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letterario del componimento. Quindi inviava una risposta. Se questo
primo scambio di waka aveva esito felice, l’uomo continuava a
mandare lettere e infine andava a farle visita per amoreggiare con
lei. Le cortigiane erano educate e colte proprio come le future geishe.
Una di loro, Murasaki Shikibu, fu l’autrice del primo romanzo
giapponese, Storia di Genji, scritto intorno all’anno 1000, che narra le
avventure amorose dell’affascinante principe Genji. Allora le cortigiane
vivevano quasi in clandestinità, dentro case prive di finestre e di
giorno immerse nella penombra. Si spostavano usando carri trainati da
buoi, sedute in una specie di abitacolo che le nascondeva agli occhi
degli altri. L’orlo dei pregiati vestiti indossati era l’unica parte
visibile, che loro lasciavano intravedere in modo malizioso. Queste
cortigiane vestivano una dozzina di kimono, uno sull’altro, quello
sopra più corto di quello sotto, in modo che ai polsi e al collo i
bordi dei vari strati apparissero con i colori alla moda. Conducendo
una vita quasi da rinchiuse, la loro pelle era pallida, resa ancor più
bianca con l’applicazione di escrementi di allodola essiccati e tritati, e
di una polvere bianca ricavata da bucce di riso, semi di convolvolo o
biacca di piombo. Quest’ultima, usata in seguito anche dalle geishe,
provocava un invecchiamento prematuro della pelle. Le guance
venivano dipinte di rosso con petali tritati di cartamo, a metà del
labbro inferiore disegnavano un punto rosso intenso, si strappavano le
sopracciglia per essere sostituite da due puntini color antracite, mentre
i denti venivano tinti di nero con una tintura di polvere di galla e
ferro sciolta nell’aceto o nel tè. Per gli abitanti di Heian avere i
denti bianchi era considerato barbaro. L’elemento più pregiato erano i
capelli, lunghi, liberi e lucenti che scendevano fino a terra.
Gli uomini erano pallidi, sovrappeso ed effeminati. S’incipriavano il
viso e si annerivano i denti, si lasciavano crescere barbette a punta e
si profumavano abbondantemente capelli e vestiti. Il loro passatempo
preferito, ancora in voga nel Giappone odierno, era il gioco
dell’incenso.
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Nell’era Heian di maggior splendore il divertimento era offerto da
prostitute che occupavano una precisa scala gerarchica: nella parte più
bassa c’erano le comuni meretrici soprannominate “donne vaganti”,
“donne fluttuanti” e “donne da gioco”; in quella più alta c’erano le
cortigiane raffinate ed educate che possedevano abilità artistiche.
Esperte musiciste, ballerine e cantanti, le cortigiane erano spesso le
concubine preferite degli aristocratici e sono considerate le dirette
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Ognuno a turno si passava un bruciaprofumi e ne annusava il fumo, in modo da individuare e
valutare il tipo di incenso sprigionato dal piccolo braciere.
