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essere quando si agisce o quando si stimano le conseguenze delle proprie azioni, influenza il
comportamento delle persone. Molto spesso, alla base di comportamenti insicuri vi sono
componenti come l’abitudine, un’eccessiva sicurezza in se stessi, la distrazione e la fretta, tutti
aspetti che denotano un’errata percezione del rischio. Il capitolo, quindi, ha il fine di segnare i
limiti del concetto di rischio, esplicitare le strategie di analisi e di fronteggiamento delle
persone e le influenze socioculturali, soprattutto in ambito professionale.
L’ultimo capitolo è incentrato sul progetto di collaborazione che abbiamo avviato con il
Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione di una delle sedi italiane della
multinazionale Sealed Air, quella di Passirana; in questa parte si espone l’intero processo di
ricerca e di intervento avviato all’interno dell’azienda, soffermandosi sui vari passi effettuati
durante tale percorso, sui risultati raggiunti e su riflessioni e considerazioni personali circa tale
esperienza.
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CAPITOLO 1
SICUREZZA E LAVORO
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1-Premessa
Il lavoro è l’attività fondante la società, in quanto il motore principale dell’integrazione e della
coesione sociale nonché forte sostegno all’identità e alla realizzazione personale. Nonostante
l’importanza miliare del lavoro nella storia umana, occorre giungere alla fine del XX secolo
per rinvenire in Italia un decreto legislativo che si riferisca agli infortuni sul lavoro.
E ha storia ancora più breve il tentativo di attuare una legislatura che si occupi del problema
della prevenzione e della sicurezza nei luoghi di lavoro, senza seguire una mera logica di
risarcimento dei danni subiti: un primo impegno, in tal senso, nella legislatura europea, e in
particolare italiana, avviene solo dagli ultimi cinquant’anni del secolo scorso.
Sviluppare una legislazione per la sicurezza è un dovere dello Stato per tutelare due tipi
d’interessi: primariamente l’interesse del lavoratore che ha ottenuto, nel corso dell’ultimo
secolo, il riconoscimento di numerosi diritti tra cui il diritto alla “Tutela della salute e
dell’integrità fisica”. L’art. 9 dello “Statuto dei lavoratori”, esplicita che: “I lavoratori, mediante
loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l'applicazione delle norme per la prevenzione
degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l'elaborazione e
l'attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica.”. Tale
tutela della salute e dell’integrità fisica diventa, in seguito all’attuazione del D. Lgs. 626,
attenzione al “benessere fisico, mentale e sociale” nei posti di lavoro. Si apre così, per la prima
volta, un ampio interesse ad aspetti della salute intesa non come strettamente fisica, ma come
benessere e qualità della vita, ossia ad aspetti ergonomici e di rischio psico-sociale prima
ignorati.
La legislazione in campo di sicurezza del resto non deve attuarsi solo per la difesa dei diritti
dei lavoratori, ma anche per le organizzazioni in cui essi lavorano. Ciò non vuol dire tutelare
semplicemente gli utili delle imprese. Queste ultime, infatti, sono oramai considerate
nell’ottica di “Corporate Social responsability”, come chiede il libro Verde dell’Unione
Europea, ossia come attori socialmente responsabili, che, in quanto tali, possiedono una
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cittadinanza nella comunità in cui operano, svolgendo un ruolo attivo nel migliorarne la
qualità della vita.
Quindi, esprimere la volontà di creare una legislatura della sicurezza per tutelare le imprese
significa voler salvaguardare gli interessi dell’intera comunità.
I costi a livello di vite umane e di investimenti economici causati dagli infortuni sul lavoro e
dalle malattie professionali sono a dir poco ingenti o, meglio dire, impressionanti.
Secondo i dati riportati dall’ILO ( Ufficio internazionale del lavoro), ogni anno 2,2 milioni di
persone nel mondo muoiono per incidenti sul lavoro; 270 milioni di lavoratori sono vittime di
incidenti e 160 milioni di malattie professionali.
I dati dei rapporti annuali INAIL per l’Italia non sono di molto confortanti: il numero
d’infortuni sul lavoro supera i 900.000 di cui quasi 1800 mortali.
