8
d’esperienza, ovvero argomento di prova; deduzione, ovvero
tema di prova.
Il primo porta a distinguere la “fonte” dal “mezzo” di prova: se
l’una può essere molteplice nelle sue esplicitazioni concrete,
l’altro può articolarsi in un numero di fattispecie tassativamente
indicate dal legislatore (numerus clausus)4. Consideriamo, ad
esempio, il caso di un omicidio del quale si ha una fotografia,
oltre alla narrazione di Tizio, Caio e Sempronio che vi hanno
assistito. Diremo che le fonti di prova sono quattro (fotografia,
Tizio, Caio e Sempronio), ma i mezzi di prova solo due: il
documento e la testimonianza.5
Se già nello stadio della percezione parlare di certezza può
riuscire difficile, dato il carattere fortemente soggettivo e, quindi,
variabile di ogni “atto del percepire”, in quello della sussunzione
risulterebbe addirittura velleitario, per due motivi.
Innanzitutto per una ragione che potremmo definire “oggettiva”,
in quanto le massime d’esperienza altro non sono se non
l’acquisizione di situazioni materiali che derivano da determinate
premesse. A proposito della fotografia sappiamo, sulla base delle
conoscenze scientifiche del nostro tempo, che essa riproduce
fedelmente l’immagine di qualcosa o qualcuno al momento e nel
luogo in cui erano quando è stata scattata. Da ciò è deducibile
4
Aderendo al pensiero di Foschini, op. cit., pag. 375, Leone, op. cit., pagg.
48-49-50, parla espressamente di “tassatività”; Lessona - Il sistema della
prova legale nel vigente c.p.p., in Cass. Un., vol. V, pag. 417 - afferma che
nel processo penale tale tassatività non sussiste, ma “la fissazione dei mezzi
di prova è compito esclusivo del legislatore”. Contra, Cantarano, voce
“prova”, in Enciclopedia forense, 1960 pag. 1080, per il quale sussiste una
potenziale pluralità dei mezzi di prova, rispondente alla tutela di uno dei
capisaldi del processo penale: la libertà della prova. Si intende che la verità
processuale possa essere raggiunta con qualsiasi mezzo, salvo il caso in cui la
legge lo vieti espressamente ( si veda il divieto della testimonianza avente ad
oggetto voci correnti nel pubblico); Florian, Delle prove penali, 1961, pag.
132; Dosi, Sul principio del libero convincimento del giudice nel p.p., 1957,
pag. 35 e ss. Invece secondo Foschini, op. cit., pag. 374, tale contrasto
dottrinale nasce dalla confusione tra il concetto di “fonte” e quello di “mezzo”.
9
che sia veritiera la scena dell’omicidio che è stata fermata dalla
macchina.
Tuttavia, consci della perfettibilità di ogni tecnologia, le verità
acquisite da essa restano sempre relative nello spazio e nel
tempo.
A riprova di quanto appena detto, ricordiamo una massima
d’esperienza, tramandataci da Marsilio Ficino6, che oggi appare in
tutta la sua infondatezza, ma che era il risultato della conoscenza
medica dell’epoca: “Occisi hominis vulnus, etiam facente
cadavere, in eum qui vulneraverat, si modo ille communius
instet, vulnus ipsum inspiciens, sanguinem rursum eiiciat.”
E’ il judicium feretri7 per il quale quattro secoli fa si credeva che
in caso di omicidio si potesse riconoscere il colpevole se,
avvicinando il sospettato al cadavere della vittima, questa avesse
ripreso a sanguinare.
Il secondo motivo, dal punto di vista “soggettivo”, è che, data la
pluralità di tali massime, non esiste un criterio univoco di scelta,
tale per cui la percezione del fatto debba necessariamente
agganciarsi ad una, piuttosto che ad un’altra. E’ qui che
interviene il libero convincimento del giudice.
Dopo aver superato i due stadi del sillogismo si approda, questa
volta naturalmente, al tema di prova. Tuttavia è ovvio che
quanto dedotto da premesse probabili, ma non certe, non potrà
che essere probabile e non certo anch’esso. Del resto, la
5
Sempre Foschini, op. cit., pag 375.
