IV
assunti. Questi principi costituiscono l’oggetto del primo Accordo di Basilea del 1988,
che si caratterizza essenzialmente per la relativa semplicità dei criteri da rispettare e la
facilità di applicazione della normativa, che hanno consentito una sua rapida
condivisione e adozione a livello mondiale. Basilea I stabilisce il requisito patrimoniale
minimo dell’8 per cento che ancor oggi le banche devono rispettare al fine di garantire
adeguata copertura al rischio di credito.
L’eccessiva standardizzazione e la mancata considerazione di altre tipologie di rischio,
insieme alla scarsa differenziazione degli emittenti in base alla loro effettiva rischiosità
e ad altri ulteriori limiti, hanno messo in luce il bisogno di una rivisitazione delle regole
in vigore a livello regolamentare. Alla fine del 1998 il Comitato di Basilea ha così
cominciato i lavori per la definizione di un nuovo schema di vigilanza in materia di
adeguatezza patrimoniale, al fine di aumentare il grado di sensibilità delle banche nella
misurazione e nel controllo del rischio creditizio, di promuovere l’adozione di modelli
di valutazione più adeguati e di stabilire regole capaci di contemperare le esigenze di
prudenzialità con quelle di concorrenzialità, abbandonando pertanto l’approccio rigido e
indifferenziato di Basilea I. L’ultima parte del primo capitolo espone dunque il processo
che ha portato alla fissazione definitiva, nel giugno 2004, del Nuovo Accordo di Basilea
sul Capitale (denominato anche “Basilea 2”), presentandone dettagliatamente le
previsioni e i procedimenti di attuazione.
I nuovi principi regolamentari entreranno in vigore entro la fine di quest’anno (2006):
ciò fa capire la grande importanza e la contestualità dell’argomento, che rappresenta per
molte banche una vera e propria rivoluzione del loro modus operandi. Lo schema di
Basilea 2 prevede un’articolazione in tre grandi aree di indagine (i cosiddetti “tre
pilastri”), che vanno a considerare rispettivamente i requisiti minimi di capitale, il
controllo prudenziale degli organi di vigilanza e la disciplina di mercato. Cruciale per il
presente lavoro risulta essere il primo dei tre pilastri, nel quale viene prospettata alle
banche l’adozione di sistemi per la misurazione e il controllo del rischio di credito
basati sull’utilizzo dello strumento del rating, fornendo tre approcci alternativi
(standard, IRB di base, IRB avanzato).
Obiettivo del proseguo della ricerca è quindi quello di focalizzare l’attenzione sui
modelli di rating, per indagare la loro importanza a livello operativo e le opportunità che
la loro applicazione comporta all’interno della gestione complessiva di una banca. Nel
secondo capitolo viene affrontato il concetto di rating a livello generale e viene esposta
l’attività svolta dalle agenzie specializzate, concludendo con una comparazione tra i
Vrating prodotti dalle agencies e quelli elaborati internamente alle banche, caldeggiati dai
nuovi principi regolamentari.
Il terzo capitolo mette in luce anzitutto le motivazioni che stanno all’origine dei sistemi
di rating interni, evidenziando la loro rilevanza nel costituire un primo passo verso lo
sviluppo e l’adozione in futuro di più sofisticati portfolio credit risk models. Viene
quindi proposta una classificazione dei principali modelli per la misurazione del rischio
creditizio, analizzando in particolare le principali metodologie disponibili a livello
commerciale. Il passo successivo presenta le fasi fondamentali che contraddistinguono
lo sviluppo e la costruzione di un sistema di rating interni, esaminando nello specifico
gli elementi che devono essere stimati, le diverse tecniche di analisi e i differenti aspetti
quantitativi e qualitativi che devono essere considerati per arrivare all’elaborazione
definitiva del rating e alla sua accettazione come indicatore efficace del merito
creditizio.
