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certa distanza tra le prescrizioni suggerite dalla teoria economica e le proposte concrete
avanzata dagli economisti, per non parlare delle decisioni politiche finali. Ciò è avvenuto
ancor di più negli ultimi decenni dove ai considerevoli progressi fatti negli studi di economia
pubblica si sono affiancati radicali trasformazioni nel settore pubblico e, in special modo, nel
campo industriale da questo gestito o influenzato.
E’ importante però prima di introdurre i contenuti e i metodi della politica industriale porsi
due problemi sulla politica pubblica. Innanzitutto dobbiamo chiederci quali scelte o attività
sono delegate all’autorità pubblica anziché al mercato e perché. Fino a non molti anni orsono
la dimensione e le competenze dello stato non erano poste in discussione, almeno in Italia e in
Europa. L’area pubblica si estendeva progressivamente e l’analisi sul senso dei confini tra
stato e mercato non era molto sviluppata. Molto è cambiato nell’ultimo quarto di secolo: una
vera rivoluzione nella riflessione teorica e nell’azione concreta ha investito criticamente il
ruolo dello stato e condotto al suo ridimensionamento.
Secondo una visione oggi piuttosto condivisa è opportuno lasciare più spazio alle scelte
individuali e al mercato, fondamenti essenziali di una società libera ed efficiente; lo stato, la
sua dimensione e organizzazione, si giustificano solo se aggiungono efficienza al sistema
economico e se assolvono in modo trasparente e democratico il proprio ruolo redistributivo. Il
secondo interrogativo riguarda il modo in cui hanno luogo le scelte pubbliche e private, ossia
se e come le scelte pubbliche si caratterizzano in modo diverso da quelle private. Il terreno
dell’efficienza sarebbe indubbiamente limitativo per le scelte pubbliche se si fondassero le
decisioni sulle stesse dimensioni di quelle private. Le diversità nelle risposte a questi due
interrogativi trae origine dall’interpretazione data a tre diversi problemi. Il primo riguarda la
separabilità tra obiettivi di efficienza e di redistribuzione. Da Wicksell in poi il filone
principale dell’economia pubblica, pur consapevole che in concreto gran parte delle politiche
pubbliche hanno implicazioni sia di efficienza che redistributive, ritiene possibile ed
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appropriato tenere separati i due aspetti, non solo a fini analitici. E’ opportuno tenere presente
che il concetto di efficienza considerato è quello statico-paretiano su cui si regge tutta
l’economia del benessere. Vi è per contro chi ritiene che questa separabilità non esista né
quindi sia appropriata, si ritiene inoltre che il concetto di efficienza di Pareto sia assai
riduttivo in quanto escluse le dimensioni dinamiche. Il secondo problema riguarda la capacità
del mercato e dello stato di indurre risultati efficienti. Gli economisti da lungo tempo hanno
sviluppato la teoria dei fallimenti di mercato, proponendo ad essi rimedi diversi. Per contro è
mancata fino a tempi più recenti una precisa individuazione e analisi dei fallimenti dello stato,
così che adesso veniva riconosciuto un ampio suppletivo, attribuendogli obiettivi, capacità e
informazioni che la recente teoria economica non è più disposta a concedere. La delimitazione
degli spazi lasciati alle due istituzioni intorno alle quali ruota l’organizzazione dell’attività
economica, ovvero il mercato e lo stato, dipende quindi moltissimo dai rispettivi fallimenti.
