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ragazzo possa rendersi protagonista di un comportamento antisociale e,
reiterandolo, diventare “bullo”.
L’interesse per questi temi nasce dalla constatazione del crescente
problema della devianza giovanile e adolescenziale, o forse sarebbe meglio
dire dell’aumento della sanzionabilità dei comportamenti che vedono la
violazione di norme (Berti, 1993).
Inoltre mi sento di accogliere in pieno la prospettiva proposta da alcuni
autori (Berti, 1993; Smith e Mackie, 2002) che considerano la delinquenza un
mezzo con il quale il giovane propone e tenta di comunicare qualcosa di se
agli altri. La considerazione che viene fatta è che la maggior conoscenza,
seppur di un solo tassello, di questo enorme puzzle che è la socializzazione e i
rapporti fra le persone, ci potrebbe aiutare nell’approccio a determinate
problematiche, come cercare di disinnescare tutta una serie di processi che,
come spesso quelli violenti, sono originati da cortocircuiti e cosa modificare
negli ambienti (intesi come gruppi, classi scolastiche, compagnie di amici,
ecc.) per far sì che in una rete di relazioni equilibrate e armoniose favorisca
tutta quella serie di processi che un ragazzo in crescita deve attraversare e
affrontare (definizione stabile di un se, apprendimento scolastico e sviluppo
cognitivo, imparare ad instaurare relazioni stabili e significative, saper gestire
le frustrazioni, ecc. ).
Ulteriore obiettivo, che nel nostro caso è il promotore vero e proprio
della ricerca, è la risoluzione di alcuni dubbi e incongruenze createsi nel
confronto dei risultati dei lavori precedentemente svolti nello stesso filone di
ricerca dallo stesso gruppo di ricercatori e condotti nello specifico da Vallin
(2005) e Santangelo (2006). Anche per quel che riguarda questi argomenti
scenderemo nel dettaglio a tempo debito.
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Mi sembra fondamentale, anche se per alcuni può risultare superfluo,
sottolineare e ribadire la delicatezza dell’età che prendiamo in esame e la
difficoltà che i ragazzi affrontano e attraversano in questa fase. Si noterà nella
ricerca che si parlerà di adolescenza e non preadolescenza, anche se molti
autori e ricercatori (Martinelli, 1975; Eysenck e al., 1986; Petter, 2000), così
come nelle ricerche precedenti, la utilizzano parlando degli anni tra gli 11-12 e
i 13-14. La scelta non è tanto basata sulla bibliografia o particolari posizioni
avanzate da qualche autore, ma dalla riflessione sulla reale rilevanza euristica
della distinzione dell’adolescenza in due periodi differenti. Questa opportunità
di frammentare ulteriormente l’età dello sviluppo non mi è stata chiarita
neanche da scritti che, sulle problematiche pre-adolescenziali e adolescenziali,
vertono in maniera estesa (Petter, 2000) ed in cui, la differenza tra i due
periodi consisterebbe nelle capacità di affrontare o meno tutta una serie di
problematiche (trasformazioni fisiche, sociali, comportamentali, ecc.) che
nella preadolescenza coglierebbero di sorpresa il ragazzo ancora impreparato e
sprovvisto di tutta una serie di strategie e abilità. Nell’adolescenza invece
queste difficoltà diventerebbero più facilmente gestite dall’individuo, che
riesce a mettere ordine e venire infine a capo di queste situazioni, favorito
dallo sviluppo di quelle capacità, sia cognitive che socio-affettive, di cui era
sprovvisto negli anni precedenti (Miller, 1994; Vianello, 2004).
La scelta è stata quella di considerare anche il ragazzo delle medie,
quindi tra gli 11 e i 14 anni, come protagonista dell’adolescenza che accomuna
tutti i giovani sotto il segno di una serie di problematiche, difficoltà e
cambiamenti radicali. L’adolescenza è qui considerata come un continuum
lungo il quale il ragazzo impara ad affrontare e gestire nel modo più efficace
possibile le relazioni interpersonali, le responsabilità dell’adulto, il “nuovo
corpo”, le nuove emozioni e pulsioni.