A livello economico, gli incidenti lavorativi comportano costi di assistenza alla vittima, cure
mediche, pensione d’invalidità e sospensione del lavoro pari al 4% del PIL mondiale e al 3,2%
di quello nazionale.
Sono cifre smisurate, che non possono non esigere un provvedimento legislativo e una nuova
cultura che introducano un’inversione di tendenza.
E’ questo lo scopo dei provvedimenti degli ultimi dodici anni da parte della legislatura italiana:
indurre in questo campo un cambiamento non formale, né tecnico, ma culturale. È necessario
sviluppare una reale cultura della sicurezza, che comporti la consapevolezza da parte delle
imprese e dei singoli lavoratori dell’importanza economica e sociale dell’adeguamento alle
norme, che riduca la propensione a considerare tale adeguamento da parte delle imprese come
un puro costo legislativo, e da parte dei lavoratori come un obbligo formale, favorendo
l’interpretazione della sicurezza come un investimento nel futuro della propria azienda e della
propria vita.
Trattandosi di un cambiamento culturale, esso non si è risolto nei pochi anni dall’emanazione
della 626, la legge che esplicita tale intenzione, ma è ancora in corso e necessiterà per
realizzarsi di un’azione non solo legislativa ma multidisciplinare e che dovrà coinvolgere tutti
coloro che partecipano al mondo delle imprese.
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1.1. La legislazione in materia
La sicurezza nei luoghi di lavoro è stata, negli ultimi centodieci anni, oggetto d’interesse
altalenante, ma ad ogni modo presente nella legislazione italiana. I primi provvedimenti al
riguardo risalgono a tre decenni dopo l’unità d’Italia con il Regio Decreto del 1898 che
introduce l’obbligo dell’assicurazione contro gli infortuni per alcune categorie di lavoratori
dell’industria.
L’emanazione di questa legge, che assicurava un risarcimento alle vittime d’infortunio,
rappresenta il primo passo di un lungo cammino che porterà al riconoscimento del diritto dei
lavoratori di operare in sicurezza sia fisica che psicosociale.
Si tratta, però, solo dell’incipit di un percorso che durerà oltre cent’anni e che vede proprio nel
gennaio 2007 il raggiungimento dell’ultima tappa fondamentale: la presentazione della legge
“Delega al Governo per l’emanazione di un testo unico per il riassetto normativo e la riforma
della salute e sicurezza sul lavoro”.
Composito è stato il susseguirsi a livello legislativo di decreti riguardo al tema della sicurezza,
ma un significativo punto di svolta è rappresentato dall’emanazione della legge 626/94.
Infatti essa apporta una vera rivoluzione copernicana nell’ambito del lavoro, ponendo l’uomo
e non la macchina al centro della nuova organizzazione della sicurezza aziendale: non più
metodi di prevenzione tecnica stabiliti dal legislatore, ma un sistema di sicurezza globale che
prevede un coinvolgimento attivo di tutte le figure operanti in azienda, soprattutto i
lavoratori.
Ovviamente la svolta della 626 non sorge ex novo nella legislazione italiana, ma è stata
anticipata da importanti decreti, come ad esempio il D. Lgs. n. 277/ 91, che fornisce misure
preventive per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori esposti a rischi derivanti da agenti
chimici, fisici e biologici e che sembra un cambiamento decisivo nel passaggio da una logica di
risarcimento e di conoscenza dei danni ad una di prevenzione del rischio.
Inoltre, la 626 è sì un punto di svolta, ma non rappresenta certo un traguardo per la
legislazione italiana, possedendo ovviamente dei limiti che, dalla sua emanazione, sono stati
via via individuati e fatti oggetto di revisione.
E’ interessante, dunque, fornire una panoramica che, partendo dall’illustrazione dei decreti
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prodromici al 626/94 e della posizione fondante dell’Unione Europea, conduca a una lettura
critica dello stesso decreto 626 e delle sue modifiche, e allo sfociare ormai prossimo nel Testo
unico per la sicurezza.
1.1.1. Gli antecedenti legislativi sulla sicurezza sul lavoro
I primi interessi dello Stato italiano riguardo la sicurezza nei luoghi di lavoro, risalenti alla fine
del 1800, sono una conseguenza del processo di meccanizzazione dell’industria e dell’utilizzo
di sostanze tossiche coevi che, producendo un aumento consistente degli infortuni sul lavoro
e delle malattie professionali, hanno portato il tema alla ribalta dell’opinione pubblica.
