2
misurata in funzione della capacità di acquisto di un insieme di beni considerati necessità
strettamente basilari: la demarcazione tra povertà o meno è quindi tracciata facendo ricorso ad un
limite minimo, una soglia minima di reddito disponibile per persona su base giornaliera. Ad
esempio, “quando la povertà è definita in termini assoluti, la Banca Mondiale […] definisce la
povertà in Africa e America Latina utilizzando una soglia di reddito di 1 o 2 dollari a persona al
giorno, e nell’Europa centrale e orientale una soglia di 2 o 3 dollari al giorno” (T. Smeeding,
2006).
D’altro canto, nell’ottica “relativa”, gli indicatori statistici per la povertà ruotano attorno
al valore della mediana della distribuzione del reddito, calcolata solitamente su base nazionale.
L’Unione Europea nel suo complesso, ad esempio, ha optato per una soglia convenzionale di
rischio povertà pari al 60% della mediana del reddito: sono di conseguenza classificati a rischio
di povertà quei nuclei familiari con un reddito disponibile inferiore al 60% del valore mediano
della distribuzione del reddito relativa alla nazione in cui gli stessi soggetti vivono (Comitato per
la protezione sociale, UE, 2001).
Il concetto di esclusione sociale fa invece propria una più vasta prospettiva d’analisi. Se
si dovesse riassumere in poche parole la portata di tale spostamento, potremmo dire che, grazie
al più ampio concetto di esclusione sociale, diventano oggetto di studio e ricerca i fattori
economici e culturali che stanno alla base della povertà. In questo modo la lente dell’esclusione
sociale diventa un mezzo più adeguato “per osservare e comprendere la natura dinamica dei
processi di accumulazione temporale e spaziale di svantaggi sociali” (P. Moisio, 2002), andando
oltre una semplice descrizione e constatazione fattuale del fenomeno povertà.
Qualche difficoltà sorge nel momento in cui ci si interroghi a proposito di una definizione
precisa o largamente accettata di esclusione sociale. Semplicemente, non vi è un’univoca
definizione, ma diverse interpretazioni e letture del fenomeno che ne mettono di volta in volta in
luce aspetti complementari. Le più comuni fanno coincidere l’esclusione sociale con
“l’incapacità di un individuo di partecipare alle attività economiche e sociali basilari della
società in cui vive” (S.R. Chakravarty e C. D’Ambrosio, 2006) o ne deducono l’esistenza
quando “individui, famiglie e intere comunità sono esclusi da stile, mezzi e condizioni di vita
che sono convenzionali ed approvati in una data società” (P. Moisio, 2002). Altre analisi ne
sottolineano determinate caratteristiche, raffigurando l’esclusione sociale come una “spirale di
precarietà”, un insieme di “svantaggi cronici cumulativi” (P. Tsakloglou e F. Papadopoulos,
2002) che finiscono per procurare a chi ne è vittima una perdita, una “privazione di opportunità”
(A. Sen).
3
Una maggior omogeneità di vedute si riscontra invece quando vengono presi in
considerazione i tratti caratteristici che determinano in maniera sostanziale la differenza tra i
concetti di povertà ed esclusione sociale. Panos Tsakloglou e Fotis Papadopoulos ne tracciano un
quadro riassuntivo in un articolo apparso nel 2002 sul Journal of European Social Policy.
Facendo riferimento a studi di Room (1995), Atkinson (1998), Sen (2000), Atkinson et al. (2002)
individuano i seguenti attributi fondamentali:
l’esclusione sociale risulta essere un fenomeno
multidimensionale, implica impoverimento e svantaggio in un vasto insieme di indicatori
relativi a diversi aspetti qualitativi dello “standard” di vita (al contrario del concetto di
povertà, il quale, come abbiamo già detto, attribuisce interesse quasi esclusivo ad
indicatori costruiti sulla variabile reddito). Inoltre l’esclusione sociale può essere causata
non soltanto dalla mancanza di risorse personali, ma anche dal livello insufficiente di
risorse, opportunità e servizi disponibili nell’ambito della comunità, dell’area geografica
di riferimento (“neighbourhood dimension”);
dinamico, dato che le persone che ne sono vittime patiscono tale esclusione non solo per
la loro situazione corrente, ma anche per la scarsità di prospettive future;
relativo, implica esclusione da una particolare società in un dato periodo temporale;
contraddistinto da una dimensione geografico-sociale (“agency dimension”), nel senso
che le radici dell’esclusione sociale medesima vanno oltre le responsabilità individuali di
chi ne soffre le conseguenze;
di natura relazionale, avendo come ultime conseguenze una netta soluzione di continuità
nella relazione dell’individuo con il resto della società, una inadeguata e insoddisfacente
partecipazione sociale e il venir meno dell’integrazione sociale.