6
Citato in Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, vol. II, 1953, pag.
48. Ripreso da Cordero, Procedura penale, 1979, pag. 687.
7
Del “giudizio della bara” parla anche Ippolito Marsili, Averolda: practica
causarum criminalium, 1526- 1529, De quaest., ad Dig., 48, 18, 1, 5, n. 181
di cui si riporta il testo: “Domine gubernator, si vultis scire veritatem, huius
homicidii, faciatis coram vobis portare cadaver illius mortui, postea faciatis
vocare illos qui sunt suspecti de illo homicidio, et veniat unus post alium ubi
est illud cadaver, tunc cum supervenerit verus homicida, tunc vulnera illius
cadaveris inceperunt effluere et emittere sanguinem”. Gli stessi versi sono
riportati da Cordero, op. cit, pag. 687.
10
parentela etimologica tra “prova” e “probabile” avrebbe dovuto
risultare a tal fine già esaustiva.
Lo stesso si dica, in termini di risultato, se, accanto alle massime
d’esperienza o in sostituzione ad esse, quasi operando una crasi
tra percezione e deduzione, si pongano le praesumptiones le
quali, semplici o legali che siano, sono comunque un artificio per
rendere più agevole il percorso del sillogismo probatorio.
Il compasso di Weber8 può essere utilizzato come metafora di
quanto detto finora: è uno strumento che serve a misurare la
sensibilità dell’epidermide. Se divarichiamo le punte di questo
compasso appoggiandole sulla pelle, avvertiremo due punture;
man mano che si restringerà l’angolo, queste ci sembreranno
sempre più vicine fino a quando ne sentiremo solo una, pur
essendocene due. E’ questo il momento in cui, riducendosi il
diametro del cerchio, l’alterità di due tesi contrapposte va
scemando fino a far accreditare l’una a scapito dell’altra. Si parla
di “punto di convincimento” ed è questo l’obiettivo giuridico
verso il quale tende il processo.
La suddetta premessa risulta opportuna al fine che -
considerando la finitezza della prova9 come presupposto
imprescindibile – ne consegua la consapevolezza del suo
potenziamento nel caso della correità, per la seconda delle due
difficoltà di cui sopra.
8
Foschini, op. cit., pag. 356 riprende Saraceno, La decisione del fatto
incerto nel PP., 1940.
9
Nel senso della relatività dell’efficacia probatoria nel processo penale, si veda
Viviani, La chiamata di correo nella giurisprudenza, 1991, pag. 2. L’autore
trae conferma del principio appena enunciato dall’aforisma che recita
“judicatum pro veritate habentur” (il grassetto è nostro).
11
Capitolo I “Incompatibilità” a testimoniare del
coimputato
Par.1 Art. 348, 3°comma c.p.p.: la deroga al munus10
publicum di testimoniare.
“Non possono essere assunti, a pena di nullità, come
testimoni gli imputati dello stesso reato o di un reato
connesso, anche se sono stati prosciolti o condannati,
salvo che il proscioglimento sia stato pronunciato per non
aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste”.
Il disposto del 3° comma art. 348 c.p.p. apre la strada all’analisi
della seconda delle due difficoltà, di cui nell’Introduzione, quella
che abbiamo definito “specifica” della chiamata in correità
ovverossia l’esasperata problematicità inerente al
raggiungimento della verità, data la preponderante presenza
degli interessi personali del chiamante.
E’ evidente che il contenuto del citato 3° comma enuncia un
principio derogatorio rispetto alla regola enunciata nel
comma 2° dello stesso articolo, dove si recita che “ogni persona
ha la capacità di testimoniare, salvo al giudice di valutarne la
credibilità”.
Tralasciando l’estremismo della tesi per la quale il prestare
testimonianza conferirebbe addirittura al dichiarante la qualità di
10
L’espressione è stata usata, probabilmente per la prima volta – insieme a
quella che definiva la testimonianza come ufficium publicum vel quasi
publicum - da Farinacio, in Tractatus de testibus, 1606, pag.562 e ss. Della
stessa opinione Zuffo, De criminalis processus legitimatione, 1665, pag. 104,
n. 11.