Il decreto regio del 1898 e quelli che lo seguono, negli anni successivi, sanciscono l’obbligo di
un’assicurazione contro gli infortuni per i lavoratori di alcuni settori dell’industria in modo che
sia loro garantito un risarcimento in caso d’infortunio.
Si tratta quindi di un intervento legislativo in termini risarcitori e non di prevenzione; una
minima svolta in tal senso perviene negli anni ‘30 e ’40 con l’inserimento, nel codice penale
prima e civile poi, di alcuni articoli che tutelino i lavoratori e prevedano delle sanzioni per chi
non rispetti le normative in campo di sicurezza.
Infatti, l’art. 437 e l’art. 451, inseriti nel 1930 nel Codice penale, stabiliscono una pena dai sei
mesi ai dieci anni per chi non rispetti l’applicazione di sistemi di sicurezza atti a prevenire
disastri o infortuni sul lavoro.
E ancora: l’art. 2087/42 del Codice civile ribadisce l’obbligo del datore di lavoro di adottare
“le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a
tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.”; l’art. 2110, inoltre,
prevede l’obbligo per l’imprenditore di corrispondere la retribuzione per il periodo di malattia
o infortunio del lavoratore.
Nel 1947, l’avvento della Costituzione della Repubblica italiana arricchisce di maggior
significato le norme suddette, in quanto la salute e l’integrità psicofisica dell’individuo
diventano non solo obbligo del datore di lavoro, ma anche interesse fondamentale della
Repubblica. Ad esempio l’art. 41 prevede che l'iniziativa economica privata non possa
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svolgersi “in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla
libertà, alla dignità umana.”.
Alcuni passi decisivi verso una concezione moderna della legislazione per la sicurezza sul
lavoro si hanno a partire dal secondo dopoguerra. Nel ventennio che va dalla metà degli anni
‘50 alla metà degli anni ’70, il boom economico si riflette in una maggiore necessità di leggi
che regolamentino il lavoro prevedendone i rischi. S’inizia a parlare di prevenzione, anche se
in una prospettiva ben diversa da quella attuale. E’ una prevenzione rigida, meccanica, che ben
rispecchia l’organizzazione fordista del lavoro, ne ignora la dimensione psicosociale del
lavoratore e l’importanza del suo coinvolgimento per l’applicazione delle norme tecniche
ideate.
Gli obiettivi dei decreti legislativi di quegli anni sono, tuttavia, lodevoli: separare gli obblighi di
prevenzione da quelli assicurativi; estendere il campo di applicazione a tutte le attività,
pubbliche e private; estendere gli obblighi anche ad altri soggetti. In particolare, il DPR n.
547/55 e il DPR n. 303/56 sanciscono che il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti abbiano
l’onere di garantire l’igiene, la sicurezza e l‘applicazione delle norme previste negli ambienti di
lavoro e che i lavoratori siano obbligati ad osservare tali norme. Il limite consiste nel già citato
mancato riconoscimento del coinvolgimento del lavoratore e delle imprese che devono
limitarsi a adottare la norma stabilita. Il presupposto è che il legislatore riesca per ogni
impianto, attrezzatura e ambiente a identificare i rischi e a stabilire a priori le misure di
prevenzione. La visione miope di questa legislatura della sicurezza ha comportato la scarsa
applicazione delle norme, situazione che è perdurata nonostante i nuovi interventi del
legislatore negli anni Settanta con la creazione dello Statuto dei Lavoratori.
Alla fine degli anni Settanta il mondo dell’impresa è attraversato da numerosi cambiamenti
che si riverberano, inevitabilmente, sulla legislatura per la sicurezza sul lavoro. Ciò che si
modifica radicalmente è la gestione delle attività produttive, cambiamento che ha due cause
cooperanti: da un lato l’introduzione del computer provoca una vera rivoluzione tecnologica,
dall’altro il mercato diventa sempre più globale. Al cambiamento delle attività produttive non
segue, però, un adeguamento nella gestione delle risorse umane, e ciò comporta un aumento
degli infortuni sul lavoro.