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antenate della geishe. Le più popolari erano le danzatrici shirabyoshi,
che indossavano abiti bianchi e berretti da uomo, portavano la spada
e si esibivano in canzoni e balli al ritmo di una musica dalla carica
erotica. Erano delle star come oggi lo sono i cantanti pop e gli attori
cinematografici, e spesso diventavano le compagni di uomini potenti
del Giappone. La più famosa fra tutte fu Shizuka Gozen, concubina
dell’eroe del XII secolo Yoshitsune e rivendicata secoli dopo dalle
prime geishe come loro capostipite. Era celebre per la bellezza che
riguardava, oltre l’aspetto fisico, anche l’abilità nella danza, così
magica che in un’occasione, mentre il paese stava attraversando un
tremendo periodo di siccità, gli dèi inviarono la pioggia non appena
Shizuka iniziò a ballare. Infatti in Giappone la danza nacque come
tecnica per invocare la comprensione degli dèi. La danza di questa
affascinante figura leggendaria è eseguita tuttora sui palcoscenici dei
teatri giapponesi: secondo la storia, la donna fu costretta a danzare da
Yoritomo, all’epoca il capo militare del paese, o shogun, e fratellastro
maggiore di Yoshitsune. Yoritomo l’aveva catturata e ordinò di
uccidere il figlio che lei aveva avuto da Yoshitsune, in quanto nessun
erede maschio doveva sopravvivere per continuare la stirpe. Avvolta
in un vestito di damasco cinese e i lunghi capelli raccolti in uno
chignon, allargò il ventaglio rosso ed eseguì lo shirabyoshi, la danza
che ne prende il nome, cantando e danzando con tanta grazia e
fascino da stregare tutti gli spettatori. Poi, quando fu sicura di averli
in pugno, cantò di fronte al nemico una canzone d’amore dedicata a
Yoshitsune che era riuscito a sfuggire al tiranno fratellastro. Questi,
furioso per un simile affronto ma incantato dalla sua voce, decise di
liberarla.
Le danzatrici shirabyoshi raggiunsero la popolarità a partire dal XII
secolo fino al 1500. Poco più di cento anni dopo, all’inizio del 1600,
l’odierna Kyoto, capitale ufficiale del Paese, rappresentava una vera e
propria mecca del divertimento e i quartieri del piacere erano una
delle attrazioni principali. Qui, all’interno di taverne e di case da tè,
cortigiane di lusso vendevano tè o sakè e offrivano ai clienti, dietro
compenso, diversi tipi di piacere, che consistevano in canti, danze e
vendendo a quelli più ricchi il loro corpo. Inoltre il pubblico
maschile, disteso su tappeti di feltro rosso, assisteva a perfomance di
donne che si esibivano, su palcoscenici di teatrini improvvisati, in
vivaci danze al ritmo dello shamisen (liuto a tre corde) o del flauto.
A quell’epoca Kyoto stava attraversando un periodo di tranquillità,
in cui si potevano ammirare burattini, lottatori, acrobati, mangiatori di
spade, ridere per gli scherzi dei pagliacci o ingannare il tempo con
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canti e danze. L’uomo che contribuì alla rinascita del Giappone, dopo
oltre quattro secoli di guerre civili, fu il generale Ieyasu Tokugawa.
Nel 1603 si proclamò shogun e governatore in nome dell’imperatore
e scelse come sede il villaggio di Edo che, tempo dopo, sarebbe
diventato Tokyo. Con il fine di creare una società ordinata in cui non
ci fossero sommosse, lo shogunato adottò come religione di Stato il
neoconfucianesimo del filosofo cinese Chu Hsi, il quale, con i suoi
rigidi codici comportamentali, fu esteso a tutte le classi sociali. Furono
introdotte leggi suntuarie che regolavano ogni aspetto della vita
quotidiana di ciascuna classe sociale: l’abbigliamento, cosa mangiare,
come acconciarsi i capelli, dove vivere, chi sposare, come arredare la
casa. Al vertice della piramide gerarchica stava il daimyo, il principe
della provincia. Seguivano la classe militare dei samurai, i contadini,
apprezzati poiché indispensabili per la produzione del riso, gli
artigiani e i mercanti. Nel sistema gerarchico Tokugawa non
comparivano due classi sociali in quanto considerate spregevoli: la
prima riguardava gli intrattenitori popolari, menestrelli ambulanti,
musicisti, prostitute, giocolieri, buffoni, ballerini, attori e grandi
cortigiane, definiti con il termine “kawaramono”, gente del letto del
fiume, costretta a vivere lungo le rive dei fiumi in secca; l’altra
comprendeva gli hinin, i non umani, quasi tutti mendicanti o persone
che svolgevano lavori umili e sgradevoli.