(P. Tsakloglou e F. Papadopoulos, 2002)
Per effetto della caratteristica multidimensionalità attraverso cui si manifesta l’esclusione
sociale, tale fenomeno viene di norma studiato e monitorato ricorrendo ad indicatori di varia
4
natura, che qui ci limitiamo ad accennare: stato occupazionale, livello di istruzione, tipo di
nucleo familiare, stato di salute e accesso all’assistenza sanitaria, fascia d’età e livello di reddito
(povertà) sono quelli di uso più frequente.
1.2 Povertà ed esclusione sociale: l’approccio istituzionale europeo e gli indicatori statistici
Se ora focalizziamo la nostra attenzione all’ambito europeo, possiamo affermare come
l’obiettivo di fronteggiare povertà ed esclusione sociale sia ormai da diversi decenni presente
all’interno dell’agenda delle istituzioni comunitarie. Fin dagli anni ’70 la Commissione Europea
è impegnata in azioni e programmi anti-povertà, ma è soltanto più di recente che tale fenomeno
ha iniziato a beneficiare di maggiore attenzione e a essere dibattuto e affrontato in maniera
coordinata: il via è stato dato al Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000. Dopo aver
dichiarato il numero di individui che vivono in condizioni di povertà ed esclusione sociale in
Europa come inaccettabile, gli indirizzi conclusivi del summit hanno auspicato decisivi passi in
avanti per contrastare tale situazione e giungere ad un incisivo impatto sull’eradicazione della
povertà entro il 2010. In vista di tale scopo si raccomandava un maggior coordinamento tra le
politiche nazionali a contrasto di povertà ed esclusione, sulla base di obiettivi comuni, piani di
azione e indicatori condivisi.
E’ proprio in questa direzione che si muove il Consiglio Europeo tenutosi a Laeken nel
dicembre 2001: in tale circostanza viene formalmente adottato un insieme di 18 indicatori
statistici di esclusione sociale (Tabelle 1.1 – 1.2), comuni a tutta l’Unione, sulla base dei quali
osservare e monitorare il fenomeno in maniera comparabile, uniforme e omogenea all’interno dei
diversi Paesi membri. Molto chiari risultano essere i principi metodologici sottostanti ad ognuno
degli indicatori approvati, così come viene enunciato dalla “Relazione sugli indicatori nel campo
della povertà e dell’esclusione sociale” (2001) a firma del Comitato europeo per la protezione
sociale:
- l'indicatore dovrà catturare l'essenza del problema ed avere un'interpretazione
normativa chiara ed accettata;
- l'indicatore dovrà essere robusto e omologato dal punto di vista statistico;
- l'indicatore dovrà essere in grado di rispondere agli interventi strategici attuati, ma
non dovrà essere soggetto a manipolazioni;
5
- l'indicatore dovrà essere misurabile in modo sufficientemente paragonabile in tutti
gli Stati membri e comparabile, nei limiti della praticità, con le norme applicate a
livello internazionale;
- l'indicatore dovrà essere tempestivo e soggetto a revisione;
- la misurazione di un indicatore non dovrà imporre un fardello eccessivo agli Stati
membri, alle imprese, o ai cittadini dell'Unione;
- il gruppo degli indicatori dovrà essere equilibrato rispetto alle diverse dimensioni;
- gli indicatori dovranno essere reciprocamente coerenti e il peso dei singoli indicatori
all'interno del gruppo dovrà essere equilibrato;
- il gruppo di indicatori dovrà essere il più possibile trasparente e accessibile per i
cittadini dell'Unione europea.