12
pubblico ufficiale11, preferendo moderare il tono, concordiamo
con chi ritiene che prestare testimonianza sia un diritto–dovere
per tutti i cittadini, ex artt. 7 e 242 c.p. per i quali,
rispettivamente, ogni persona ha il potere di denuncia e, in
determinati casi, ogni persona ha il potere di arrestare un
giudicando12.
La ratio del principio per cui nessuno è esentato dal deporre,
salvi i casi che andremo a verificare, riposa nella constatazione
dell’insostituibilità del testimone, essendo evidente la sua unicità
e, dunque, preziosità al fine del conseguimento dell’obiettivo
processuale. Il legislatore, pertanto, ha voluto estendere tale
mezzo di prova ad ogni fattispecie concreta capace di accoglierlo,
lasciando al giudice, tramite l’istituto del libero convincimento, la
chance di dare più o meno credito al teste. Del resto, accordare a
priori a quest’ultimo il beneficio della bona fides13 potrebbe
valere soltanto in una piccola comunità dove tutti conoscono
tutti; ne deriva che precludere al giudice il potere discrezionale
dell’attribuzione di valore alla deposizione, significherebbe per lui
“rinunciare a ragionare”.
Connessa strettamente ai temi che veniamo trattando è l’analisi
del concetto di capacità per l’approfondimento del quale sembra
11
Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, vol. III, VI ed.,
1970, pag. 303, (non concordando), riporta la terminologia usata da
Farinacio e Zuffo. La qualità di pubblico ufficiale sarebbe anche desumibile,
secondo l’autore, dalla Relazione min. sul progetto del cod. pen., II, pag. 114
e dalla Rel. al Re sul cod. pen., n. 142.
12
Carnelutti, Principi del processo penale, 1960, pag. 193, indica la
collaborazione tra i cittadini come il mezzo per conseguire il “fine di civiltà”.
Quindi il testimone non è soltanto oggetto di cui il p.m. o il giudice possono
servirsi (come se si trattasse di un documento), è anche soggetto ed è alla
sua libertà di azione che il legislatore affida la responsabilità di collaborare con
la giustizia.
13
Dosi, Indagini sulla capacità del testimone nel processo penale, in Riv. it. di
proc. pen., 1969, pag. 1060 e ss. L’espressione “rinuncia a ragionare” è
richiamata dallo stesso autore, op. cit., ma appartiene a Cappelletti, La
testimonianza della parte nel sistema dell’oralità, II, 1962, pag. 106. Del
13
opportuno distinguere14 il punto di vista intrinseco da quello
estrinseco: per il primo, possiamo riconoscere una capacità
giuridica e una capacità di agire, ma il senso da attribuire alle
due categorie non è univoco.
Se volessimo aderire alla teoria tradizionale dovremmo
interpretare entrambe alla luce di un ragionamento aristotelico in
base al quale la capacità giuridica è capacità in potenza di
diventare titolare di diritti od obblighi, mentre la capacità di agire
è capacità in atto, ovvero il concreto esplicitarsi di situazioni
giuridiche soggettive.
Non si può azzardare l’ipotesi che la prima sia autonoma
rispetto alla seconda15, spiegando con ciò il fatto che se la regola
ex art. 348, 2° comma inerisce ad una generale capacità
giuridica, la deroga ex art. 348, 3° comma inerirebbe ad una
“deficiente” (nel senso etimologico di deficere) capacità di agire
(dove l’agere indichi il prestare testimonianza).
Sembra opportuno, pertanto, concludere che se esiste la
capacità giur. esiste quella di agire, essendo le due categorie
concettuali strettamente interdipendenti. Una teoria più recente16
ritiene, invece, che le due fattispecie de qua non siano
applicabili, in quanto tali, a tutti i rami dell’ordinamento giuridico,
ma assumano sfaccettature diverse a seconda dell’ambito di
volta in volta preso in considerazione.