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Questa tesi cerca di occuparsi, quindi, di un piccolo aspetto e insieme di
dinamiche che si creano nelle classi e nei gruppi, o più semplicemente, tra gli
adolescenti di quell’enorme calderone che è la socializzazione. Torniamo così
al tema da cui sono partito per imbastire queste pagine che fanno da
introduzione alla ricerca: la crescita della persona, la formazione dell’io e del
sé sono il risultato del relazionarsi con il proprio ambiente, fisico e umano che
sia; in pratica della socializzazione e della socialità.
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PARTE 1
CAP 1
SOCIALIZZAZIONE E ADOLESCENZA:
IL GRUPPO DEI PARI
L’inserimento nel gruppo dei pari rappresenta un momento necessario
dello sviluppo dell’adolescente: offre la possibilità di sperimentare nuovi ruoli
in situazione di reciprocità e cooperazione, dall’altro ha una funzione di
socializzazione ai valori e alle richieste del mondo adulto. In linea con questa
posizione sono Campbell e Douvan-Gold (Martinelli, 1975). Anche secondo
M. e C. Sherif (Pombeni, 1993), così come per altri autori (Smith e Mackie,
2002; D’Urso, 2001), il gruppo dei pari costituisce un laboratorio sociale in
cui il ragazzo e la ragazza possono sperimentare scelte e comportamenti
autonomi.
Per questi autori il gruppo di coetanei e il rapportarsi con loro è utile ai
fini dell’allargamento della socializzazione. È un processo che implica il
distacco della vita emotiva dalla famiglia, la definizione di un’identità e una
definizione di sé legittimata dalle risposte di un pubblico significativo; questo
suggerisce che l’inserimento in una realtà gruppale diventa per l’adolescente
l’acquisizione di ulteriore sicurezza del proprio ruolo e dell’identità (Sherif,
1964 in Pombeni, 1993).
Occorre sottolineare come il gruppo dei pari colmi lo spazio
esperienziale tra la famiglia e la società intesa come concetto più ampio del
termine (Bonino, 1977; Petter, 2000). Viene a costituirsi come un ponte tra
10
infanzia e maturità, momento, quest’ultimo, in cui la vita sociale è complessa
al punto tale da non permettere più alla famiglia di garantire all’individuo
l’insieme di condizioni ed esperienze per un inserimento non traumatico nella
società ed una piena esistenza come persona adulta.
Inoltre l’esistenza del gruppo di pari si spiega anche in base ad altre
considerazioni: costituisce il differimento dell’acquisizione di uno stato
adulto. Infatti, la società non offre al ragazzo la possibilità di confrontarsi con
modelli di comportamento e di ruolo perché troppo vasta e dispersiva, d’altra
parte neanche la famiglia può assumersi tale onere perché, invece, troppo
piccola e chiusa. La maturità fisica e intellettuale può così trovare uno spazio
sperimentale e di confronto non soggetto all’autorità parentale. In questo
spazio l’individuo vede sottoposte ad un primo esame le teorie
autonomamente elaborate stabilendo le prime continuità tra credenze e realtà
(Martinelli, 1975; D’Urso, 2001; Pombeni, 1993; Molinari; 2002; Dollard,
1967).
Il gruppo si costituisce anche come ambiente in cui scaricare certe
tensioni parlando di argomenti delicati di cui è difficile parlare con gli adulti
come sesso o sogni per l’avvenire. Contemporaneamente permette la modifica
e la sedimentazione della nuova concezione di prospettiva temporale; infatti i
coetanei permettono al ragazzo di vivere nel presente, mentre gli adulti
considerano l’adolescenza come semplice passaggio, periodo in funzione del
futuro più o meno prossimo. Nonostante tutto, il gruppo viene considerato da
Campbell (Martinelli, 1975) come additivo all’attività della famiglia e non
sostitutivo.