I diciotto indicatori che prendono forma a partire da tali principi si concentrano su quattro
importanti dimensioni dell’esclusione sociale: povertà finanziaria, occupazione, salute e
istruzione. Sono inoltre suddivisi su tre differenti livelli che ne definiscono priorità e importanza
relativa: dieci dei diciotto complessivi sono considerati indicatori primari (livello 1), tali cioè da
coprire gli elementi e gli aspetti fondamentali che vanno a determinare situazioni di esclusione
sociale; altri otto sono etichettati quali secondari (livello 2), descrivono altre dimensioni del
problema e sono intesi a supporto dei primi; infine, quelli che rappresentano il terzo livello non
sono stati strettamente previsti in sede comunitaria ma vengono delegati, per quel che concerne
sia la loro definizione sia l’utilizzo operativo, ai singoli Stati membri allo scopo di raffigurare
specifiche situazioni e circostanze nazionali.
Tabella 1.1: Indicatori primari di Laeken
INDICATORI PRIMARI
Indicatore Definizione
1. Tasso di popolazione a basso
reddito dopo i trasferimenti
(tasso di rischio povertà)
[disaggregazioni per genere, età,
stato occupazionale, tipologia di
nucleo familiare, stato di possesso
dell'alloggio; quali esempi
illustrativi, valori per nuclei familiari
“tipo” composti da: 1 sola persona o
2 adulti – 2 bambini]
Percentuale di individui che vivono in nuclei familiari nei
quali il reddito totale equivalente è inferiore al 60% del
reddito mediano nazionale equivalente.
(reddito equivalente: reddito totale del nucleo familiare
diviso per il suo coefficiente di “dimensione equivalente”
[“equivalent size”] allo scopo di tenere conto della
dimensione e composizione del nucleo familiare stesso)
6
2. Distribuzione del reddito S80/S20: rapporto tra il reddito equivalente corrispondente
al primo quintile e all’ultimo quintile della distribuzione
nazionale del reddito.
3. Persistenza nel rischio povertà Persone che vivono in nuclei familiari nei quali il reddito
totale equivalente è stato inferiore al 60% del reddito
mediano nazionale equivalente nell'anno n e in (almeno)
due tra gli anni n-1, n-2, n-3.
4. Scarto dalla mediana di rischio
povertà
Differenza tra il reddito mediano delle persone sotto la
soglia di basso reddito e la soglia di basso reddito;
differenza espressa come percentuale del valore-soglia.
5. Coesione regionale Coefficiente di variazione dei tassi di occupazione a livello
NUTS 2.
6. Tasso di disoccupazione di
lungo termine
Totale della popolazione disoccupata da lungo termine
(≥12 mesi; def. ILO) espressa in termini percentuali sul
totale della popolazione attiva.
7. Individui in nuclei familiari
privi di lavoro
Persone di età compresa tra 0 e 65 anni (0-60) che vivono
in nuclei familiari all’interno dei quali nessun membro
lavora. Sono considerati idonei tutti i nuclei familiari,
tranne quelli per i quali tutti i componenti fanno parte di
una delle seguenti categorie:
- età inferiore a 18 anni;
- età compresa tra 18 e 24 anni, impegnati in attività
scolastiche e non (economicamente) attivi;
- età pari o superiore a 65 anni (60) e non occupati.
8. Giovani che abbandonano
prematuramente la scuola e
non seguono attività di
istruzione o formazione
Percentuale della popolazione totale tra i 18 e i 24 anni con
titolo di studio ISCED di livello 2 (o inferiore) che non
frequenta attività di istruzione o formazione.
9. Aspettativa di vita alla nascita Numero di anni che una persona può aspettarsi di vivere, a
partire dall'età di 0 anni, per maschi e femmine.