Quanto al punto di vista estrinseco17, invece, sembra opportuno
scindere il concetto di capacità da quelli, rispettivamente, di
resto, limitare il giudice risulta ancora più problematico in un sistema in cui
vige il principio del libero convincimento del medesimo.
14
Cavallari, La capacità dell’imputato, 1968, pag 1 e ss.
15
E’ Perchinunno, Limiti soggettivi della testimonianza nel processo penale,
1972, pag. 27 e ss., che nega la possibilità di una indipendenza tra la capacità
giur. e la capacità di agire.
16
Dell’Andro, voce “capacità”, in Enc. dir., vol. VI, 1960, pag. 113.
17
Falzea, voce “capacità”, in Enc. Dir. vol. VI, 1960, pag. 43-47.
14
legittimazione e compatibilità. Il rapporto tra le prime due può
spiegarsi nei termini di uno di genus ad speciem, per cui la
legittimazione specificherebbe i contenuti della capacità nel
tessuto giuridico. Un orientamento, rimasto isolato18, ha
giustificato in questo modo la deroga del 3° comma, parlando di
un difetto di legitimatio ad causam – in genere riferibile alle parti
– che, nel caso specifico, colpirebbe il testimone: ne deriverebbe
che la violazione al disposto del 3° comma sarebbe sanzionata
con l’inesistenza giuridica dell’atto.
Invece, la compatibilità – di cui è difficile scorgere la linea di
demarcazione che la separa dalla legittimazione – è la figura
giuridica che, rispetto alla capacità, risulta più idonea a
rimuovere gli ostacoli che impediscono il migliore esercizio di una
funzione pubblica o privata.
A proposito, si è parlato di una capacità in astratto e di una
capacità in concreto19: quanto alla prima, sono ormai lontani i
tempi in cui il testimone doveva essere integer, idoneus,
legitimus, omni exceptione maior, essendo inequivocabile il
carattere generale della capacità a testimoniare.
Per completezza va aggiunto che la dottrina ha anche parlato
espressamente di incapacità a testimoniare, ma solo per i
soggetti immuni20 quali il Re ed il Papa, dato il carattere della
“sacertà e inviolabilità” che contraddistingueva entrambe le
figure, prima dell’entrata in vigore della Costituzione21.
18
Leone, Trattato di dir. processuale cit, vol. II, pag. 79
19
Leone, op. cit., vol. II, pag.78 e ss.; Perchinunno, op. cit., pag. 9.
20
Perchinunno, op. cit., pag. 37 e ss, non ritiene che si possa parlare di
incapacità a testimoniare per i soggetti immuni. Contra, Manzini, op. cit.,
pag. 310, il quale riconosce tale “eccezionale” incapacità a testimoniare, ma al
solo Pontefice in seguito ai Patti Lateranensi del 1929. Lo stesso autore, pag.
304, ricorda il Diritto romano in cui l’incapacità de qua trovava numerose
cause: si pensi al caso delle meretrici, dei mendicanti ed in generale dei c.d.
infames.
21
Perchinunno, op. cit., pag. 37 e ss, scrive che successivamente
all’introduzione della Carta cost. la figura del Capo dello Stato, subisce la
15
Quanto alla capacità in concreto, detta anche compatibilità, può
essere annoverata, insieme all’astensione, tra le limitazioni alla
regola di cui al 2° comma.
“Zoommando” sull’incompatibilità, la individuiamo in tre casi
topici: nel rapporto tra più funzioni processuali; in quello tra
deposizione e oggetto della prova22; in quello tra vari soggetti
del processo.
Entrando nello specifico del primo dei casi elencati, distinguiamo
un’incompatibilità derivante dall’esercizio di una funzione
giudiziaria23, rispetto a quella che deriva dall’essere parte24 del
processo: è in quest’ultima ottica25 che inquadriamo la
deroga contenuta nel 3° comma art. 348 c.p.p.
perdita di tale carattere, mentre un altro se ne introduce: quello, cioè,
dell’incompatibilità di tale ufficio con qualsiasi altra carica (art. 84 cost.).