Allo scopo di comprendere le logiche e i criteri in base ai quali una banca può
concretamente elaborare un proprio sistema di rating interni, il capitolo conclusivo
viene dedicato a un’approfondita indagine sui principi e i meccanismi che caratterizzano
i modelli di rating interni di una delle principali realtà bancarie del nostro Paese,
Sanpaolo IMI.
In particolare, lo studio verte in primis sull’evoluzione delle regole alla base del
processo creditizio verso approcci maggiormente accurati e sensibili nel ponderare i
rischi sottostanti alle esposizioni creditizie assunte. Viene pertanto presentato il progetto
di credit risk management condotto in Sanpaolo, iniziato già dai primi anni Novanta,
che ha portato alla fine del 1998 a una prima definizione del sistema di gestione del
credito, in cui si delineava lo schema concettuale e i procedimenti su cui si sarebbe
basata l’attuale struttura, presupponendo già l’adozione dei rating come strumento
funzionale al miglioramento dell’efficienza e alla razionalizzazione delle valutazioni
inerenti il rischio delle controparti affidate.
Viene così esposto l’attuale schema del nuovo processo del credito, basato
sull’aggiornamento e la ridefinizione organica dei principi su cui è imperniata la
gestione complessiva del credito in Sanpaolo IMI, alla luce del recepimento a livello
aziendale della normativa regolamentare fissata da Basilea 2. Specificatamente, viene
proposta un’analisi destrutturata e comparata riguardante il procedimento di
concessione del credito e la successiva fase di gestione nei due fondamentali segmenti
in cui viene suddivisa la clientela (imprese e small business), sottolineando la
VI
complementarità dello strumento del rating rispetto alla componente umana nella
determinazione delle decisioni finali relative all’affidamento di una controparte.
1CAPITOLO I: IL RISCHIO DI CREDITO E LA
REGOLAMENTAZIONE DEL CAPITALE.
1. Il concetto di rischio nell’attività bancaria.
A partire dagli anni Settanta del secolo scorso il sistema bancario dei Paesi
economicamente più sviluppati è stato interessato da un’intensa evoluzione. Questo
sviluppo ha riguardato l’oggetto dell’attività bancaria tipica, che dalla semplice raccolta
di risparmio e concessione di credito si è esteso verso nuove forme di intermediazione
1
,
la struttura organizzativa e dimensionale degli operatori, interessati da un vasto processo
di concentrazione che punta alla ricerca di una maggior competitività, le tipologie di
prodotti offerti e le relative politiche distributive (con l’utilizzo e la diffusione di nuovi
canali: remote banking, internet, telefonia fissa e mobile). Tale progresso è stato
accompagnato da un perfezionamento dei meccanismi di governance
2
che regolano la
gestione di una banca e le relazioni che si instaurano con i vari soggetti coinvolti nel suo
funzionamento e da un continuo affinamento delle strategie e delle soluzioni adottate
per fronteggiare i rischi insiti nell’attività bancaria. Le innovazioni che hanno investito
le banche nel loro complesso possono, pertanto, essere classificate secondo cinque
tendenze, che si presentano fra loro correlate:
1
In Italia il concetto è espresso a livello normativo dall’art. 10 D. Lgs. 385/1993, comma n. 1: “La
raccolta di risparmio tra il pubblico e l’esercizio del credito costituiscono l’attività bancaria” e comma n.
3: “Le banche esercitano, oltre all’attività bancaria, ogni altra attività finanziaria, secondo la disciplina
propria di ciascuna, nonché attività connesse o strumentali. […]”.
2
Sembra opportuno ricordare che, sempre nel nostro Paese, alla metà del 1999, sulla base di un’iniziativa
promossa da Borsa Italiana, venne ultimata la redazione di un Codice di Autodisciplina in materia di
corporate governance, meglio noto con il nome di “Codice Preda”. Questo documento mira a stabilire per
tutte le società quotate italiane (tra le quali figurano molte banche) un modello di governo chiaro e
rigoroso, in grado di costituire uno schema di best practice che possa essere al contempo adattato alle
peculiarità specifiche e possa essere recepito in modo spontaneo e facoltativo, pur prevedendo degli
obblighi informativi relativi alla struttura organizzativa e alla piena o parziale adozione delle disposizioni
del Codice stesso (Isaia E., Il mercato azionario: aspetti generali, in Damilano M., De Vincentiis P., Isaia
E., Pia P. (2002), Il mercato azionario, Torino, Giappichelli, pag. 36).