10. Stato di salute dichiarato,
strutturato per livello di reddito
Rapporto delle quote della popolazione, all’interno
dell’ultimo quintile e del primo quintile (per reddito
equivalente), di età pari o superiore a 16 anni, che si
definiscono in condizioni di salute cattive o pessime in base
alla definizione dell'OMS.
Fonte: Comitato per la protezione sociale, UE, 2001
7
Tabella 1.2: Indicatori secondari di Laeken
INDICATORI SECONDARI
Indicatore Definizione
11. Dispersione attorno alla soglia
di povertà
Persone che vivono in nuclei familiari nei quali il reddito
totale equivalente è inferiore al 40%, 50% e 70% del
reddito mediano nazionale equivalente.
12. Tasso di popolazione a rischio
povertà, fissato ad un
determinato momento
Anno di base ECHP (European Community Household
Panel) 1995.
1. Tasso di rischio povertà relativo (basso reddito) nel 1997
(=indicatore 1)
2. Tasso di rischio povertà relativo nel 1995, moltiplicato
per il fattore d'inflazione 1994/96.
13. Tasso di popolazione a rischio
povertà, prima dei
trasferimenti
Tasso di rischio povertà relativo, ove il reddito è calcolato
come segue:
1. Valore del reddito esclusi tutti i trasferimenti sociali;
2. Valore del reddito comprese le pensioni di anzianità e di
reversibilità;
3. Valore del reddito dopo tutti i trasferimenti sociali
(=indicatore 1)
14. Coefficiente di Gini
(distribuzione del reddito)
La relazione tra porzioni cumulative della popolazione,
disposte secondo il livello di reddito, rispetto alla quota
cumulativa dell'ammontare totale da esse ricevuto.
15. Persistenza nel rischio povertà
(soglia pari al 50% del reddito
mediano)
Persone che vivono in nuclei familiari nei quali il reddito
totale equivalente è stato inferiore al 50% del reddito
mediano nazionale equivalente nell'anno n e in (almeno)
due tra gli anni n-1, n-2, n-3.
16. Percentuale di disoccupazione
a lungo termine
Totale della popolazione disoccupata da lungo termine
(≥12 mesi; def. ILO) espressa in termini percentuali sul
totale della popolazione disoccupata.
17. Tasso di disoccupazione a
lunghissimo termine
Totale della popolazione disoccupata a lunghissimo
termine (≥24 mesi; def. ILO) espressa in termini
percentuali sul totale della popolazione attiva.
18. Persone con bassi
conseguimenti scolastici
Quota di individui sulla popolazione adulta con titolo di
studio conseguito pari a ISCED di livello 2 o inferiore, per
gruppi di età (25-34, 35-44, 45-54, 55-64).
Fonte: Comitato per la protezione sociale, UE, 2001
8
Come si evince dal complesso degli indicatori, nel quadro statistico tracciato dalle
istituzioni europee viene assegnato maggior peso alla dimensione “povertà e disuguaglianza”
come fattore-chiave per il processo di esclusione sociale. Tra quelli primari, quattro indicatori su
un totale di dieci fanno riferimento all’aspetto povertà (relativa). Lo stesso discorso vale per
addirittura cinque indicatori su otto nell’ambito di quelli classificati come secondari. Tale
impostazione, come avremo modo di vedere più avanti, non è rimasta immune da giudizi e
osservazioni critiche. Lasciando per il momento da parte le discussioni sulla loro effettiva
significatività nell’ottica dell’esclusione sociale, gli indicatori riconducibili alla categoria
“povertà e disuguaglianza” risultano comunque utili per dare un primo sguardo al fenomeno di
nostro interesse e poterne valutare la portata.
Dalla pubblicazione ufficiale Statistics in focus (13/2005), a cura di Eurostat, ricaviamo
cifre significative: nel 2003, considerando l’Unione a 25 Paesi membri nel complesso, una media
del 16% della popolazione europea è a rischio di povertà, pari a un totale di 72 milioni di
cittadini (conviene ricordare che stiamo parlando di una misura relativa, in virtù della quale sono
classificati a rischio povertà quegli individui che vivono in nuclei familiari dal reddito inferiore
al 60% della mediana della distribuzione del reddito calcolata su base nazionale; di conseguenza,
il valore medio complessivo in questione, 16%, è da considerarsi media ponderata tra tutti i
singoli valori nazionali, con peso proporzionale alla popolazione totale di ciascun paese).