Nel corso del 1600, nonostante gli intrattenitori non godessero di
buona reputazione (dal punto di vista della società), nacque una vera
industria dello spettacolo, con cortigiane attrici, cantanti e ballerine che
incarnavano le dive del periodo e numerose imitatrici che
presentavano balli erotici e farse da camera da letto. Okuni fu una di
queste dive, la quale, nel 1603, iniziò a proporre spettacoli di danza
insieme al suo gruppo di artiste ambulanti su un palco costruito
all’aperto nel letto secco del fiume Kamo, a Kyoto. Le sue esibizioni
suscitarono un notevole entusiasmo tra un pubblico piuttosto
eterogeneo composto da samurai, donne e bambini, come dimostrano i
ritratti dell’epoca. Gli artisti la raffiguravano mentre si esibiva in
danze sensuali, accompagnata da un gruppo di cantanti, flautisti e
percussionisti. Oltre a essere una ballerina straordinaria, era anche una
prostituta poiché in quel periodo le due professioni si
sovrapponevano. Okuni proponeva antiche danze popolari riadattate,
come la danza della preghiera buddhista che interpretava indossando
indumenti sacerdotali, un copricapo nero e ampi pantaloni neri,
percuotendo una campana con un piccolo martello. Il pezzo forte del
suo repertorio era rappresentato dalle performance in abiti maschili: si
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travestiva da prete scintoista o imitava un prete cristiano ballando
con un grande rosario dorato, oppure corteggiava una cortigiana,
facendo morire di risate il pubblico che l’ammirava. Le sue esibizioni
erano così fuori del comune che fu coniato il termine kabuki, dal
verbo kabuku, che significa essere scatenato, vivace e oltraggioso. La
sua danza fu infatti all’origine del teatro kabuki e anche del mondo
delle geishe.
L’oscenità degli spettacoli, che si diffusero sulla scia del successo
di Okuni, comportò l’intervento del governo, che nel 1628 proibì alle
artiste donne di esibirsi in pubblico. La legge era difficile da far
rispettare, tanto che fu riproposta nel 1629, 1630, 1640, 1645 e 1647.
Alcune attrici diventarono solo prostitute, altre intrapresero la
professione di insegnanti di musica e di danza nelle case dei
samurai.
Il kabuki venne affidato a giovani attori, quasi tutti ragazzini con
meno di quindici anni, i quali si esibivano in spettacoli acrobatici e
giochi di abilità, mentre i più belli iniziarono a interpretare ruoli
femminili. I giovani artisti vivevano soprattutto nella zona di Kyoto
chiamata Miyagawa-cho e si comportavano nella vita di tutti i giorni
come se stessero ancora recitando sul palco. Il governo, tuttavia, non
riuscì a fermare la prostituzione maschile che ormai si stava
diffondendo. Infatti i giovani attori approfittavano della loro popolarità
per procurarsi i clienti, nella maggior parte preti buddisti e samurai
(questi ultimi consideravano l’omosessualità la più pura forma
d’amore). Nel 1652 questo tipo di kabuki fu sostituito con un tipo di
spettacolo interpretato solo da uomini adulti, come avviene oggi.
I quartieri del piacere di Kyoto rappresentavano, con il teatro
kabuki, luoghi di dubbia moralità, in cui ogni uomo, soprattutto
mercanti o ricchi signori, avrebbe potuto divertirsi con cortigiane che
offrivano, oltre al proprio corpo, anche canti e danze. Nel 1589
(quindi prima dell’inizio dell’era Tokugawa) un certo Saburoemon
Hara ottenne il permesso di aprire a Kyoto il primo bordello di tutto
il Giappone. Inizialmente costruì un piccolo quartiere non lontano dal
palazzo dell’imperatore che chiamò Yanagimachi (Città dei salici). Nel
1641 il distretto fu collocato lontano dal centro della città e
soprannominato Shimabara, dal nome del luogo in cui avvenne tre
anni prima una rivolta dei cristiani, e probabilmente rumoroso come
quella sommossa. All’interno di Shimabara che, visto dall’esterno,
pareva una prigione, fiorivano strade ed edifici eleganti. Uno di questi,
la Sumiya, fu il primo esempio di architettura di casa da tè venendo
addirittura costruita nel 1781. La ricchezza degli interni contrastava
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con la semplicità esterna degli edifici. Nella Stanza del Ventaglio il
soffitto era d’oro e decorato con immagini di ventagli, le porte
istoriate con scene tratte dalla Storia di Genji, mentre in una parte
della sala c’era un palco sul quale gli artisti si esibivano cantando e
suonando lo shamisen.