2Į) un’accresciuta volatilità delle variabili finanziarie e macroeconomiche, generata dalla
crescente globalizzazione dei mercati finanziari e dalla mancanza di coordinamento
reale nelle politiche dei Paesi delle principali aree valutarie;
ȕ) una progressiva disintermediazione dei sistemi finanziari, che ha visto i risparmiatori
orientarsi verso forme di impiego a maggiore rendimento atteso e le imprese sempre più
favorevoli al ricorso diretto al mercato dei capitali
3
;
Ȗ) una più significativa attenzione alla stabilità del sistema finanziario da parte delle
autorità di vigilanza, attraverso il graduale abbandono di politiche di tipo strutturale
(che miravano a definire analiticamente le scelte aziendali consentite in maniera tale da
influenzare direttamente la struttura del sistema) e l’introduzione di un controllo di tipo
prudenziale (incentrato sul rispetto di un insieme di criteri di comportamento e gestione
finalizzati al controllo e alla delimitazione dei rischi assunti dalle istituzioni finanziarie
e sulla attuazione di opportuni strumenti di vigilanza quali i coefficienti di bilancio,
l’adeguatezza patrimoniale, i requisiti di onorabilità e professionalità per i soggetti
adibiti a funzioni di responsabilità, direzione e controllo). La ragione fondamentale
risiede nell’esigenza di aumentare la competitività delle banche, al fine di migliorarne
l’efficienza e contemporaneamente di rafforzare la qualità del loro business (in questa
ottica devono essere viste la privatizzazione della proprietà delle principali istituzioni
creditizie dell’Europa continentale e le diverse fusioni e aggregazioni avvenute negli
ultimi anni
4
);
3
Negli ultimi anni si è assistito a un crescente orientamento ai mercati (che da tempo caratterizza i Paesi
anglosassoni) da parte dei sistemi finanziari centrati sugli intermediari creditizi (tipici dell’Europa
continentale); tale fenomeno rivela una propensione sempre più intensa verso una relazione tra mercati e
intermediari non solo di concorrenza, ma anche di complementarità, che implica inoltre una graduale
crescita e diversificazione delle funzioni di intermediazione mobiliare (cfr. Forestieri G., Mottura P.,
(1998) Il sistema finanziario, Milano, Egea, par. 6.1.6, pag. 212 e seguenti).
4
In Italia il processo di graduale privatizzazione degli assetti proprietari delle banche nazionali è stato
prospettato a livello normativo dalla legge 30 luglio 1990 n. 218, più comunemente conosciuta come
“legge Amato-Carli” (cfr. nota n. 8 a pag. 5). L’obiettivo di incentivare la concentrazione del sistema
bancario viene esplicitamente considerato nella legge n. 461 del 23 dicembre 1998 (cd. “legge Ciampi”),
che, insieme al successivo decreto legislativo n. 153 del 17 maggio 1999, aveva introdotto una serie di
sgravi fiscali volti ad agevolare le banche che compivano operazioni di concentrazione, acquisizione,
fusione e ristrutturazione. Le facilitazioni previste si sono tradotte principalmente in una riduzione
dell’Irpeg al 12,5 per cento per cinque anni a decorrere dalla data dell’operazione. Il periodo di
applicazione di tali agevolazioni, il cui termine era stato originariamente previsto per il 2004, è stato
sospeso nell’aprile del 2000. In quest’arco di tempo sono state effettuate 76 operazioni di concentrazione
3į) una maggiore internazionalizzazione dei mercati finanziari, favorita dal processo di
liberalizzazione dei mercati dei capitali, completatosi in Italia solo tra la fine degli anni
Ottanta e i primi anni Novanta, soprattutto grazie al recepimento delle due direttive cd.