Altra posizione interessante, e a mio parere integrativa a quella di
Campbell, è rappresentata dalla teoria di Coleman che riconosce al gruppo dei
pari lo statuto di microsocietà con valori “antiintellettualistici e antiadulti”
11
(Martinelli, 1975) e costituirebbe l’unico punto di riferimento per
l’adolescente. Il taglio più sociologico dato da Coleman è utile per
comprendere l’utilità del gruppo di coetanei ai fini dello svolgimento di una
sorta di periodo di apprendistato prima di inserirsi nel mondo lavorativo e
produttivo. La visione proposta è forse un po’ limitata e restrittiva, ma
comunque interessante perché fornisce le basi per uno studio del mondo
adolescenziale come microcosmo in cui si costituiscono e formulano norme e
rapporti indipendenti o quantomeno autonomi rispetto al mondo adulto
(Pombeni, 1993; D’Urso, 2001; Dollard, 1997).
Secondo Coleman (Martinelli, 1975), in questa situazione, si verifica un
nuovo stacco tra socializzazione primaria e secondaria, affidata
essenzialmente alla scuola. La scuola si costituisce come istituzione che
globalizza tutte le sue esperienze. Qui passa la maggior parte del suo tempo,
instaura e intrattiene relazioni significative con i coetanei, vive e discute
problemi comuni e trasmette e riceve esperienze e comunicazioni di un certo
tipo. Si verrebbe così a creare una sottocultura con norme e linguaggio propri,
consensuali e condivisi ma differenti da quelli degli adulti. Questi valori
vengono presi dal ragazzo come riferimento per l’elaborazione dell’autostima
e in questi trova le sue gratificazioni.
Un breve appunto va fatto a questo proposito: la realtà italiana è diversa
rispetto a quella statunitense a cui fanno riferimento Coleman e altri autori.
Nel nostro paese i ragazzi passano meno tempo a scuola rispetto ai coetanei
americani; assume così una funzione un po’ diversa, dato che l’adolescente
tende ad inserirsi in altre realtà extrascolastiche di tipo informale come ad
esempio il bar, il quartiere e il vicinato, l’oratorio o altri gruppi quali squadre
sportive e altre attività.
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Al fine di ampliare ulteriormente l’orizzonte sull’argomento della
socializzazione adolescenziale e la questione collegata della costruzione
dell’identità, trovo utile citare, anche se brevemente e in maniera abbastanza
incompleta, il pensiero di Erikson. L’utilità del prendere visione delle ipotesi
di questo autore sta anche nell’appartenenza ad un diverso approccio teorico.
Erikson individua nel conflitto identità - diffusione il perno attorno a
cui ruota la questione adolescenziale: il problema centrale è la ricerca di una
nuova stabilità e continuità personale, un senso di identità dell’Io. Per identità
dell’Io si intende la capacità di integrare le identificazioni infantili con le
capacità sviluppate e le opportunità offerte dai ruoli sociali. Il concetto di
identità implica per Erikson dimensioni diverse, come l’acquisizione di un
concetto maturo di tempo, stabilità positiva nella percezione di sé, assunzione
di un ruolo definito, acquisizione di un’identità occupazionale in rapporto a
capacità e talenti, acquisizione di un’identità sessuale stabile, scelta di modelli
validi di autorità e adesione ad una filosofia, religione o ideologia.
Anche per Erickson, così come per gli altri autori abbondantemente
citati, sono centrali gli stessi fattori e gli stessi passaggi obbligati nello
sviluppo dell’individuo. A variare sono le modalità con cui le varie teorie
disegnano il passaggio dall’infanzia alla vita adulta.
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1. La scuola
La scuola può essere a tutto diritto annoverata tra gli enti di maggiore
socializzazione per i ragazzi, anzi costituisce probabilmente lo spazio più
importante in cui i giovani imparano a vivere insieme. Può essere considerata
come un importante sistema ecologico che comprende al suo interno diverse
condizioni importanti per l’organizzazione di modelli comportamentali e
relazionali diversi (Molinari, 2002).