Il governo approvò l’apertura del quartiere del vizio poiché il suo
scopo principale era controllare gli attori e le cortigiane-prostitute,
insieme alla loro clientela, confinandoli in luoghi appropriati,
nascondendo in questo modo la depravazione dell’ambiente. Ma,
contrariamente a ciò che pensava, Shimabara divenne un luogo di
successo tanto che l’imperatore stesso lo frequentava di nascosto.
Offriva infatti un mondo che permetteva agli uomini di allontanarsi
dalla noiosa vita quotidiana, di sentirsi dei veri re, in favore del
divertimento che, oltre al sesso, riguardava l’eleganza, la cultura e le
performance artistiche. “Ukiyo”, il mondo fluttuante, fu il termine che
definiva questo nuovo stile di vita, introdotto nel 1661 dallo scrittore
Ryoi Asai. Da esso derivarono le ukiyo-e, ossia le incisioni
xilografiche che raffiguravano i personaggi del mondo fluttuante, come
le cortigiane, le prostitute e più tardi anche le geishe.
Purtroppo per le donne che vi lavoravano non era un mondo fatato.
La maggior parte proveniva dalle campagne, belle figlie di contadini i
quali, non avendo di che sfamarsi, le vendevano ai proprietari del
bordello contraendo ingenti debiti quasi sempre decennali. Infatti le
ragazze, reclutate sin da bambine all’età di sei, sette anni, indossavano
splendidi kimono, mangiavano riso bianco, ma tutto questo non faceva
altro che accrescere il loro debito, stipulato ancor prima del loro
arrivo. Per estinguerlo completamente erano costrette a lavorare giorno
e notte, con soli tre giorni di libertà all’anno, riducendosi quasi del
tutto a schiave in una gabbia dorata. Queste donne erano considerate
dai loro clienti più degli oggetti erotici, e non tanto delle artiste
educate e colte.
Shimabara possedeva un suo modo di parlare, quindi la ragazza che
riusciva a scappare, veniva immediatamente identificata grazie a quel
dialetto e rispedita indietro. Le bambine incominciavano come
domestiche e poi diventavano kamuro, attendenti delle cortigiane. Esse
ricevevano un’adeguata istruzione dalle cortigiane, che insegnavano
varie arti come la musica, la cerimonia del tè e la calligrafia, oltre
alla conversazione e al modo di comportarsi con gli uomini. La
regola fondamentale era flirtare con i clienti, giocare con loro, ma mai
innamorarsi di nessuno. Verso i tredici, quattordici anni la ragazza
subiva un importante rito di passaggio, il mizuage, da parte di un
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facoltoso cliente che pagava molto per assicurarsi tale onore (non per
la fanciulla). In questo modo la ragazza raggiungeva la maturità
sessuale, ovvero perdeva la verginità.