“Eurosim” (direttiva del 15 marzo 1993 n. 93/6 e direttiva del 10 maggio 1993 n.
93/22). La disciplina comunitaria ha progressivamente delineato i presupposti per la
creazione di un mercato unico europeo dei servizi mobiliari, avente alla base non il
modello del mercato regolamentato pubblico, ma quello del mercato quale
organizzazione frutto dell’iniziativa imprenditoriale
5
, facente capo essenzialmente agli
e l’ammontare complessivo degli aiuti tecnici ricevuti dagli istituti di credito coinvolti è stato stimato pari
a 2,767 miliardi di euro. Nel dicembre del 2001 la Direzione generale della Concorrenza della
Commissione Europea, allora guidata dal prof. Mario Monti, aveva però condannato la legge Ciampi, con
l’accusa di essere portatrice di aiuti di Stato al settore bancario. Il Governo italiano ha fatto ricorso alla
Corte di Giustizia dell’U.E. contro la bocciatura, sostenendo che gli sgravi fiscali non costituivano aiuti di
Stato in quanto non avevano dato luogo a un trasferimento di risorse pubbliche, inoltre presentavano un
carattere generale, non selettivo, e quindi non pregiudicavano gli scambi tra i Paesi membri e non
falsavano la concorrenza. I giudici comunitari a fine dicembre 2005 hanno respinto le osservazioni
addotte dall’Italia, confermando l’ammonimento iniziale della Commissione europea. In primo luogo
hanno sentenziato che una misura fiscale che non implichi un trasferimento di risorse statali, ma che
ponga comunque i beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole rispetto agli altri contribuenti
debba considerarsi pur sempre un aiuto di Stato ai sensi del Trattato Europeo. Hanno poi ritenuto che gli
sgravi fiscali siano delle esenzioni concesse attraverso risorse pubbliche e quindi configurino
ulteriormente un aiuto statale. Inoltre le agevolazioni previste dalla normativa in questione, pur
riguardando l’intero comparto bancario, si applicano alle aziende che svolgono determinate operazioni
bancarie ed escludono quelle operanti in altri settori economici: sono quindi da considerarsi selettive e, ai
sensi del Trattato, vietate. Le autorità giudiziarie europee hanno anche ritenuto che le facilitazioni
riservate alle banche italiane da tale legge abbiano reso più difficile l’inserimento nel nostro contesto di
operatori di altri Stati membri. La Corte europea ha infine ribadito che le misure fiscali possono
influenzare gli scambi tra Stati dell’Unione Europea e quindi distorcere la concorrenza. In seguito a
questa pronuncia si prospetta dunque per le banche italiane la necessaria restituzione all’Erario delle
somme ricevute a beneficio delle operazioni concluse tra il 1998 e il 2000 (cfr. Brivio E., Bruxelles
boccia la legge Ciampi, articolo tratto dal quotidiano “Il Sole 24 Ore” del 16 dicembre 2005).