Sebbene la ritirata dello stato da ambiti di attività e di scelte che in decenni precedenti gli
erano stati attribuiti dipenda molto dall’evoluzione degli interessi e dai vincoli economici
concreti, oltre che dalla politica e dalla cultura del tempo, indubbiamente la teoria economica
ha dato un robusto contributo a questa evoluzione. Vi è infine un terzo problema collegato
all’analisi dei fallimenti. L’accettazione di una forte presenza dello stato nell’economia si
accompagnava ad una visione etica dello stesso: si supponeva che, attraverso qualche
processo democratico, lo stato fosse in grado di rappresentare una funzione collettiva del
benessere pubblico e che i soggetti che operano nello stato si comportassero sempre
nell’interesse dello stesso. L’analisi che ha tratto origine dai teoremi di K. Arrow e A. Sen ha
molto ridimensionato la possibilità di utilizzare questo tipo di funzione per le scelte di politica
economica. Inoltre degli studi sui comportamenti dei soggetti pubblici hanno mostrato quanto
gli interessi privati possano influenzare le scelte pubbliche. Vi è consenso unanime tra gli
economisti sull’opportunità di intervento pubblico quando si presentano fallimenti di mercato
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per la presenza di beni pubblici, di esternalità, di monopolio. Questa teoria definisce lo spazio
minimo della politica economica. Se la politica economica fosse solo un correttivo di
fallimenti del mercato i suoi sconfini sarebbero assai ristretti. Vi sono in realtà anche altre
ragioni che giustificano un intervento pubblico più esteso.
Per esempio abbiamo da un lato i grandi interventi di spesa nella sanità, nella sicurezza
sociale, nella creazione di occupazione, nello stato e dall’altro a quelli volti a proibire o
regolamentare alcune attività eticamente sensibili, quali ad esempio la vendita di droghe,
organi, o la prostituzione. Questi interventi si basano su un argomento di natura etica secondo
cui lo stato, in quanto rappresentante di tutti i cittadini, interviene nel mercato, se necessario
anche a scapito dell’efficienza. Sanità, pensioni ed istruzione sono beni complessi, non hanno
quindi la caratteristica della non escludibilità e i costi marginali di produzione non sempre
sono bassi: non sono quindi beni pubblici. Danno però luogo a forti esternalità quali la
sicurezza o l’istruzione della popolazione, ma soprattutto la natura pubblica dell’offerta
consente una distribuzione dei servizi più diffusa ed equa. Vi è infine spazio per un terzo tipo
d’intervento: l’attivazione di regole, leggi, organizzazioni ed incentivi, in una parola di
istituzioni capaci di generare nuovi mercati o di migliorarne il funzionamento. Il riferimento
teorico più appropriato per interpretare la politica pubblica volta a modificare le istituzioni
economiche è l’istituzionalismo: “insitutions are the rules of the game in a society or, more
formally, are the humanly devised constraints that shape human interections. In consequence
they structure incentives in humane exchange, whether political, social, or economic”. Un
esempio abbastanza comune di attivazione delle istituzioni nel nostro paese riguarda la
regolazione degli incentivi. Si considerino le politiche regionali, e in particolare gli incentivi
di varia natura per lo sviluppo economico delle aree depresse. Il diseguale grado di sviluppo
tra diverse aree all’interno di un singolo paese non deriva di per sé da un cattivo
funzionamento del mercato: diverse dotazioni di risorse (lavoro, capitale umano,
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imprenditorialità), attitudini all’attività economica e istituzioni possono dar luogo a risultati
anche molto difformi. L’attivazione di incentivi quali la detassazione dei profitti investiti, la
fiscalizzazione degli oneri sociali o contributi in conto capitale modificano le convenienze
relative introducendo mutamenti istituzionali. Questi interventi hanno un contenuto
redistributivo, comportando un trasferimento di reddito dalle aree più sviluppate a quelle
meno sviluppate; se hanno successo consentono però di creare maggiore surplus di cui
beneficia in un periodo più lontano tutto il sistema economico.