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Ma non è solo la parte produttiva e gestionale dell’impresa a cambiare, cambiano anche i
lavoratori: iniziano in questi anni le rivendicazioni dei sindacati affinché siano eliminate le
condizioni lavorative che rendono più probabili gli infortuni lavorativi e le malattie
professionali.
Infine, si modifica la percezione stessa di ciò che lo Stato con le sue leggi dovrebbe garantire,
vale a dire non la salute e l’integrità fisica ma il benessere psico-fisico dei lavoratori. Non si
considera più la salute in negativo come assenza di malattia ma in positivo come qualità della
vita.
Tutti questi mutamenti hanno, in primo luogo, un effetto a livello internazionale: negli anni
Ottanta molti organismi internazionali si focalizzano sulla necessità d’individuare degli
interventi preventivi per la tutela della salute dei lavoratori.
In quegli anni, l’interesse della Comunità, ora Unione Europea, per la dimensione sociale del
lavoro cresce considerevolmente. L’obiettivo è quello di raggiungere dei livelli minimi di
garanzia della tutela e dei diritti dei lavoratori in tutti gli Stati membri, avendo la
consapevolezza che un uguale progresso umano e sociale all’interno delle imprese sia conditio
sine qua non per un mercato unico.
I passi fondamentali che l’Unione Europea compie nel campo della sicurezza sul lavoro
possono essere riassunti da due direttive, la n. 80/1107/CEE del 27 novembre 1980 e la n.
391 del 12 giugno 1989, e dall’Atto unico europeo del 1987.
La direttiva CEE n. 80/1107 adotta una politica di prevenzione dei rischi stabilendo, per tutti
gli Stati membri, soglie limite per ogni agente chimico, fisico e biologico cui il lavoratore può,
a causa della propria mansione, dover essere esposto. In Italia, tali direttive hanno trovato
applicazione con il D. Lgs. n. 277/91 che afferma, differentemente dalle norme degli anni
Cinquanta, il principio della massima sicurezza ragionevolmente praticabile rispetto al
precedente principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile. Per meglio dire: ciò
che è richiesto all’impresa è di garantire tutte le misure di sicurezza, anche se onerose o anche
se devono comportare l’astinenza di alcune attività lavorative.
Nel 1987, l’adozione dell’Atto unico europeo permette il salto di qualità per gli interventi che
l’Unione può attuare in ambito sociale: non si tratta più di agire nella dimensione dei consigli,
ma si può valicare quella delle direttive obbligatorie cui tutti gli stati membri devono attenersi.
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Una conseguenza dell’atto unico è l’emanazione della direttiva quadro n 89/391. Quest’ultima
ha rappresentato l’incipit della rivoluzione apportata in Italia da parte della 626 che altri non è
se non un suo adempimento nella legislatura italiana. Infatti, la direttiva è la prima nel suo
ambito a parlare di coinvolgimento diretto dei lavoratori nell’attuazione delle normative per la
sicurezza, attraverso la loro informazione e formazione. Inoltre essa è il casello d’imbarco
verso la creazione di una reale cultura della sicurezza che si basi sulla prevenzione e
valutazione del rischio e sulla formazione dei lavoratori.
1.1.2. - D. Lgs 626
Il D. Lgs 626 appare, fin dal primo sguardo, l'adeguata risposta del legislatore italiano alla
sfida, a dir poco coraggiosa e ambiziosa, lanciata dall’Unione Europea: creare una cultura del
lavoro in sicurezza "fondata sull’uomo e per l'uomo".
Per la prima volta, nella legislatura italiana, è dato risalto al coinvolgimento attivo di tutte le
parti interessate al processo prevenzionale. Da "creditori della sicurezza", con l'obbligo di
attenersi alle norme su cui sono resi edotti, i lavoratori diventano attori del sistema di gestione
della sicurezza. Essi hanno il dovere/diritto di collaborare attivamente con gli altri attori, ossia
il datore di lavoro, il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) , i
dirigenti e i preposti, il medico competente, gli installatori e i fornitori, per definire la strategia
di sicurezza.
E' facile comprendere la portata del cambiamento introdotto, un cambiamento culturale
appunto, che sancisce il passaggio definitivo da una prevenzione tecnica a un sistema di
sicurezza globale che pone l'uomo al centro.
