un
“altro” che “può essere albanese o rumeno, dunque bianco. Eppure, finisce con
l’assumere il proteiforme ruolo che apparteneva tradizionalmente all’uomo
nero: l’Uomo invisibile raccontato da Ralph Ellison, che esiste solo negli
stereotipi.altrui”.
X
Parte prima. Testo
1. “I don’t see any method at all, sir”. Il prodotto culturale e la
sua analisi
Sayings containing the magical ephitet
“popular” are shielded from scrutiny by the
fact that any critical analysis of a notion
which bears closesly or remotely to “the
people” is apt to be identified immediately as
a symbolic aggression against the reality
designed – and thus immediately castigated
by all those who feel duty bound to defend
“the people”.
Pierre Bourdieu, Language and Symbolic
Power
1.1 L’idea di cultura e le sue dimensioni.
L’inquadramento concettuale dei film popolari richiede l’esplicazione dei
presupposti di metodo in base ai quali si intende svolgere l’analisi. Già a questo
primo livello i problemi sono molteplici, e non riguardano solo la scelta della
metodologia da seguire. Infatti, la stessa definizione di film “popolare” è
ambigua o, se si preferisce, particolarmente feconda di possibili percorsi di
indagine.
L’aggettivo usato per specificare la categoria cui si fa qui riferimento inserisce
da subito l’oggetto dell’analisi nel campo delle relazioni sociali: la “popolarità”
è un attributo che si riferisce alla relazione tra un film ed il suo pubblico,
potenziale o effettivo. Questa connessione così banale svela tutta la sua
problematicità se messa sotto quella che potremmo considerare come una lente
di ingrandimento dei concetti e delle pratiche sociali più irriflessi: l’idea di
cultura.
Affinché tale lente risulti efficace come strumento è necessario un chiarimento
preliminare circa la sua natura e quindi l’utilizzo che se ne può fare. Seguendo
2
la riflessione teorica di uno dei fondatori dei cultural studies britannici,
Raymond Williams, si può utilmente definire la cultura come
“the signifying system through which necessarily (though among
other means) a social order is communicated, reproduced,
experienced and explored”
1
.
E’ una definizione che non solo prende in considerazione una molteplicità di
pratiche sociali – comunicazione, riproduzione, esperienza, conoscenza – ma
tratteggia anche i contorni di una mappa concettuale pluridimensionale e con
una molteplicità di entrate.
Essendo un sistema, la cultura è costituita da elementi che le danno forma e
struttura; essendo significante essa si pone come una centrale simbolica da cui
emanano concezioni, atteggiamenti, orientamenti o, se si vuole, come un
diaframma che si frappone tra il soggetto e l’oggetto, orientando lo sguardo del
primo e plasmando la percezione che egli ha del secondo. La relazione di
necessità (anche se non di esclusività) stabilita tra la cultura e l’ordine sociale
chiarisce la prospettiva sociologicamente orientata di Williams, ma non
rinchiude tale nesso all’interno di una rigida univocità: anzi, l’affermazione
secondo la quale il mondo sociale viene riprodotto attraverso la cultura sembra
conferire a quest’ultima un’importante funzione costituente. Se i rapporti
sociali sono fatti sensibili che producono un determinato ordine materiale
dell’esistenza, essi producono altresì una rappresentazione simbolica di tale
ordine che si impone come immagine della società e funge da modello per la
sua trasmissione e riproduzione futura. Il processo comunicativo è quindi
inteso come processo costitutivo, in quanto ogni riproduzione di un
determinato ordine simbolico si basa su elementi pre-esistenti ma non è e non
può essere mai una mera copia di ciò che è stato prodotto in precedenza,
proprio perché non viene mai meno il rapporto dialettico con la realtà sociale,
dinamica, che costruisce la sua rappresentazione ed in seguito ne è influenzata.
1
Raymond Williams, Culture, London, Fontana Paperbacks, 1981, p. 13.