Anche se, come giustamente afferma Martinelli (1975) e come
precedentemente abbiamo detto, la situazione italiana ha caratteristiche
diverse in quanto complessivamente, e a confronto con le altre nazioni, la
scuola nel nostro paese impegna per meno ore quotidianamente il ragazzo, il
quale partecipa così molto frequentemente ad altre realtà socializzanti come
amici del bar, dell’oratorio, compagni di squadra, vicini di casa, ecc..
Facendo però un calcolo meramente matematico i ragazzi trascorrono
almeno 5 ore al giorno a scuola, questo per sei giorni alla settimana. Questa
quantità di tempo non è paragonabile a nessuna altra riguardante le altre
attività che impegnano gli adolescenti durante la settimana; l’unica realtà che
potrebbe avvicinarsi all’impegno temporale rappresentato dalla scuola è il
gruppo di amici o banda a cui il ragazzo appartiene. Gruppo o banda che è
costituita da altri ragazzi, più o meno della sua età, e che si costituisce in modo
informale tra vicini di casa e giovani residenti nello stesso quartiere. A mio
parere la quantità di tempo che occupa questa realtà, soprattutto se
consideriamo il nostro target di studio che si costituisce di ragazzi tra i 10 e i
14 anni, raramente si avvicina a quella scolastica. Eccezioni possono essere
rappresentate da realtà particolari, quali potrebbero essere alcuni quartieri di
grandi città in cui la vita di strada è una delle poche possibilità di
14
socializzazione per i giovani: ad esempio possiamo portare realtà quali
quartieri poveri di Napoli o Bari.
Tornando alla scuola in quanto spazio di socializzazione, necessita di
alcune osservazioni: innanzitutto si tratta di un gruppo, quello classe, a cui
l’individuo viene assegnato, ovvero non può esercitare alcuna opzione sulla
scelta dei compagni e dei professori; altra questione è la presenza dell’adulto
nella figura del professore. Risulta essere un gruppo formale per la maggior
parte del tempo, creato ai fini di impartire un’istruzione comune a tutti i
ragazzi. La classe assume una serie di regole e valori imposti dal sistema
scuola: bisogna stare seduti, possibilmente non parlare durante le lezioni che
hanno una durata prefissata, con delle pause a scadenze regolari nell’arco della
giornata. La stessa interazione tra compagni ha delle regole dettate dall’essere
seduti in un’aula, ovviamente differenti da una situazione diversa quale
potrebbe essere una partita di pallone al parco.
La stessa interazione con l’adulto segue certe norme: per esempio ci si
alza in piedi quando il professore entra, si risponde in modo adeguato quando
interpellati e ci si rivolge sempre con il “lei”. L’accenno a queste regole e
norme abbastanza banali ci aiuta a capire quanto possa essere complicata la
struttura di un gruppo classe in cui, anche le singole interazioni tra i
componenti, avvengono sotto l’occhio di un adulto, e anche i periodi di
intervallo o del pranzo in mensa vedono la presenza di un supervisore-
controllore che può essere un professore come un operatore scolastico.
Tutto ciò non toglie nulla al ruolo della scuola e in particolare alla
classe in quanto spazio fondamentale di socializzazione. Costituisce
l’ambiente in cui il bambino e poi il ragazzo acquisiscono una serie di norme e
regole e soprattutto imparano a rispettare tutta quella serie di “imposizioni”
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fissate dagli adulti e dalla società, rappresentata in questo caso dal sistema
scuola.