L’estensione dell’intervento normativo dello stato non trova l’assenso di tutti gli economisti:
in particolare è criticata dai contrattualisti. Secondo J.M.Buchanan e Von Hayek lo stato può
intervenire per far rispettare le leggi e nei casi di fallimenti del mercato; sono invece contrari a
interventi più estesi, preferendo eventualmente delegarli a raggruppamenti sociali più ristretti
ed omogenei dello stato come le comunità locali, le associazioni, i gruppi d’interesse, ecc. vi
sono due argomenti a sostegno della loro posizione: le politiche che hanno un contenuto
redistributivo, se non accettato dalle parti danneggiate, costituiscono una violazione dei loro
diritti. Inoltre l’analisi positiva dello stato mostra che l’intervento pubblico nasconde spesso
interessi di parte dietro apparenti motivazioni di benessere collettivo. Secondo alcuni autori
ogni decisione pubblica di produzione di beni pubblici o di ripartizione dell’economie esterne
ha motivazioni intrinsecamente redistributive favorendo alcuni soggetti più di altri. Essi
ritengono ineliminabili gli effetti redistributivi, così che necessaria una costante mediazione
politica che equilibri i vari interessi coinvolti. Il secondo argomento è invece riconducibile
alla teoria dei fallimenti dello stato che ha avuto un effetto assai più robusto sulla ritirata dello
stato dall’economia. La teoria dei fallimenti dello stato afferma che esso non ha né le
intenzioni né le capacità di perseguire l’interesse collettivo e ne deduce che bisogna ridurre la
sua presenza. Lo stato non avrebbe intenzione o comunque non riuscirebbe ad esprimere un
interesse collettivo in quanto i gruppi d’interesse combattono per ottenere con vari strumenti
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(per es. lobbying e partecipazione diretta alla vita politica), diritti di proprietà su attività
produttive, limiti ai diritti altrui, risorse dal bilancio pubblico. La regulatory capture, il rent
seeking e la teoria economica della burocrazia sono le forme in cui si manifestano questi tipi
di azioni. Con il primo termine s’intende il fatto che l’attività di regolazione – rappresentata
da sussidi, limiti all’entrate, fissazione di prezzi, di standard, ecc – è promossa e disegnata
dagli interessi delle imprese. La teoria del rent seeking nega l’interesse collettivo dei policy
maker, burocrati e politici, la cui azione sarebbe ispirata da interessi personali. Utilizzando la
loro posizione, possono garantire vantaggi o rendite monopolistiche a privati tramite
attivazioni di leggi concessioni e autorizzazioni. Per ottenere questo vantaggio i privati
pagano un prezzo a burocrati e politici, trasferendo loro parte della rendita, e sostengono costi
di transazione che rappresentano una perdita secca. Saranno però i cittadini i veri perdenti in
questo gioco di ripartizione del surplus a causa delle loro scarse possibilità di controllo. Anche
la teoria economica della burocrazia prevede una distorsione del comportamento degli
apparati burocratici rispetti agli interessi collettivi in quanto il burocrate ottiene un beneficio
privato tramite il controllo del proprio ufficio. Questi benefici sono funzione dell’autonomia
di cui riesce a godere il burocrate e dell’ammontare delle risorse che gestisce, così che gli
apparati burocratici hanno una propensione a spendere più di quanto sarebbe socialmente
efficiente. Analogamente a quanto esposto vale per le imprese pubbliche e in particolare per
quelle di proprietà pubblica che vendono beni e servizi sul mercato. Queste teorie hanno il
merito di far luce su aspetti importanti sull’effettivo operare dello stato, dando un sostegno
teorico alla politica di riduzione della presenza pubblica attraverso strumenti quali la
privatizzazione, la deregolamentazione e la riduzione degli apparati burocratici. Tuttavia
considerare lo stato come un oggetto di cattura sempre guidato da interessi privati e visti i
benefici che esso apporta alla società, sembra forse eccessivo. Molte delle teorie che
giustificano l’intervento pubblico si basano non solo sull’ipotesi che lo stato sia un soggetto
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interessato al bene pubblico ma anche che sia dotato di informazioni e competenze superiori
al mercato. Nella realtà lo stato è forse in grado di raccogliere ed elaborare le informazioni
necessarie per correggere i fallimenti del mercato ma questo può avvenire a costi superiori ai
benefici dell’intervento.