3
L’esperienza è all’interno di questa mappa concettuale sicuramente il punto di
entrata più trafficato: è attraverso questa, infatti, che si acquisiscono le
coordinate e le competenze necessarie per muoversi nell’universo simbolico in
cui ci si trova a vivere. Si tratta di un percorso al cui inizio sta già un serbatoio
valoriale di pre-concetti e pre-giudizi, senza i quali ci si troverebbe
nell’impossibilità stessa di iniziare quell’”esplorazione” di cui parla Williams,
acquisiti attraverso la comunicazione e la trasmissione, i quali possono venire
in egual modo confermati o disconfermati.
L’esplorazione è allora in ultima analisi conoscenza, confronto e giudizio in cui
interagiscono competenze intellettuali, credenze pregresse e elementi
provenienti da un ordine simbolico all’interno del quale si ricercano dei
significati condivisi, ed è ciò che ci si propone di fare qui riguardo alla nozione
di popolarità.
1.2 Cultura popolare e cultura di massa.
Una delle dicotomie più comuni all’interno della quale è possibile inserire il
concetto di “popolare” è quella che vede contrapposta cultura alta e cultura
bassa. Dal punto di vista della fruizione, i prodotti della prima sono consumati
all’interno di cerchie sociali ristrette, i cui componenti non si considerano
fruitori di merci bensì appassionati o esperti in un determinato campo dell’arte.
La circolazione di questi prodotti è necessariamente limitata a delle élite che
dispongono di un notevole capitale culturale e, almeno all’interno delle
suddette cerchie, sociale. I contenuti e le forme espressi tendono a porsi come
avanguardia e a sfidare le concezioni dominanti.
I prodotti del secondo tipo di cultura, quella bassa o popolare, godono invece di
una circolazione potenzialmente illimitata, essendo supportati da poderosi
apparati produttivi e distributivi, e hanno un rapporto con i loro ricettori
apparentemente ambiguo ma in realtà estremamente funzionale. Mentre infatti
tendono a fidelizzare i propri “acquirenti” ricorrendo a delle routine
consolidate, contemporaneamente operano il maggior grado possibile di
anonimizzazione e indeterminazione dei contenuti proposti. Se, cioè, da una
4
parte il framing
2
testuale, iconico, auditivo e la scelta di tematiche e strutture
narrative o compositive consolidate cerca di stabilire con i recettori un rapporto
quasi intimo, di riconoscimento automatico e altrettanto automatica
predisposizione all’acquisto o alla fruizione, dall’altra parte l’obiettivo
primario dell’industria culturale di raggiungere il maggior numero di individui
possibile impedisce l’approfondimento di un determinato aspetto, contenuto,
stile a scapito di un altro, in quanto così facendo si correrebbe il rischio di
perdere una considerevole fetta di non ancora-utenti, ai quali non è possibile
proporre un oggetto per “specialisti”. Ciò che rende di volta in volta appetibili i
prodotti di questa industria è l’inserimento di elementi apparentemente
eccentrici ma che in realtà, come dimostra l’analisi di Umberto Eco dei
romanzi di James Bond, non toccano la struttura fondamentale del testo (nel
caso specifico, sono sempre presenti quattro personaggi principali
rappresentanti valori di base come amore-morte o lealtà-slealtà, e gli incontri
tra di loro hanno sempre gli stessi esiti: gli elementi “innovativi” sono
solitamente rappresentati da ambientazioni esotiche e gadget tecnologici)
3
.
La pretesa di innovazione esibita dai prodotti dell’industria culturale può anche
assumere la forma in apparenza demistificante dello sberleffo rivolto ad una
serie di credenze diffuse, aspettative standardizzate ed orientamenti collettivi,
ma nondimeno costituire, come dimostra la seguente analisi del film animato
Shrek (USA 2001) svolta dal filosofo sloveno Slavoj Žižek, una strategia di
riconferma di costanti stilistico-narrative consolidate e posizioni morali
egemoniche, tanto più forte quanto più veste queste ultime di un accattivante
quanto effimero manto dissacratorio:
“la classica struttura narrativa della favola è immersa in continui e
scherzosi “straniamenti” brechtiani, ribaltamenti del politicamente
corretto, frecciate ironiche contro la vanità femminile, imprevisti
2
cfr. Diana Crane, The Production of Culture. Media and the Urban Arts, London, Sage, 1992,
trad. it. La produzione culturale, Bologna, il Mulino, 1997, p. 111.
3
cfr. Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano,
Bompiani, 1979.