Possiamo prendere in prestito a questo punto l’analisi di Coleman e,
modificandola leggermente, vedere la scuola come una microsocietà con
caratteristiche strutturali e normative peculiari. Afferma inoltre che la
dimensione propria della comunità all’interno della quale si trova la scuola ha
un potente effetto sulle relazioni che si vanno a stabilire tra gli scolari: più la
comunità è piccola tanto più sarà facile che tutti i ragazzi che si conoscono
frequentino lo stesso istituto. È comprensibile quanto una tale situazione, la
scarsa accettazione all’interno dei vari gruppi, costituisca un serio problema,
dato che il ragazzo non ha molte altre occasioni di socializzazione al di fuori
della scuola (Kistensson e Öhlund, 2005).
Il gruppo classe si rivela a tutti gli effetti un laboratorio in cui i soggetti
attuano una serie di comportamenti e atteggiamenti basati su una serie di
credenze proprie di ogni individuo: il ragazzo sperimenta, trova i limiti delle
sue teorie e delle norme sociali. Incontra il sistema punitivo con una sorta di
devianza secondaria, parafrasando Lemert, in cui la violazione di regole porta
ad una sanzione pubblica e riconosciuta, diversamente da quanto è finora
avvenuto nel sistema famiglia, in cui la trasgressione normativa veniva punita
o meno, ma restava comunque segreta e interna alle esperienze familiari.
Nella scuola la trasgressione e la conseguente sanzione diventa di
dominio pubblico e a questo si associa il rischio di venire etichettati per il
gesto compiuto. Questo è un fenomeno descritto sia dalla Labelling Theory
(Lemert, 1981; Salvini, 1998, Berti, 1993) che da Goffman (2003), secondo
cui il compimento, anche solo per una singola volta, di un comportamento,
anche socialmente accettato, porta l’individuo ad essere classificato “tout
court” come agente di quel tipo di condotta: ad esempio una reazione violenta
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ad un’osservazione fatta dall’insegnante potrebbe portare il ragazzo ad essere
riconosciuto in quanto violento e aggressivo, anche se si è trattato di un gesto
isolato.
A dire la verità è improbabile che un solo gesto costituisca fonte di
etichettamento per l’intera esistenza, è certo però che anche un solo episodio
può comportare nella visione altrui una distorsione della personalità
dell’individuo in questione.
Ad una visione categorizzante e stereotipizzata successiva ad un
processo di etichettamento il soggetto tende a rispondere in modo da rispettare
quella determinata aspettativa. Un ragazzo individuato dagli altri come
aggressivo tenderà a comportarsi, almeno nell’ambiente in cui è avvenuto il
processo attributivo di quella determinata etichetta, nel rispetto di quel ruolo.
Lo stesso accade per chi, all’opposto, viene classificato come divertente o
intelligente: tenderà a sua volta a non deludere le aspettative altrui.
Se a questo processo, per certi versi assurdo, aggiungiamo il fatto che
può avvenire nel periodo critico per la costruzione dell’identità, qual è
l’adolescenza, si può ben comprendere la delicatezza del vivere in un ambiente
normalizzato e sotto attento controllo come la scuola. Inoltre all’interno del
gruppo classe intervengono tutta quella serie di processi propri dei rapporti
intragruppi e intergruppi, acquisizione di ruolo e di status.
Altri fattori che non tratteremo, ma che possono essere presi in
considerazione per meglio riflettere sulle dinamiche di gruppo all’interno delle
scuole, possono essere la dimensione e l’organizzazione degli spazi. Le
dimensioni della scuola non sembrano essere una variabile che influenzi le
prestazioni o i livelli di attenzione; se invece ci si sofferma sulla valutazione
delle abilità sociali allora, con l’ampiezza della scuola e del gruppo classe si
possono trovare importanti correlazioni.
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Ad esempio, uno studio su bambini di La Freniere e Sroufe (1985)
citato da Molinari (2002), sottolinea la fatica nel rispetto delle consegne e
comportamenti di disturbo da parte dei soggetti in cui era stato evidenziato un
attaccamento di tipo ansioso con la madre. L’organizzazione degli spazi
all’interno dell’aula, che a partire dalle elementari diventa molto più
strutturato, condiziona la formazione della struttura relazionale del gruppo.