La vastissima letteratura che negli ultimi vent’anni si è sviluppata utilizzando il modello
principale-agente con riguardo alle organizzazioni pubbliche conferma la complessità
dell’argomento. Il rapporto principale-agente nella sua forma più semplificata è a tre stadi:
cittadini-politici-burocrati o manager. L’accesso dei cittadini alle informazioni sulle
amministrazioni e sulle imprese pubbliche è limitatissimo e il loro potere di intervento tramite
il meccanismo elettorale è modesto. I politici hanno pure difficoltà ad avere informazioni dai
loro agenti, il più delle volte non sono interessati a fissare dei controlli di efficienza e talvolta
colludono con burocrati. Questi ultimi sono i veri detentori delle informazioni, che spesso non
hanno interesse a rilevare ai loro principali poiché consente loro rendite che vengono ripartite
tra i membri dell’organizzazione. Non essendo constatato quindi che lo stato abbia
informazioni superiori non è quindi nemmeno opportuno che lo stato si sostituisca ai privati in
attività che il mercato è in grado di organizzare. Può invece intervenire dove i capitali privati
non entrano, o sono insufficienti; la giustificazione dell’intervento pubblico in questi ambiti
sta nella possibilità di considerare un orizzonte temporale molto ampio e nella presenza di
forti economie esterne.
E’ da sottolineare infine che qualunque sia la dimensione politica dell’intervento pubblico,
questo non deve mai raggiungere estreme rappresentazioni di politica economica quali sono la
teoria platonica dello stato etico o quella marxiana, che giace nell’estremo opposto, secondo
cui lo stato è un agente del capitale. La politica economica deve essere inoltre portatrice degli
interessi di tutti al fine di giungere ad una equidistribuzione delle risorse, cercando così di
superare le analisi purtroppo non confortanti di A. Gerschenkron che mostra come la politica
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industriale nella storia economica europea sia stata spesso il risultato di azioni di gruppi di
pressione o di obiettivi di lungo periodo perseguiti da minoranze.
Paragrafo 2: La politica industriale
Nel passare della politica economica in generale all’analisi della politica industriale
s’incontrano, già sin dall’inizio, difficoltà nel trovare una definizione largamente accettata di
cosa s’intenda per essa. La maggior parte degli economisti accetterebbe di definire la politica
industriale come un ventaglio piuttosto esteso di interventi pubblici, con strumenti differenti
da quelli macroeconomici, aventi come obiettivo quello di migliorare la performance del
sistema industriale. Questa semplice definizione però non crea accordo su almeno due punti:
se l’obiettivo dell’intervento vada definito a livello generale (benessere sociale inteso come
surplus dei produttori più surplus dei consumatori) oppure debba riferirsi ad altra grandezza,
di equilibrio parziale o di altra natura, quali ad esempio la competitività internazionale; inoltre
non vi è nemmeno accordo se lo stato debba intervenire con politiche selettive o generali.
Sorvolando il primo problema che esula da questa trattazione in quanto coinvolge decisioni di
natura macroeconomica, passiamo all’analisi del secondo problema. I fautori di forme
interventiste di politica industriale sono anche a favore di politiche generali (ad es. politiche
per la ricerca di base, per la concorrenza, ecc) ma non le considerano parte della politica
industriale perché non s’individua un ruolo attivo, trainante e di indirizzo dello stato. Le
politiche generali, definite anche politiche per l’industria, secondo questi fautori farebbero in
realtà parte dei compiti usuali o istituzionali dello stato. Totalmente diverso è il riferimento
alle politiche selettive, intese come piani di intervento mirati a uno o più specifici settori
produttivi per svilupparlo/rafforzarlo o proteggerlo nei confronti di dinamiche esterne
(rispettivamente politica aggressiva e politica difensiva). In ambedue i casi, a fronte di risorse