5
ribaltamenti di personaggi da cattivi a buoni, fino alla citazione
anacronistica di abitudini moderne e cultura pop. Invece di elogiare
troppo in fretta questi spiazzamenti e queste nuove inscrizioni
come potenzialmente “sovversivi” […] dovremmo porre
l’attenzione sul fatto evidente che – attraverso tutti questi
spiazzamenti – viene raccontata la solita vecchia storia. In breve,
la vera funzione di questi spiazzamenti e rovesciamenti è proprio
quella di rendere appetibile il racconto tradizionale per la nostra
epoca “postmoderna”, e quindi di impedirci di rimpiazzarlo con
una nuova storia”
4
.
Edgar Morin individua nel contrasto tra dinamiche burocratiche e bisogno di
innovazione la contraddizione fondamentale dell’industria culturale:
“L’industria culturale deve dunque costantemente superare una
contraddizione fondamentale tra le proprie strutture burocratizzate-
standardizzate e l’originalità (individualità e novità) del prodotto
che deve fornire. Lo stesso suo funzionamento si compie partendo
da queste due coppie antitetiche: burocrazia-invenzione, standard-
individualità”
5
.
Le condizioni di possibilità di una siffatta organizzazione risiedono nella
struttura stessa dell’immaginario:
“L’immaginario si struttura secondo alcuni archetipi: ci sono dei
modelli-guida dello spirito umano, che ordinano i sogni, e
particolarmente i sogni razionalizzati costituiti dai temi mitici o
romanzeschi. Regole, convenzioni, generi artistici, impongono
delle strutture esterne alle opere, mentre situazioni-tipo e
4
Slavoj Žižek. Benvenuti nel deserto del reale, Roma, Meltemi, 2003, pp. 75-76.
5
Edgar Morin, L’esprit du temps, Paris, Grasset, 1962, trad. it. L’industria culturale, Bologna,
il Mulino, 1963, p. 23.
6
personaggi-tipo ne forniscono le strutture interne. […] Esistono
tecniche standard di individualizzazione, che consistono nel
modificare l’ordine dei diversi elementi, così come è possibile,
servendosi di pezzi standard di un meccano, ottenere gli oggetti più
vari”
6
.
Un esempio interessante di questo processo di fidelizzazione/standardizzazione
è fornito dagli “Star studies”, il filone di ricerca semiotica e sociologica sul
cinema di consumo che prende in considerazione i divi dei film come immagini
ideologiche che tendono a riconciliare le contraddizioni della società
capitalistica, presentando come naturale ciò che è sociale e predisponendo una
visione del mondo (vale a dire di tematiche come le differenze di classe o la
costruzione di genere e razza) unificata e coerente
7
. Un’immagine di Arnold
Schwarzenegger denoterà così un certo personaggio con caratteristiche già
conosciute ed apprezzate dai suoi ammiratori che, attraverso le sue
interpretazioni precedenti, hanno già stabilito un rapporto fiduciario e
“personale” con lui e non esiteranno a fruire della sua ultima fatica per vedere
confermate le proprie aspettative; contemporaneamente, attraverso un
meccanismo indiretto ed allusivo la stessa immagine rimanderà a significati e
simbologie molto più generali come la mascolinità, l’”Americanità” etc., che
un pubblico molto più vasto sarà in grado di recepire ed eventualmente
giudicare come elementi sufficienti alla visione dell’ultimo film del divo.
Questo secondo livello semantico, quello connotativo, è secondo la semiotica
di Roland Barthes quello proprio del mito: dal cinema alla pubblicità, dal cibo
ai giocattoli alla moda, è questo il meccanismo significante centrale della
cultura pop contemporanea
8
.
6
Ibid., pp. 23-24.
7
cfr. Paul McDonald, “Star studies”, in Joanne Hollows and Mark Jancovich (edited by)
Approaches to popular film, Manchester, Manchester University Press, 1995, pp. 80-83.
8
cfr. Roland Barthes, Mythologies, Paris, Seuil, 1957, trad. it. Miti d’oggi, Torino, Einaudi,
1974.