Quando volgiamo l’attenzione più in profondità scopriamo che tale media “continentale”
complessiva nasconde variazioni anche molto considerevoli tra gli Stati membri. Ad un estremo,
i paesi con tassi di povertà più alti sono (Grafico 1.1) Slovacchia, Irlanda, Grecia (21%) seguiti
da Portogallo, Italia, Spagna (19%) e Regno Unito ed Estonia con 18%; all’estremo opposto, la
quota di popolazione a rischio povertà è prossima al 10%, valore significativamente minore,
nella Repubblica Ceca (8%), in Lussemburgo, Ungheria, Slovenia (10%), Finlandia e Svezia
(11%) oltre a Danimarca, Francia, Olanda (12%) più Austria (13%).
9
E’ necessario però specificare che tali valori, proprio per la loro natura di misure relative
di rischio povertà costruite su scala nazionale, quindi per ciascuno stato singolarmente e
separatamente, vanno letti con cautela: sembrerebbero infatti essere osservabili livelli di
esposizione al rischio povertà nel complesso simili tra i paesi nuovi membri e quelli “vecchi”
dell’Unione Europea a 15. Questo sia in termini di medie europee (EU25 ed EU15, Grafico 1.1)
di fatto identiche, sia in termini di singole nazioni, visto che troviamo indifferentemente alcuni
tra i cosiddetti nuovi membri ad entrambi gli estremi del grafico (per esempio, Repubblica Ceca,
Ungheria e Slovenia con valori bassi, intorno al 10%; all’opposto, Estonia e Slovacchia con
valori quasi raddoppiati, 18% e 21% rispettivamente). Bisogna però tenere a mente che “i livelli
generalmente più bassi delle soglie nazionali di povertà riflettono le condizioni di vita più
povere che prevalgono [nei nuovi Stati membri] rispetto all’Europa a 15 nazioni” (Statistics in
focus, 13/2005, Eurostat).
Per illustrare la dimensione relativa di queste soglie e comprenderne l’effettivo
significato, riportiamo nel Grafico 1.2 il valore della soglia di rischio povertà per un nucleo
familiare “tipo” (due adulti e due bambini) per ogni stato membro, standardizzato rispetto al
potere d’acquisto (PPS, Purchasing Power Standards: “unità valutaria artificiale di riferimento
usata nell’Unione Europea per consentire comparazioni tra aggregati economici, in maniera
tale da eliminare le differenze nel livello dei prezzi tra paesi. […] 1 PPS vale uno stesso
ammontare di beni e servizi in tutti i paesi, mentre diverse quantità di valuta nazionale
sarebbero necessarie, a seconda del livello dei prezzi, per acquistare lo stesso ammontare di
beni all’interno dei singoli paesi” Eurostat, CODED – Concepts and Definitions Database).
10
Possiamo avere ora una visione più completa: nonostante alcuni dei nuovi Stati membri
fossero in buona posizione per quel che riguarda la quota di popolazione a rischio di povertà
(Grafico 1.1), ben nove di loro su un totale di dieci presentano (Grafico 1.2) una soglia di
povertà relativa inferiore alla media dei 25. Questo non significa che i risultati riassunti dal
primo grafico abbiano scarso valore, ma che debbano essere interpretati con un metro di
paragone consapevole, non strettamente uniforme e omogeneo a prescindere dal paese. E’
necessario avere presenti anche le significative differenze tra gli standard di vita che possono
intercorrere tra i paesi, al fine di non cadere in errori di valutazione. Emblematico in questo
senso è il caso di Ungheria (HU) e Lussemburgo (LU). Dal Grafico 1.1 osserviamo che nel 2003
i paesi in questione fanno registrare la stessa percentuale di individui in condizioni di rischio
povertà, pari al 10%. Potremmo quindi essere indotti a considerare la generale situazione del
fenomeno povertà, in queste due nazioni, come identica tout court, ma cadremmo in errore. Il
Grafico 1.2 corregge la nostra affermazione: vediamo infatti che le soglie di povertà relativa al di
sotto delle quali si è classificati “a rischio” sono totalmente imparagonabili, all’incirca 7.500 PPS
per l’Ungheria contro i quasi 30.000 del Lussemburgo. Di conseguenza, immaginando per un
attimo l’intera popolazione dei due paesi come interamente appartenente alla tipologia di nucleo
familiare presa a campione, il “10%” segnato nel primo grafico ci racconta scenari diversi: da un
lato avremmo il 10% dei cittadini ungheresi con un reddito non superiore a 7.500 PPS, dall’altro
lato il 10% dei lussemburghesi con un reddito al di sotto dei 30.000 PPS. Il quadro della
situazione che ne esce, in fin dei conti, non è così simile come poteva apparirci a prima vista.