Le tayu occupavano il primo posto della piramide gerarchica del
mondo delle cortigiane-prostitute. Indossavano splendidi kimono di
seta a strati, di cui lo scarlatto era il colore dominante e l’obi (ampia
fascia che funge da cintura) con il nodo sul davanti indicava la loro
disponibilità sessuale. Vere superstar del mondo fluttuante, il cliente
poteva espressamente incontrare una di loro, e per farlo doveva
richiedere un appuntamento in una ageya, antenata della casa da tè
dei quartieri delle geishe. La tayu, che si presentava con il suo
seguito di ballerine e giovani attendenti, intratteneva il cliente con
canti e danze a cui egli partecipava, leggevano insieme poesie e
facevano la cerimonia del tè e dell’incenso. Se il cliente desiderava
trascorrere la notte con lei doveva sostenere un lungo e costoso
corteggiamento, in quanto la tayu rappresentava un oggetto esclusivo
e prezioso. Essa poteva permettersi di non andare a letto con lui, ma
se accettava il prezzo era elevato: novanta pepite d’argento (momme),
pari oggi a settecento euro. Il secondo posto era occupato dalla koshi,
che costava sessanta pepite d’argento; seguiva la sancha, cameriera-
cortigiana di una casa da tè, del valore di trenta, mentre le hashi
erano prostitute di livello molto inferiore, le quali anche un cliente
meno ricco poteva permettersele.
Nella seconda metà del 1600 a Edo fu costruito un altro importante
quartiere del piacere, lo Yoshiwara. Il ricco Shoji Jinemon ne ottenne
l’autorizzazione dallo shogun, il governo dell’epoca, per la costruzione.
Il distretto, dopo un incendio, fu ricostruito nel 1656 a una certa
distanza dalla città e divenne verso la fine del secolo il quartiere del
vizio più grande del Giappone, con oltre tremila cortigiane celebri per
il loro hari, il portamento. Lo Yoshiwara rappresentava, come
Shimabara, un’autentica mecca del divertimento, che offriva ai
facoltosi clienti varie forme di spettacolo: teatro kabuki, lotta libera,
danze di vario tipo, canti, musica e, ovviamente, sesso a pagamento.
Gli uomini più poveri non avevano il privilegio di entrare in quel
mondo dorato e tantomeno permettersi la compagnia di una tayu (la
cortigiana di Kyoto) o di una oiran (la cortigiana di Edo). Ciò favorì
la diffusione presso il popolo comune di xilografie, opere kabuki,
storie di amori travolgenti e suicidi che tanto entusiasmavano i
cittadini.
La prostituzione non si diffuse solo all’interno dei quartieri
autorizzati: numerose donne di basso livello si prostituivano
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illegalmente nei bagni pubblici, in cui i clienti si divertivano e si
riposavano in grandi sale d’attesa. Una di loro, la bella Katsuyama,
vissuta realmente a Edo verso la metà del 1600, possedeva abilità
artistiche e si esibiva in performance travestita da uomo e in balli
seducenti, come il Tanzen-bushi, dal nome del bagno pubblico in cui
lavorava. La sua fama fu così elevata da oscurare le altrettanto
celebri oiran e favorire risse. Per questo motivo il bagno pubblico
Tanzen fu chiuso e Katsuyama inserita nello Yoshiwara elevandola
subito al rango di oiran.
L’industria dello spettacolo, che fu il cuore dei quartieri del piacere
di Yoshiwara e di Shimabara, espanse il suo successo per tutto il
XVII e gli inizi del XVIII secolo, fino a che emerse al loro interno
un nuovo tipo di donna che non vendeva il corpo come le
cortigiane, bensì il suo talento artistico.
A differenza di quanto uno possa pensare, le prime geishe non sono
state donne ma uomini. Si chiamavano taikomochi, portatori di
tamburi, dal nome del piccolo strumento (il tamburino) che alcuni di
loro suonavano. Già esistevano all’interno dei primi quartieri del
piacere, come buffoni e giullari che, invece di recitare sul palco,
interagivano con i clienti e li intrattenevano con scherzi di vario tipo,
canzoni piccanti e improvvisazioni di scenette oscene. Fu il fondatore
dello Yoshiwara a Edo, Shoji Jinemon, che, rimasto colpito da uno di
loro, lo definì geisha, letteralmente “persona delle arti”. Musicisti e
ballerini, suonavano la stessa musica delle donne e danzavano come
loro. Lo strumento caratteristico era lo shamisen a tre corde, simile al
banjio, e pare che il suo suono malinconico avesse un effetto
afrodisiaco. Verso la fine del 1600 alle geishe maschio, che si
specializzarono, venne lasciato il compito di esibirsi insieme alle
cortigiane più giovani: i musicisti e i ballerini conservarono il nome
di geisha, mentre i buffoni divennero taikomochi. Alcuni di loro
entrarono a corte di persone potenti.