7
Anche la riflessione di Adorno sulla popular music ci viene in aiuto
nell’inquadramento di questo importante processo di strutturazione degli
oggetti del consumo intellettuale di massa:
“i suoi concetti chiave sono la standardizzazione e, per giustificare
gli apparenti elementi di varietà, la pseudoindividualizzazione […]
Una canzone non dev’essere soltanto “conosciuta” ma anche
“nuova” – cioè deve stimolare l’attenzione dell’ascoltatore – e per
risolvere questa necessità contraddittoria vengono introdotti effetti
“pseudoindividualizzanti” (che, simultaneamente, rafforzano
l’ideologia di “creatività” e “unicità” richiesta dal produttore).
Secondo Adorno, questi effetti hanno due caratteristiche. Prima di
tutto sono di facciata, ovvero si limitano agli elementi più
superficiali […] Allo stesso tempo, sono sempre ascoltati in
relazione allo schema fondamentale o all’effetto atteso su cui si
basano e su cui operano una variazione: essi sostituiscono le
formule “corrette”, quindi possono essere un fattore eccitante ma
non provocheranno mai un vero disturbo”
9
.
Con le dovute cautele, si può tentare di riportare quest’analisi ai film popolari
ed alle star che li interpretano. Il sopraccitato Schwarzenegger (o meglio, la sua
immagine) rappresenta per esempio un punto di riferimento sicuro sul quale
concentrare determinate aspettative rispetto allo schema narrativo, formale e
contenutistico che si troverà in un film (azione, violenza, conflitto valoriale
elementare ed assoluto – bene vs. male, eroismo ed individualismo contro
regole e burocrazie ottuse), nonché rispetto all’effetto atteso (il bene trionfa, le
incarnazioni del male vengono eliminate o comunque punite). Lo stesso
sistema di aspettative può essere proiettato senza timore di venire delusi su una
quantità di altre star e sui rispettivi film: per esempio, Bruce Willis, oltre a
9
Richard Middleton, Studying Popular Music, Buckingham, Open University Press, 1990,
Studying Popular Music, trad. it. Studiare la popular music, Milano, Feltrinelli, 2001.
8
possedere caratteristiche fisiche simili a quelle di Schwarzenegger, rimanda
anch’egli ad ideali di mascolinità ed “Americanità”, e nella maggior parte dei
film dove ricopre il ruolo di protagonista sono presenti gli stessi elementi di
base citati in precedenza. Ciò che differenzia le immagini dei due divi e le
rispettive pellicole sono una serie di elementi eccentrici che servono a dare
l’illusione di unicità: il secondo aggiunge ad esempio al suo personaggio una
dose di ironia ed un fare canzonatorio e disilluso assente nelle interpretazioni
del primo, giocate anzi sulla freddezza e l’impassibilità. Questi tratti vengono
inseriti nell’economia del film ad un livello superficiale, senza cioè intaccarne
la struttura fondamentale e i prevedibili sviluppi narrativi, ma la loro presenza
serve a giustificare le pretese di “unicità” e “creatività” alla base delle
dinamiche promozionali dei prodotti così costruiti, creando un immaginario
tipicizzato e facilmente riconoscibile intorno ad un determinato attore o attrice.
Quindi, quando uno spettatore preferisce Willis a Schwarzenegger risponde ad
una sollecitazione costruita su differenze pseudo-individuali che gli forniscono
solo la mera illusione di orientarsi secondo un gusto personale.
E’ di nuovo Morin a fornirci un resoconto critico di questo processo simbolico:
“Il film […] deve ogni volta tentare una sintesi difficile dello
standard e dell’originale: lo standard beneficia del successo passato
e l’originale è il pegno del successo nuovo, ma il già noto rischia di
spiacere. Ecco perché il cinema cerca il divo (o la diva), che unisce
l’archetipo e l’individuale; si comprende perciò come il divo sia il
miglior antirischio della cultura di massa, e in particolare del
cinema”
10
.
I tratti sinora indicati come caratteristici degli oggetti della cultura popolare
identificano quest’ultima sostanzialmente con la cultura di massa, quella
cultura cioè prodotta, distribuita e fruita secondo criteri di mercato. E’ questa
naturalmente un’identificazione di parte e orientata alla predisposizione di
10
Edgar Morin, L’esprit du temps, cit., p. 25.
9