11
Il fatto che molti degli Stati recentemente entrati a far parte dell’Unione, lo abbiamo già
rilevato in precedenza, abbiano una soglia di povertà più bassa della media europea sta a
significare che la loro distribuzione del reddito è più schiacciata verso il basso rispetto alla media
europea: ciò sta alla base dell’osservazione per cui tali paesi sono generalmente caratterizzati da
uno “standard nazionale” di vita peggiore.
Tutto questo risulta avvalorato quando consideriamo l’intero spettro di valori, presentati
nel Grafico 1.2, in termini percentuali della media europea dei 25 (pari a 15.913 PPS). La soglia
di rischio povertà per la tipologia di nucleo familiare considerato si trova a variare dal 28%
(4.455,64 PPS) del valore medio europeo in Lettonia, al 188% (29916,44 PPS) in Lussemburgo:
tra i due estremi vi è quindi una differenza notevole, di quasi sette volte, che inevitabilmente si
ripercuote sulle condizioni di vita delle popolazioni e segnala nette diversità tra i livelli di
sviluppo economico raggiunti dalle venticinque nazioni. Questo sottolinea la necessità di
spingersi anche oltre l’esame degli indici di rischio relativo di povertà allo scopo di ottenere una
visione più profonda e completa del fenomeno di nostro interesse.
(Eurostat, Statistics in focus, 13/2005)
(...)
12
3. Valutazione di indicatori demografici ed economici: confronto tra aree
urbane e aree rurali nel complesso della UE
Nel corso del Capitolo 1 sono stati delineati diversi elementi nei confronti dei quali la
letteratura riconosce uno stretto legame con situazioni di rischio povertà ed esclusione sociale.
Tra questi ricordiamo la mancanza di un’occupazione stabile a tempo pieno e un basso livello di
istruzione, fattori cui va affiancata anche la condizione di età avanzata, situata cioè all’interno
della fascia considerata “anziana”. Diventa a questo punto nostro obiettivo valutare l’incidenza a
livello regionale NUTS 3 di un insieme di elementi, come quelli sopra menzionati ed altri ad essi
correlati, che possono essere interpretati quali segnali di un precario livello di sviluppo
economico-sociale delle aree di volta in volta considerate. In particolare, come già anticipato
nelle pagine precedenti, siamo soprattutto interessati al confronto tra le situazioni che si vengono
a delineare per le regioni NUTS 3 a complessivo carattere rurale, da un lato, e urbano, dall’altro.
In tal senso esamineremo, per tutte le aree territoriali NUTS 3 che coprono l’intera
superficie dei 27 Paesi membri dell’Unione Europea, le seguenti variabili suddivise su due
principali indirizzi tematici:
Variabili di natura demografica
variazione della popolazione intercorsa tra gli anni 1995 e 2003;
quota della popolazione anziana (età > 65 anni) sul totale;
quota della popolazione giovane (età compresa tra 0 e 24 anni) sul totale;
quota di laureati sul totale della popolazione.
Variabili relative al mercato del lavoro
quota di occupati suddivisi per settore di attività;
tasso di occupazione;
tasso di disoccupazione.