Nel suo libro Geisha, storia di un mondo segreto, Lesley Downer
riporta un’interessante descrizione di Ejima Kiseki (1667-1736), uno
dei più importanti scrittori del mondo fluttuante, riguardante il disagio
che provava il taikomochi nella sua professione:
Noi buffoni siamo costretti a bere quando non abbiamo sete, dobbiamo lodare
le noiose canzoncine dei nostri clienti, farci insultare da vere teste di rapa,
sorridere a chi ci offende e raccontare in pubblico ciò che anche una donna
terrebbe per sé. No, non c’è nulla di più amaro dell’essere costretti a divertire
per vivere. Per cinque esibizioni ti danno un solo bu [120 euro in valuta
odierna] o al massimo due. In questo vasto mondo non esiste un paese dove
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piovano soldi?
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La prima geisha donna apparve a Edo verso il 1750, in un
quartiere del piacere non autorizzato chiamato Fukagawa, Fiume
profondo. Si chiamava Kikuya ed era una prostituta la quale, grazie al
suo talento di cantante e di suonatrice di shamisen, decise di
dedicarsi allo spettacolo. Proprio all’interno di Fukagawa, sul finire del
1600, fecero la loro comparsa giovani ragazze ballerine, le odoriko,
che significa “bambina danzante”, e probabilmente Kikuya apparteneva
a quella categoria di artiste. Molte di loro venivano sequestrate dalle
autorità e, benché continuassero a praticare le arti performative, erano
costrette a prostituirsi gratuitamente per tre anni dentro i quartieri
legali. Le odoriko incominciarono a farsi chiamare geishe, poiché la
maggior parte superava i vent’anni d’età e quindi erano troppo
vecchie per essere considerate bambine danzanti.
A Kyoto la prima geiko, figlia delle arti e termine usato ancora
oggi per indicare le geishe di Kyoto, apparve all’interno di Shimabara
verso la metà del 1700 ed era una suonatrice di tamburo. L’adozione
del nome geiko fu fondamentale, poiché con ciò le donne
sottolineavano l’abilità artistica delle loro esibizioni che non c’entrava
assolutamente nulla con la prostituzione.
Le geishe donne cominciarono ad avere successo e, a differenza
delle cortigiane, erano ragazze intelligenti che vivevano in quartieri
privi di recinzioni e, soprattutto, non andavano considerate prostitute.
Sul finire del 1700 le geishe di sesso maschile furono sorpassate
dalla controparte femminile, fino a che nel 1800 c’erano 143 femmine
e 45 maschi.
La nascita della geisha come professione, più conveniente alle
tasche dei clienti, comportò lentamente la caduta delle grandi
cortigiane tayu ed oiran. Si passò dalla sontuosità all’apprezzamento
dei semplici kimono e acconciature prive di spille di tartaruga, pettini,
nastri, che caratterizzavano il look delle geishe, in parte dovuto a una
legge che vietava loro di indossare kimono troppo vistosi. Nel 1779
un certo Shoroku, proprietario di uno dei bordelli dello Yoshiwara e
preoccupato per la fama sempre più crescente delle geishe, fondò il
primo kemban, l’ufficio del registro della loro attività. A quell’epoca
aveva soprattutto la funzione di controllare, in quanto le geishe che
intendevano lavorare dentro i quartieri del vizio dovevano sottoporsi
a precise limitazioni. Infatti, fra le regole imposte dal kemban, le
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Cit. in Lesley Downer, Geisha: storia di un mondo segreto, trad. it., Casale Monferrato (AL),
Piemme, 2002, p. 97.