Ciò che cambia è il fulcro del sistema legislativo circa tale tema: le leggi prodromiche al 626 si
basano su un concetto di prevenzione tecnica, per la quale il legislatore può stabilire a priori
tutti i rischi comportati da una mansione e gli eventuali provvedimenti: prevenzione oggettiva,
priva della necessità di relazione con chi deve adempirvi.
La forza dirompente del 626 è incarnata da un concetto di prevenzione soggettiva dei rischi;
infatti, come citato nell’art. 2, comma 1, lettera g), s'intende per prevenzione: "Il complesso
delle disposizioni o misure adottate o previste in tutte le fasi dell'attività lavorativa per evitare
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o diminuire i rischi professionali nel rispetto della salute della popolazione e dell'integrità
dell'ambiente esterno".
Questa scelta d'innovazione nasce dalla constatazione dell'incidenza percentuale, pari quasi al
70%, degli incidenti comportamentali, ossia di quegli incidenti che avvengono a causa della
messa in atto di comportamenti insicuri, sul totale degli infortuni lavorativi rispetto a quella
degli infortuni derivanti da condizioni insicure.
Non sono le condizioni degli impianti o di qualsiasi altro macchinario o luogo di lavoro a
incidere pesantemente sul numero di infortuni annui, ma l'interazione dell'uomo con tali
condizioni, il suo comportamento. Da qui l'occorrenza di porre in risalto aspetti prima posti al
margine, come il suddetto coinvolgimento attivo di tutte le parti interessate che avviene
soprattutto con attività di formazione e in formazione.
L'informazione nei confronti dei lavoratori è un obbligo del datore di lavoro già dal 1955 con
il D.P.R. 547, tuttavia l'adempiere a tale prescrizione si esauriva nell’affissione di cartellonistica
che esponesse i rischi tecnici delle mansioni che i lavoratori avrebbero dovuto compiere.
Oggi, invece, ciò che prescrive l'attuale legislazione circa l'informazione dei lavoratori è
l’ampio spazio allo scambio di comunicazioni: occorre che il datore di lavoro provveda
affinché ciascun lavoratore riceva un'adeguata informazione su elementi di carattere obiettivo
(art. 21), inoltre deve esserci una comunicazione anche su aspetti soggettivi, quali emozioni,
affettività e percezioni. Trattandosi di uno scambio, la legge prevede una ripartizione degli
obblighi informativi tra entrambi gli interlocutori: il datore di lavoro ha il dovere di informare
attraverso una comunicazione specifica, pertinente, sistematica e che si avvalga di mezzi di
comunicazione e di fonti adeguati; da parte sua, il lavoratore ha la responsabilità di acquisire i
contenuti della comunicazione stessa.
Il concetto di formazione è mutuato e generalizzato dal D.lg. n 277/91 che riferisce il termine
formazione a specifiche interazioni con agenti di rischio. Precedentemente i concetti utilizzati
sono stati di istruzione e addestramento, che mal si addicono alla nuova politica di
responsabilizzazione del lavoratore del 626. Il riferimento alla formazione è presente
nell’articolo 22 che, al comma 1, esplicita: "Il datore di lavoro assicura che ciascun lavoratore
riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e di salute, con
particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alle proprie mansioni". Tale obbligo,
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come commenta lo stesso art. 22, è da attuarsi non solo al momento dell'assunzione, ma
anche nel momento in cui avvenisse un cambio di mansioni o l'impresa utilizzasse nuovi
macchinari o nuovi materiali potenzialmente pericolosi.
Lo scopo primario di queste due attività, formazione e informazione, è quello di predisporre
una rielaborazione consapevole da parte dei lavoratori del valore della sicurezza come
investimento per la propria vita.