Occorre, però, ricordare che quando si parla di incompatibilità a testimoniare
(non bisogna confondere l’incompatibilità a prestare testimonianza ex art.
348, 3° comma, con quella ad essere testimoni ad atti processuali, di cui
all’art. 159 c.p.p; quanto a tale distinguo è Dosi, op. cit. pagg. 1059 e 1060,
che denomina la prima “testimonianza a struttura complessa” e la seconda
“test. a struttura semplice”) si intende la “precedente o concomitante
assunzione di un’altra posizione nel medesimo processo”. Sic, non può
giustificarsi l’eventualità di un’incapacità a testimoniare del Capo dello Stato
con la norma costituzionale suddetta. Uguale a se stessa, invece, la posizione
del Sommo Pontefice che conserva ancora la sacertà e l’inviolabilità di cui
sopra. La ragione per cui si è ritenuto che, prima del 1958, entrambi i soggetti
non fossero capaci di testimoniare e che, dopo questa data, solo il Papa non lo
fosse, trova il suo fondamento nel silenzio, riguardo ad essi, circa l’assunzione
testimoniale a domicilio. Non tutta la dottrina concorda.
22
Perchinunno, op. cit., pag. 48, ritiene non accettabile, tra le cause di
incompatibilità a testimoniare, quella riferita all’inconciliabilità del rapporto tra
la deposizione e l’oggetto della prova (es.: i pub. uff. che non devono deporre
sui segreti politici e militari dello Stato ex art. 352, 2° comma c.p.p.)
23
Perchinunno, op. cit., da pag. 56 a pag.79, distingue l’incompatibilità a
deporre che grava sul giudice e il cancelliere, sul p.m. e il segretario, sul
perito e l’interprete, sul difensore e il consulente tecnico.
24
Perchinunno, op. cit., da pag. 94 a pag.105, quanto all’incompatibilità
gravante sulle parti processuali, oltre a quella dei coimputati, distingue la
posizione dei condannati da quella del responsabile civile, del civilmente
obbligato e, infine, della parte civile.
25
Manzini, op. cit., pag. 314, riprende Guglielmi, Pratica criminale secondo
lo stile del Regno di Toscana, 1763, pag. 4 il quale afferma l’inesistenza
dell’incompatibilità a testimoniare - poi disciplinata dal 3° comma art. 348
c.p.p. 1930 – per i coimputati nel Regno di Toscana.
16
E’ chiaro, però, che quanto detto in merito alla capacità non può
che essere riferito a quella legale che, nel caso della
testimonianza, appartiene solo alle persone fisiche e che non va
confusa con la capacità naturale: quest’ultima consiste
nell’idoneità ex natura a “imprimere, conservare, esprimere” un
evento26. Esemplari sono i casi dell’infante e dell’infermo di
mente i quali, versando in uno stato di incapacità atecnica,
troverebbero adeguata collocazione concettuale nella regola ex
art. 348, 2° comma: sta al giudice, però, stimare in termini di
valore la loro credibilità.
Passando ad occuparci del perché di tale deroga non possiamo
che partire dall’antico brocardo nemo tenetur se detegere (del
quale approfondiremo la trattazione a proposito
dell’interrogatorio dell’imputato), per il quale nessuno è tenuto
ad autoaccusarsi27. La portata di tale principio, che trova nel
nostro ordinamento una tutela altrove28 smarrita, può essere
dimostrata considerando che esso è risultato capace di
imprimere un freno persino al libero convincimento del
giudice: il legislatore, infatti, ha deciso che in alcuni casi si
dovesse escludere tout court la possibilità di testimoniare,
piuttosto che affidare al giudice il potere di discriminare.
Non tener conto del suddetto brocardo significherebbe, invece,
fare un passo indietro29, tanto più che una simile eventualità non
26
Foschini, Sistema del dir. cit., vol. I, pag. 434, ritiene che la capacità di
impressione è strettamente collegata al grado di sensibilità di ciascuno, la
conservazione dell’evento dipende dalla memoria, l’espressione dalle
condizioni psicologiche nel momento della dichiarazione. Aggiungeremmo,
riguardo alla capacità di esprimere un evento, che molto dipende dal livello
culturale del dichiarante.