5
L’esperienza dell’Italia in tal senso è significativa. Il nostro Paese, caratterizzato alla fine dell’Ottocento
da un mercato con un ordinamento frammentario e privo di una disciplina organica e generale, aveva
recepito il modello francese della Borsa Valori, prevedendo nel Codice di Commercio del 1865
un’organizzazione pubblica della Borsa (istituita con decreto reale) e un monopolio delle contrattazioni in
capo agli agenti di cambio, pubblici mediatori nominati anch’essi con decreto reale e soggetti alla
vigilanza da parte delle Camere di Commercio, organismi formalmente pubblici, in realtà controllate da
banche e imprese. Il Codice di Commercio del 1882 disegnò un sistema di Borsa caratterizzato da
4intermediari finanziari. In tal modo i diversi operatori che danno vita al mercato
localismo: la disciplina delle singole Borse di Commercio era delineata nei rispettivi regolamenti, che,
pur sottoposti ad approvazione da parte del Governo centrale, erano alla fine stabiliti dalla Camera di
Commercio nella cui circoscrizione ha sede ciascuna Borsa. Nonostante ciò, il mercato italiano dei
capitali conobbe una fase di grande sviluppo, a partire dalla metà degli anni Novanta dell’Ottocento,
dovuta soprattutto alla concessione agli agenti di cambio della possibilità di operare sia per conto terzi
che per conto proprio e di poter esercitare attività di consulenza e mediazione. La crisi del 1907 mise in
evidenza l’assenza di un adeguato sistema di controlli e la necessità di una revisione della normativa che
assicurasse maggiore stabilità al mercato. La legge del 20 marzo 1913 n. 272 fissò dunque la prima
disciplina organica della Borsa: venne riaffermato il carattere pubblico del suo ordinamento; venne
sovraordinato il Governo nelle funzioni di controllo rispetto agli organi locali (Camera di Commercio,
Deputazione di Borsa, Sindacato di Borsa); venne ripristinato il divieto per gli agenti di cambio di operare
per conto proprio e di ricoprire incarichi di responsabilità all’interno di istituti bancari (eliminando così la
loro funzione di primigenii intermediari polifunzionali). Venne così rafforzata la stabilità, ma al prezzo di
una minore efficienza del mercato. La pubblicizzazione del mercato di Borsa permase anche con la
riforma introdotta dalla legge n. 216 del 1974, che da un lato istituì la Commissione Nazionale per la
Società e la Borsa (CONSOB) – cui vennero attribuiti i compiti di vigilanza sia sull’organizzazione sia
sulle negoziazioni – e dall’altro introdusse una disciplina speciale per le società con azioni quotate in
Borsa, le quali erano obbligate a maggiori obblighi di trasparenza. Nel corso degli anni Ottanta
l’influenza pubblica era ancora radicata e ben chiara nella previsione, contenuta nella legge del 4 giugno
1985 n. 281, che i controlli sulla costituzione di società per azioni con capitale superiore a dieci miliardi
di lire e gli aumenti di capitale di pari importo fossero soggetti all’autorizzazione del Ministro del Tesoro,
sentita la Banca d’Italia, “al solo fine di assicurare la stabilità del mercato dei valori mobiliari” (art. 21).
Soltanto nei primi anni Novanta l’ordinamento del mercato italiano fu interessato da una prima vera
evoluzione che prendeva le distanze dal modello a carattere pubblico, con l’emanazione, peraltro
disomogenea, di una serie di leggi che cercarono di dettare una legislazione generale dei mercati,
introdussero nuovi tipi di investitori istituzionali, integrarono la disciplina del pubblico risparmio e
riformarono profondamente quella dell’immissione dei valori mobiliari sul mercato. Si giunse così, dopo
un processo di revisione e di raggruppamento organico della varia e frammentata normativa concernente
le istituzioni finanziarie, cui avevano dato impulso le diverse azioni a livello comunitario, alla
emanazione del Testo Unico dell’Intermediazione Finanziaria (T.U.I.F.) n. 58/1998, che ha finalmente
dato al mercato italiano l’assetto di un’organizzazione nascente dall’iniziativa economica privata e
tendente alla concorrenza in nome dell’efficienza, della competitività, della stabilità, della correttezza e
della trasparenza (cfr. art. 5 del T.U. n. 58 del 1998). Con esso si assiste da un lato a un processo di
delegificazione, in quanto vengono fissate le linee generali della disciplina, rimettendo le norme di
dettaglio agli organi di vigilanza (Banca d’Italia e Consob), dall’altro a un processo di self regulation
degli intermediari e delle società emittenti, attraverso la valorizzazione della loro autonomia statutaria e
gestionale. Per un approfondimento: Costi R. (1994), L’ordinamento bancario, Bologna, Il Mulino; Costi