Il coinvolgimento dei lavoratori avviene, d’altra parte, con l'introduzione di una nuova figura:
il rappresentante per la sicurezza. Questi, come commenta l'art. 18, "In tutte le aziende o unità
produttive, è eletto o designato"; "Nelle aziende, ovvero unità produttive, con più di quindici
dipendenti è eletto o designato dai lavoratori nell'ambito delle rappresentanze sindacali in
azienda."; ha precisi compiti e responsabilità, tra i quali, come esplicitato dall'art. 19, accedere
ai luoghi in cui si svolgono le lavorazioni; essere consultato preventivamente e
tempestivamente in ordine alla valutazione dei rischi, all’individuazione, programmazione,
realizzazione e verifica della prevenzione nell'azienda; partecipare alla riunione periodica di
prevenzione e protezione dai rischi; fare proposte in merito all'attività di prevenzione e
informare il RSPP dei rischi individuati nel corso della sua attività, ricevere una formazione
adeguata al suo ruolo. La legislatura, già precedentemente all'emanazione del 626, ha tentato di
coinvolgere i lavoratori nelle scelte aziendali per quanto riguarda la tutela e la sicurezza della
salute nei luoghi di lavoro; ne sono esempi l'art. 9 della legge 300/1970 o il D. Lgs n 277/91,
anche se si è trattato di normative troppo astratte e generiche per trovare un’effettiva
applicazione, che si è verificata solo in seguito all'istituzione del ruolo dell’RLS.
Altro aspetto rilevante introdotto dal D. Lgs 626 è il passaggio da una logica risarcitoria del
danno subito, vigente nel nostro sistema prima dell'avvento della nuova legge, alla logica
improntata sull'analisi e valutazione preventiva dei rischi e sull'individuazione di adeguate
misure preventive e protettive. Tale legge rappresenta la reale applicazione del principio della
massima sicurezza ragionevolmente praticabile, già preannunciata nella legge 277/91,
l'abbandono, dunque, di qualunque principio astratto di massima sicurezza tecnologica o di
annullamento completo del rischio, partendo dal presupposto che il "rischio zero" sia
improponibile per qualsiasi attività umana, essendo essa sia nella vita quotidiana che nel
lavoro fonte persistente di rischi.
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Infine, per primo il 626 introduce i principi ergonomici tra le misure di prevenzione. La
constatazione da parte del legislatore della diminuzione dei gravi traumi e dell'aumento dei
piccoli traumi dovuti ad azioni insicure ripetute nel tempo, ha indotto l'attenzione
sull’interazione tra l'uomo e le condizioni presenti nel proprio lavoro, al fine di individuare le
migliori possibilità di tale interazione. Questa volontà di adattamento delle performance e
delle condizioni lavorative all'uomo si è concentrata sia sulla costituzione di ambienti più
ergonomici, sia sulla creazione di regole più precise per l'organizzazione stessa del lavoro.
L'idea che sta alla base di questa parte, come dell'intero Decreto Legislativo, è che finalmente
la macchina e l'organizzazione del lavoro devono adeguarsi all'uomo e non viceversa.
E' ovvio che la portata di tale idea sia rivoluzionaria, e in quanto tale è risultata di difficile
applicazione immediata, al punto che, trascorsi dodici anni, gli addetti ai lavori s'interrogano
sulla riuscita o sul fallimento dell'impresa. Non sembra possibile decretare né l'uno né l'altro
essendo ancora troppe le azioni e le modifiche da compiere al fine di far diventare realtà
culturale respirata in ogni azienda del nostro territorio, ciò che il 626 ha solo messo nero su
bianco.
1.1.3 Le principali modifiche apportate al D. Lgs 626/94: il D. Lgs 242/ 96 e il D. Lgs
195/03
Nel corso di questi dodici anni, il 626 è stata oggetto di numerose modifiche in seguito a
nuove direttive emanate dall’Unione Europea, o a sue sollecitazioni. Tra queste variazioni,
quelle di maggiore interesse, per via della più ampia portata, sono quelle introdotte dal D. Lgs
195 del 23 giugno 2003.
Tale decreto legislativo è stato emanato a ridosso di una sentenza di condanna da parte
dell'Unione Europea nei confronti dell'Italia per via dell’eccessiva genericità nella descrizione
delle caratteristiche professionali degli addetti al servizio di prevenzione e protezione e dei
responsabili del servizio stesso. Infatti, tali caratteristiche, nella versione precedente la
modifica da parte del suddetto decreto legislativo, sono riassunte nella criptica definizione
“attitudini e capacità adeguate”. E’ ovvio che l’ambiguità delle parole usate lasci ampio spazio
a libere interpretazioni e al diffondersi di prassi consolidate circa la formazione dell’RSPP da
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parte delle parti sociali interessate: sindacato dei lavoratori, sindacato dei datori di lavoro,
associazioni di categoria, INAIL e UNI.