L’analisi viene condotta a partire da una collezione di dati, relativi al livello NUTS 3,
proveniente per intero dai database elettronici di Eurostat, l’istituto statistico di riferimento
dell’Unione Europea. Nello specifico, i database da cui sono stati attinti i dati sono: Population –
Demography – Regional Data; Population – Census – Regional Level Census 2001 round; e
Regions – Regional Labour Market. L’anno di riferimento per le estrazioni risulta essere di volta
13
in volta il 2003 o il 2001, a seconda di un’adeguata ed effettiva disponibilità di dati di livello
NUTS 3.
Per ciascuno dei temi di analisi che si è stabilito di prendere sotto esame, procediamo
lungo le seguenti linee guida di metodologia generale. Osservata la distribuzione della variabile
di volta in volta considerata, si individuano due valori-limite di riferimento sulla base dei quali
vengono tracciati i “confini” di tre diverse classi. Queste classi raggrupperanno al loro interno,
rispettivamente, i territori NUTS 3 con valore “basso”, “medio” e “alto”. Tale partizione avviene
confrontando il valore effettivamente presentato da ciascuna unità territoriale NUTS 3 con quelli
che sono stati scelti come riferimento: in maniera abbastanza intuitiva, se chiamiamo l
1
ed l
2
i
due valori-limite e x quello di ciascuna unità territoriale sotto esame, quest’ultima viene inserita
nella classe “bassa” se x < l
1
, nella classe “media” se l
1
< x < l
2
, nella classe “alta” se x > l
2
.
I tre raggruppamenti così definiti vengono poi incrociati con la classificazione basata
sull’indice di ruralità (RI) che abbiamo illustrato alla fine del precedente capitolo (cfr. cap.2,
par.2.2.3), la quale distingue tra unità territoriali “prevalentemente urbane” (PU), unità
territoriali “significativamente rurali” (SR) e unità territoriali “prevalentemente rurali” (PR). In
questo modo si viene a delineare un totale di nove classi differenti, così come visualizzato dallo
schema indicativo sottostante.
Schema 3.1: Combinazione di classificazioni utilizzata per l’analisi a livello territoriale NUTS 3
n° NUTS 3 con
valore “basso”
n° NUTS 3 con
valore “medio”
n° NUTS 3 con
valore “alto”
n° NUTS 3 PU (i) (ii) (iii)
n° NUTS 3 SR (iv) (v) (vi)
n° NUTS 3 PR (vii) (viii) (ix)
Ognuna delle nove classi risultanti dalla sovrapposizione delle due diverse classificazioni è
rappresentata da una delle celle ora contrassegnate con le cifre romane, che nel concreto
svolgimento della nostra analisi conterranno invece il numero dei NUTS 3 europei che vanno a
soddisfare i relativi vincoli di ripartizione: la cella (i) indicherà infatti il numero di unità
territoriali che sono riconosciute “prevalentemente urbane” e allo stesso tempo presentano un
valore classificato come “basso” per la variabile oggetto di valutazione, la cella (ii) conta sempre
quelle “prevalentemente urbane” per le quali si registra però un valore “medio”, nella cella (iii)
14
vengono invece conteggiate quelle che mostrano un valore “alto” assieme al carattere
“prevalentemente urbano” e così via.
Ragionando “per righe” sulla base dello Schema 3.1, diviene allora possibile osservare
come l’insieme dei NUTS 3 accomunati dallo stesso grado di ruralità si distribuisce lungo i tre
diversi livelli relativi alla variabile esaminata volta per volta. In questo modo possiamo portare
alla luce eventuali caratteristiche prevalenti all’interno di ciascuna classe di ruralità (PU – SR –
PR) e distinguere così gli aspetti peculiari delle aree rurali a confronto con quelle urbane.
La tipologia di analisi che è appena stata delineata verrà effettuata per l’insieme di
variabili demografiche e del mercato del lavoro che abbiamo elencato in precedenza. A scopo
introduttivo, procediamo inizialmente con la valutazione del livello di reddito per classe di
ruralità.
(...)