27Dell’origine nel nemo tenetur se detegere, Bargis, Incompatibilità a
testimoniare e connessione dei reati, 1980, pag 13 e ss.
28Per un’analisi del tema nell’ordinamento anglo- statunitense si rimanda al
6° capitolo.
29Esattamente di “regresso giuridico” parla Massari, Conviene considerare
l’imputato come un testimone in causa propria?, Annali di dir. e proc. pen.
1933, pag.850.
17
potrebbe neanche giustificarsi con l’esigenza di approdare alla
“verità”, innanzitutto perchè il giuramento della verità non
necessariamente costringe il coimputato a dirla30 e poi perchè
già si sono espresse le forti riserve sull’esistenza di una verità
assoluta. Anzi! Si arriverebbe al paradosso per cui, a questa
imposizione, seguirebbe la “promozione” a testimonianza di
dichiarazioni che nunc non sono tali e, quindi, si imporrebbe un
ulteriore limite al libero convincimento del giudice che non
potrebbe sottovalutarne la valenza, a tutti gli effetti, di mezzo di
prova: il raggiungimento dell’agognata verità sarebbe, quindi,
ancora più compromesso.
Già la dottrina contingente al c.p.p. del 1913 non metteva in
discussione che le dichiarazioni del coimputato potessero
rientrare nella deroga in questione; solo, nel silenzio del
legislatore, si distingueva tra coimputato in senso proprio - per il
quale l’antico brocardo dispiegava tutta la sua efficacia - e
coimputato in senso improprio, per il quale, invece, l’applicazione
dello stesso veniva decisamente esclusa31.
30
Massari, op. cit., pag. 849, si chiede se il valore dell’eventuale giuramento
de quo sia quello di costituire una prova legale, come tale vincolante per il
giudice (giuramento decisorio) oppure una prova di libera valutazione (giur.
purgatorio).
31
Del Giudice, La testimonianza del coimputato, Giustizia penale 1930, III,
c. 393, individuava, stante il c.p.p. 1913, il solo art. che disciplinava la
materia in esame: il 406 capoverso. Qui si legittimava l’eventualità di una
lettura in dibattimento di dichiarazioni rese dal coimputato in sede di
interrogatorio, sempre che vi fossero tre condizioni:
1. che egli fosse stato prosciolto;
2. che fosse stato inserito il suo nominativo nelle liste testimoniali;
3. che ne fosse stata ordinata la citazione.
L’autore ci tramanda il pensiero dottrinale del suo tempo; nello specifico:
Stoppato, Commento al c.p.p., VI, pag. 508, ritiene che in nessun caso il
coimputato possa prestare testimonianza. Ambiguo, invece, De
Notaristefani il quale, op. cit., n. 582, pag. 614, afferma che nel caso del
coimputato condannato, non potendosi prestare testimonianza, non sussiste il
limite indicato nell’art. 406. Di conseguenza, le dichiarazioni rese da questi
possono essere lette senza la necessità delle condizioni processuali richieste
(nominativo incluso nelle liste testimoniali e citazione). Lo stesso autore, però,
op. cit., n. 455, pag. 478, contraddicendosi, ammette la possibilità di una
testimonianza del coimputato che sia stato prosciolto o condannato.
18
Tuttavia, non mancavano le influenze tedesche che premevano
per eliminare il brocardo anche nei confronti del primo,
scindendo, però, nella sua dichiarazione la parte riferibile a se
medesimo (e per la quale esso rimaneva valido) da quella
riferibile ad una terza persona, per la quale sarebbe stato,
invece, vigente l’obbligo della verità.