Da qui, l’urgenza di emanare un nuovo decreto con lo scopo di rendere esplicita una corretta
interpretazione della Direttiva Comunitaria 391 del 1989, riguardo alla formazione e le
competenze richieste all’RSPP.
Il compito del 195/03 è stato indubbiamente ostico, in quanto si è trattato di esplicitare il
passaggio da una logica dualistica della sicurezza secondo la quale agire all’interno di
un’impresa è un’attività slegata dall’agire in sicurezza, a una moderna logica di cultura del
lavorare in sicurezza, che considera quanto mai unite sicurezza e azione.
Secondo la filosofia precedente, largamente adottata dalle aziende italiane, il RSPP è una sorta
di supereroe che ha competenze tecniche in tutti i settori produttivi, tali da riuscire a
individuare i rischi specifici d’ogni attività o tecnica in maniera corretta e, soprattutto,
preferibile a quella di chi è quotidianamente a contatto con le suddette attività o tecniche.
La nuova linea di pensiero, invece, assegna la responsabilità di compiere la valutazione dei
rischi a chi ne è realmente competente, ossia il datore di lavoro, i dirigenti, i preposti e i
lavoratori che ne sono i reali protagonisti.
Il compito del RSPP consiste, com’esplicitato nell’art. 9 della 626, nel promuovere e realizzare
un sistema di controllo che poi deve essere messo in atto dagli stessi protagonisti del rischio.
In conseguenza al suddetto art. 9, è necessario che siano rese esplicite le competenze richieste
al RSPP, che non devono più essere intese in senso tecnicistico ma, come commenta l’art. 8-
bis introdotto dalla 195, consistono in competenze in ambiti di sicurezza, comunicazione,
relazione sindacale e organizzazione aziendale.
In particolare, è richiesto che un eventuale candidato alla funzione di RSPP sia in possesso di
“un attestato di frequenza, con verifica dell'apprendimento, a specifici corsi di formazione in
materia di prevenzione e protezione dei rischi, anche di natura ergonomica e psico-sociale, di
organizzazione e gestione delle attività tecnico amministrative e di tecniche di comunicazione
in azienda e di relazioni sindacali.” (art. 8-bis, comma 4).
Per quanto il D. Lgs 195 abbia chiarito alcune definizioni sibilline presenti nella 626 circa la
formazione dell’RSPP, la sua applicazione non è scontata: la situazione precedente a tale
decreto ha comportato la creazione da parte degli RSPP di percorsi formativi ad hoc, senza
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una norma che stabilisse come poter accedere al ruolo; persino dopo le chiarificazioni del
decreto, il possibile contenuto dei corsi di formazione è stato oggetto di dubbi e discussioni.
L’accordo tra Stato e Regioni del 26/01/2006 ha avuto, propriamente, il fine di stabilire in
maniera corretta il contenuto dei suddetti corsi di formazione, rispettando le esigenze delle
specifiche realtà produttive in cui l’RSPP va ad operare.
Secondo le nuove disposizioni sono previste quattro tipologie di corsi, di cui due trasversali,
ossia validi per gli RSPP operanti in tutti i settori: uno è di aggiornamento quinquennale e uno
specifico per ogni macrosettore ATECO 2002 (ossia i codici ad opera dell’Istat che
classificano le principali attività economiche).
Nonostante quanto previsto dall’accordo, sono ancora molti i quesiti aperti e le critiche mosse
da esperti del settore circa, per esempio, l’eccessiva eterogeneità di alcuni macrosettori, che
comporterebbe dei problemi nella scelta dei temi formativi; o ancora la non specificazione
delle competenze del formatore, che potrebbe portare a uno squilibrio di maggiori
competenze verso chi dovrebbe apprendere e non verso chi forma.
Tutto ciò è testimonianza che, anche in questa parte specifica del mutamento indotto dai
decreti 626 e 195, una volta prescritte le norme, è ancora lungo il cammino per realizzarle
concretamente e nel modo più congruo.