R. (2004), Il mercato mobiliare, Torino, Giappichelli.
5mobiliare (le cd. “imprese di investimento”, ossia banche e società d’intermediazione
mobiliare) sono “costretti” a competere secondo criteri di efficienza sempre più elevati
per non essere discriminati
6
. L’intensificarsi della concorrenza porta alla fine degli anni
Novanta alla trasformazione di molte Borse europee da aggregazioni di tipo
mutualistico ad imprese aventi fine di lucro, costituite in forma di società per azioni, il
cui capitale è stato peraltro aperto alla partecipazione di soggetti diversi dagli
intermediari (che, come accennato poco sopra, costituivano i membri principali nel
governo interno dei mercati). Tale fenomeno prende il nome di “demutualizzazione” e
risponde prima di tutto all’esigenza di saper contemperare in modo equo le eterogenee
aspettative di una molteplicità di stakeholders nei confronti delle Borse e poi
all’obiettivo di contenere il forte potere di controllo degli intermediari e di attenuarne
eventuali comportamenti opportunistici a danno degli altri portatori di interessi
7
.
İ) il processo di riforma dell’ordinamento bancario in numerosi Paesi europei, tra cui
l’Italia
8
, alla base del quale vi sono le cosiddette “direttive europee di coordinamento
6
Isaia E., Il mercato azionario: aspetti generali, in Damilano M., De Vincentiis P., Isaia E., Pia P.
(2002), Il mercato azionario, Torino, Giappichelli, nota n. 34, pagg. 24-25.
7
Polato M. (2004), La securities exchange industry in Italia – Listing, trading e post trading nel mercato
azionario, Torino, Giappichelli, pag. 52 e seguenti.
8
L’attività bancaria nel nostro Paese ha origini molto antiche e ha cominciato a espandersi in modo
importante verso la fine del Basso Medio Evo, con la rinascita dei Comuni e degli scambi monetari sui
mercati, in connessione soprattutto con l’attività dei grandi commercianti e dei monti di pegno. Si
svilupparono così progressivamente le diverse tipologie di contratti bancari che oggi conosciamo e le
banche assunsero le caratteristiche istituzionali attuali verso la fine dell’Ottocento. Per poter parlare di un
sistema bancario moderno in Italia bisogna però attendere fino ai primi anni del Novecento, quando una
serie di leggi segnarono una svolta nel panorama bancario nazionale. Innanzitutto con la legge bancaria
del 1926 (RDL. del 6 maggio 1926 n. 812) la Banca d’Italia divenne l’unico istituto autorizzato
all’emissione di banconote sul territorio nazionale e le vennero attribuiti formali poteri di vigilanza sugli
altri istituti creditizi. La legge bancaria del 1936 (RDL. del 12 marzo 1936 n. 375, poi modificato e
integrato con RDL. 17 luglio 1937 n. 1400; legge 7 marzo 1938 n. 141; legge 7 aprile 1938 n. 636; legge
10 giugno 1940 n. 933) mutò definitivamente lo status della Banca d’Italia da banca di emissione a vera e
propria banca centrale, avente forma giuridica di istituto di diritto pubblico, e fissò i principi fondamentali
su cui si reggeva l’attività bancaria, rimasti in vigore per quasi sessant’anni. L’attività bancaria veniva
considerata di interesse pubblico e basata sulla raccolta di mezzi finanziari attraverso i depositi dei
risparmiatori, nei confronti dei quali si stabiliva la massima tutela. Quest’ultima poteva essere perseguita
solo nel momento in cui era assicurata la stabilità bancaria, mediante la garanzia della condizione di
liquidità e il bilanciamento delle scadenze delle operazioni attive con quelle delle operazioni passive. La
6stabilità delle banche imponeva dunque limiti ben precisi alla loro attività. Vennero distinte due grandi
categorie:
- le aziende ordinarie di credito, abilitate ad operare secondo un orizzonte temporale breve, con
scadenze fino a diciotto mesi;
- gli istituti di credito speciale, cui era permesso svolgere operazioni attive e passive con scadenze
superiori a diciotto mesi.