Se già questa è un’ipotesi estrema, che dire allora di quella
secondo la quale l’obbligo dovrebbe riguardare anche la parte
della dichiarazione
inerente alla persona del dichiarante32? Chi ha sostenuto questa
tesi ha utilizzato metafore evangeliche33 che, ci sia concesso
dire, poco attengono a quanto di più umano – non vorremmo
sembrare blasfemi dicendo bestiale - vi possa essere: l’istinto di
sopravvivenza che porta a tacere o addirittura a mentire pur di
salvarsi. Per costoro non sarebbe corretto parlare di obbligo della
verità tout court: si tratterebbe di obbligo come alternativa alla
soggezione. Necessità, cioè, non schiaccerebbe Libertà per cui,
se vacillante tra la verità e la menzogna, il coimputato
dichiarante – stante l’obbligo – avrebbe una ragione in più per
scegliere la prima. Mah!…
In realtà, se anche si potesse derubricare questo concetto di
obbligo fino a farlo diventare facoltà, non si potrebbero ignorarne
le conseguenze e ci si riferisce al fatto che, in tal caso,
l’eventuale rifiuto di respondere secundum veritatem non
potrebbe lasciare indifferente il giudice che - per quanto non
possa farne menzione nella motivazione - nulla esclude che
possa mettere tale circostanza a base del proprio convincimento.
32
Carnelutti, op. cit., pag. 185 e ss.
33
Carnelutti, op. cit., pag. 185 e ss.
19
Del resto, se condividiamo la natura di scienza empirica34 della
testimonianza stessa, ovvia è la conseguenza che deve trattarsi
di dichiarazione di verità (in senso relativo) e non di ragione
(quale sarebbe se considerassimo la testimonianza medesima in
termini di scienza teoretica ovvero di conoscenza…)
Sic, se essa è dichiarazione di verità, un interrogativo legittimo
continua a porsi: quale credito avrebbe se fosse minata la
veridicità stessa dell’atto?
34
Dosi, La prova testimoniale, pag. 46 e ss.
20
Par.2 La sanzione alla violazione della deroga
Dobbiamo ora soddisfare l’esigenza di dare un pondus alla
dichiarazione della persona coimputata che, nonostante le
polemiche, non può a tutt’oggi ritenersi mezzo di prova
testimoniale.
Avendo già appoggiato l’orientamento dottrinale per il quale nel
3° comma dell’art. 348 c.p.p. verrebbe ad integrarsi una tipica
ipotesi di incompatibilità, miriamo ora ad un nuovo bersaglio
della nostra trattazione: l’inciso, contenuto nello stesso articolo,
“a pena di nullità”.
Escludendo a priori che possa trattarsi di nullità iuris et de iure,
altrimenti detta assoluta, se volessimo “dare fiducia” al
legislatore - ritenendo che egli abbia detto esattamente quanto
aveva intenzione di dire – potremmo concludere qui l’argomento
in esame, liquidandolo come fattispecie di nullità. Tuttavia, ciò
significherebbe ignorare totalmente le polemiche raccoltesi
intorno a questo tipo di interpretazione.
Innanzitutto, ammettendo per un attimo che sia pacifico il senso
da dare alla sanzione per la violazione dell’art. 348, 3° comma –
stante l’esplicito richiamo ad una sola delle categorie di invalidità
e non ad altre – problemi comunque sorgerebbero dagli artt.
45035 e 56336 c.p.p.: il primo richiama le norme applicabili
all’esame dei testimoni; il secondo, invece, è rubricato come
35
L’art. 450 c.p.p., al primo comma, recita: “Si osservano per l’esame dei
testimoni le disposizioni degli art. 348, 349, 350, 351 e 352”.
36
L’art. 563 c.p.p. dispone: “Le persone condannate per alcuno dei reati
indicati nel n. 4 dell’art. 554 non possono essere assunte come testimoni,
periti o interpreti dalla corte di Cassazione, dal suo consigliere delegato o dal
giudice di rinvio, salvo che abbiano pienamente confessato il reato
commesso”.
21
“incapacità di fungere da testimoni, periti, o interpreti” per i
condannati a seguito di uno dei reati previsti nel n. 4 art. 55437.