Più in generale, e a fini conclusivi, le varie situazioni che si verificano
in questo ambiente consentono ai membri la possibilità di apprendere le
competenze necessarie a vivere nel mondo relazionale, in cui i valori e le
norme non sono sempre di facile interpretazione e di conseguenza facilmente
trasgredibili. La difficoltà aumenta se pensiamo all’individuo socializzato
come essere alla continua ricerca di approvazione sociale e riconoscimento e
accettazione (Molinari, 2002).
Molinari nello stesso volume afferma che non è sufficiente la scarsa
accettazione per definire un soggetto “rifiutato”, ma occorre valutare strategie
e posizioni che i bambini adottano per fronteggiare le diverse situazioni.
Questo comporta un ulteriore allargamento di prospettiva verso le condizioni
ecologiche che concorrono a scatenare o meno episodi non adattivi o
maladattivi. Ne risulta una concezione ancora più vasta in cui, ovviamente, il
bambino, e l’individuo in genere, non occupa una posizione immutabile, ma
risente del complesso delle condizioni socio-culturali e ambientali.
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CAP 2
L’INTERAZIONE NEI E TRA I GRUPPI
“Un gruppo sociale è costituito da un certo numero di individui che
interagiscono l’uno con l’altro con regolarità. Questa regolarità di interazione
tiene insieme i partecipanti, dando vita a una distinta unità con una propria
complessiva identità sociale. I membri di un gruppo si aspettano determinate
forme di comportamento l’uno dall’altro, che non sono invece richieste ai non
appartenenti” ( Palmonari, 2002).
Ai fini della ricerca che è il cuore del presente lavoro, è importante se
non fondamentale prendere in considerazione tutta quella serie di fenomeni e
processi che si verificano quando più persone vengono messe insieme a
formare un gruppo. Quello che emerge da tutti gli studi e le ricerche è la
presenza di dinamiche al contempo stabili, in quanto accadono quasi sempre, e
variabili, nel senso che variano i modi e i coinvolgimenti peculiarmente ad
ogni singola situazione. La base da cui partire per comprendere quest’insieme
di dinamismi è la legge proposta dalla Gestalt in ambito percettivo: “il tutto è
qualcosa di diverso dalla somma delle singole parti”; il gruppo è qualcosa di
diverso dalla somma dei singoli componenti.
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1. Processi intragruppo
In sociologia si utilizza ancora, anche se risulta essere schematica, la
differenza tra gruppi primari e secondari. I primi sono insiemi di persone che
interagiscono direttamente e sono legate da vincoli di natura emotiva.
Alcuni esempi sono la famiglia e i gruppi di amici. I gruppi secondari
sono invece formati da persone che hanno rapporti più o meno frequenti ma
di tipo prevalentemente impersonale, in quanto determinati da soli scopi
pratici.
A definire lo statuto sociopsicologico dei gruppi fu Kurt Lewin, già
ampiamente citato in precedenza.
L’autore cita la psicologia della Gestalt in quanto ha ipotizzato e
dimostrato che la totalità è diversa dall’insieme delle parti e che questa “tutto”
è una totalità dinamica che conferisce al gruppo caratteristiche diverse dalla
somma dei singoli elementi (Lewin, 1972; Lewin, 1972 b).
Ne consegue una definizione di gruppo basata sul concetto di
interdipendenza dei suoi membri.
Il concetto di interdipendenza spazza dal campo la definizione di
gruppo come insieme di individui che si assomigliano: “un gruppo è definito
al meglio come una totalità dinamica basata sull’interdipendenza invece che
sulla somiglianza” (Lewin, 1972; Palmonari, 2002).
Le dinamiche concernenti la vita dei gruppi che andremo di seguito a
presentare sono stati individuati e studiati prevalentemente dalla prima
generazione di allievi dello stesso Lewin e sono gli stessi che continuano ad
essere fonte e base di studio.