I limiti operativi stabiliti non erano tuttavia vincolanti in senso assoluto, ma potevano essere derogati
mediante autorizzazioni specifiche rilasciate dall’organo di vigilanza, ossia la Banca d’Italia. A questa
venne riconosciuta una molteplicità di funzioni. Tra le principali vi era in primis quella di organo di
politica monetaria, in grado con una serie di manovre di condizionare la liquidità delle banche e quindi
anche la loro capacità e la loro politica di investimenti. Alla Banca d’Italia competeva altresì il ruolo di
organo di vigilanza sul sistema bancario, la cui attività non era libera, ma sottoposta a varie
autorizzazioni, necessarie per costituire o per liquidare un istituto di credito, per aprire, chiudere o
trasferire uno sportello bancario, per acquistare azioni, partecipazioni o immobili, per ottenere la deroga
alla distinzione dell’operatività in base al criterio temporale delle scadenze, per svolgere operazioni al di
fuori della zona territoriale di competenza. Le autorizzazioni erano concesse dalla Banca d’Italia in
maniera discrezionale e insindacabile, secondo una valutazione sulle caratteristiche economiche,
finanziarie, patrimoniali e organizzative della banca richiedente e sugli influssi che la concessione
avrebbe prodotto sul mercato di riferimento. Per salvaguardare l’obiettivo primario della stabilità delle
banche e conseguentemente del sistema finanziario, l’organo di vigilanza tendeva in tal modo a creare un
mercato poco concorrenziale, in cui vi era la compresenza di istituti più efficienti e di altri meno
efficienti. Questi ultimi, nel momento in cui entravano in una eventuale fase critica, vengono ancor oggi
generalmente salvati dall’intervento, spontaneo o sollecitato dalla Banca d’Italia, di un'altra banca.
L’ipotetico fallimento di un intermediario bancario scatenerebbe infatti tutta una serie di conseguenze
negative che avrebbero riflessi non solo sui rapporti propri della banca in questione ma anche sulla
stabilità di altre banche creditrici nei confronti di questa, che potrebbero vedere pregiudicata la propria
capacità di liquidità e di puntuale adempimento delle obbligazioni assunte.
Questa situazione di scarsa concorrenzialità cominciò ad essere riconsiderata a partire dagli anni Settanta,
per effetto delle accresciute esigenze della clientela, delle spinte antagoniste delle banche estere, di un
atteggiamento e di un’interpretazione normativa molto più liberali ed elastici da parte dell’autorità di
vigilanza. Svariati provvedimenti introdotti negli anni successivi modificarono in più punti la legge
bancaria del 1936, introducendo nuove tipologie di operazioni, assimilando le tendenze fissate a livello
comunitario, liberalizzando il mercato valutario. La Banca d’Italia si rese conto della necessità di
affiancare all’obiettivo della tutela della stabilità del sistema bancario anche quello della ricerca della sua
efficienza: l’inefficienza poteva infatti costituire l’elemento prodromico principale che portava a una crisi
di instabilità. Muta quindi atteggiamento nella sua funzione di vigilanza, che da strutturale (ossia in grado
di influenzare la struttura e i meccanismi del sistema bancario) diviene prudenziale, lasciando le banche
libere di organizzarsi secondo il modello ritenuto maggiormente rispondente ai propri fini.