Chiarito, dunque, che si tratta di altre due ipotesi di
incompatibilità, bisogna ora assodare quale sia la sanzione
implicitamente comminata dalla legge a fronte di una violazione
dei suddetti articoli. A proposito, una parte preponderante della
dottrina ha ritenuto che non possa parlarsi di nullità, ma debba
essere presa in considerazione la categoria concettuale
dell’inammissibilità38: lo ha fatto avallando una sentenza39
della corte di Cassazione datata 20/10/1963, nella quale si
afferma che, nei casi di silenzio del legislatore, la sanzione
comminabile dovrebbe essere quella dell’inammissibilità,
dovendo escludere quella della nullità relativa, quella
dell’inesistenza, nonché quella dell’abnormità. La prima, per la
tassatività di cui sopra, che deriverebbe dall’art. 184 c.p.p.; la
seconda, perché inerirebbe alla mancanza di presupposti
processuali idonei a garantire l’esistenza stessa dell’atto; la
terza, perché presupporrebbe un’incompatibilità con
l’ordinamento giuridico tale da farne scaturire l’illegalità. La
soluzione più lineare, in realtà, parrebbe essere quella di
estendere analogicamente la nullità di cui all’art. 348, 3° comma,
ai due casi in questione. Obiettare, invece, che le nullità debbano
essere tassativamente previste dalla legge significherebbe
ignorare il concetto dell’equiparazione di trattamento40 che
37
Il motivo di revisione previsto dal n. 4 dell’art. 554 è la dimostrazione “che
la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio, o
di un altro fatto preveduto dalla legge come reato”.
38
Bonetto, L’introduzione della prova testimoniale nella fase degli atti
predibattimentali, in Riv. it. dir. e proc. pen. 1962, pag. 61. L’autore definisce
“pleonastica” la comminatoria di nullità dell’art. 348, 3° comma. Aderendo al
pensiero di Bonetto, Floridia, Brevi considerazioni sul divieto di
apprezzamenti personali da parte dei testimoni, Riv. it. dir. e proc. pen. 1964,
pag. 962 e ss.
39
Foro it. 1964, c. 140.
40
Conso, Il concetto e la specie di invalidità, 1955, pag. 83.
22
risponde all’intenzione del legislatore di applicare la medesima
disciplina a casi che possono essere definiti analoghi. Tale
principio risulta anche più incisivo dell’obiezione per la quale
nulla vieterebbe al legislatore di graduare il vizio di invalidità in
modo più o meno marcato a seconda delle situazioni interne ad
un’unica fattispecie (per l’incompatibilità41, ciò significa
ammettere la possibilità di una diversificazione sanzionatoria del
348 rispetto al 450, nonché al 563 c.p.p.). Così, avendo
catalogato le fattispecie contenute negli artt. 450 e 563 in
termini di incompatibilità, la sanzione de qua dovrebbe essere la
stessa utilizzata per il 348, 3° comma.
Fin qui, nulla quaestio.
La quaestio nasce, invece, se si pensa che neanche il 348, 3°
comma ha raccolto pareri unanimi in merito all’inciso di cui
sopra: si è ritenuto che anche per esso potesse parlarsi di
inammissibilità e non di nullità42. A questo punto conviene
considerare quali sono i contesti temporali cui far riferimento
nell’analisi di tali categorie concettuali. Se il concetto di
“ammissione”, infatti, rimanda al momento della c.d.
introduzione di una prova che sia stata già assunta, la nullità
attiene proprio alla “non assumibilità” della prova e questo – a
rigore di logica – non porrebbe neanche il problema della sua
introduzione. Considerando, alla luce di tali osservazioni, la
lettera del 3° comma de quo, e trovandovi espressamente un
divieto di assunzione della testimonianza delle persone
coimputate, non può che concludersi che la sanzione della nullità
Dello stesso parere Bargis, Incompatibilità a test. cit., pag. 233;
Perchinunno, op. cit., pag. 137 e ss.; Galli, L’inammissibilità dell’atto
processuale penale, 1968, pag. 165.
41
Naturalmente ci riferiamo all’incompatibilità a testimoniare.
42
Bonetto, op. cit., pag. 61; Floridia , op. cit., pagg. 962 e 963.