Sempre in risposta a tali tendenze evolutive venne emanata la cd. “legge Amato-Carli” (legge 30 luglio
1990 n. 218), che introduce la previsione di una progressiva privatizzazione delle banche a soggetto
7bancario” (prima direttiva 77/780/CEE e seconda direttiva 89/646/CEE). Queste hanno
mirato da un lato a definire innanzitutto una posizione comune in tema di accesso e di
esercizio dell’attività creditizia, abbattendo le barriere all’entrata che per molto tempo
avevano ingessato il sistema bancario in paesi come l’Italia
9
; dall’altro a creare un
mercato unico bancario a livello comunitario, nel quale le banche autorizzate in uno
Stato membro dell’Unione Europea possono liberamente offrire servizi finanziari alla
clientela, sia mediante l’istituzione di succursali, sia in regime di libera prestazione di
servizi. Si è così attuato un processo di armonizzazione tra le legislazioni dei diversi
paesi comunitari che ha portato al riconoscimento reciproco delle autorizzazioni
all’esercizio dell’attività bancaria (viene riconosciuta un’unica autorizzazione agli enti
creditizi, valida su tutto il territorio dell’Unione Europea) e dei controlli di vigilanza
(l’attività delle banche, ovunque svolta nell’ambito dell’U.E., è sottoposta al controllo
prudenziale dell’autorità dello Stato in cui è stata concessa l’autorizzazione)
10
.
ȗ) una progressiva sofisticazione dei prodotti bancari, dovuta a diversi motivi.
Innanzitutto si è assistito negli ultimi anni ad un aumento della cultura finanziaria dei
clienti, grazie soprattutto all’accelerazione che ha interessato lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione di massa, che hanno permesso una rapida diffusione di conoscenze e
nozioni specifiche anche in ambito finanziario e hanno aperto la strada a delle
possibilità di interazione con le istituzioni economiche prima sconosciute (basti pensare
alla tecnologia telematica e al world wide web). Tutto ciò, insieme alla già citata
economico pubblico, imponendo forme giuridiche di diritto privato e obbligando gli enti pubblici presenti
nelle compagini azionarie delle banche a cedere le quote di maggioranza possedute. Essa inoltre è fautrice
del processo di crescita dimensionale e di concentrazione delle banche, agevolato dalla “legge Ciampi”
del 1998 (cfr. nota n. 3 a pag. 2), che ancor oggi vede coinvolti gli istituti nazionali.
Si arriva così all’emanazione del Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia (D.Lgs. 1
settembre 1993 n. 385), che raggruppa organicamente la disciplina, ridefinisce la nozione di attività
bancaria (ricomprendendo in essa tutte le tipologie, anche quelle connesse e strumentali, recepite dalle
direttive U.E.), rimuove la specializzazione operativa e temporale vista in precedenza e soprattutto
qualifica la banca come un’azienda di produzione che è mossa nel proprio operato da una logica di tipo
imprenditoriale.
9
Cfr. anche il d.p.r. n. 350 del 27 giugno 1985 – Attuazione della direttiva, in data 12 dicembre 1977, del
Consiglio delle Comunità europee n. 77/780 in materia creditizia, in applicazione della legge 5 marzo
1985, n. 74 e legge del 10 ottobre 1990 n. 287 - Norme per la tutela della concorrenza e del mercato (cd.
“legge Antitrust”).
10
Monti E. (2000), Manuale di finanza per l’impresa, Torino, UTET, pag. 6 e seguenti.
8liberalizzazione dei mercati, ha portato a una crescita della domanda del pubblico, che si
è fatto portatore di nuove esigenze. In tale contesto si è delineato, inoltre, il problema di
una maggiore e sempre più accesa concorrenza fra le banche stesse e rispetto agli altri
intermediari. Le banche, per provvedere alle nascenti necessità della propria clientela e
per fronteggiare questa forte pressione competitiva, hanno dunque sviluppato prodotti e
servizi innovativi, hanno introdotto nuove tipologie contrattuali e nuove modalità di
gestione e consulenza e hanno fatto ricorso all’ingegneria finanziaria, mutuando
esperienze proprie di altri settori (in particolare quello assicurativo) e perseguendo
soluzioni a più elevato valore aggiunto.
Le banche hanno risposto ai mutamenti indicati sviluppando nuovi e più sofisticati
assetti organizzativi e gestionali, stringendo accordi di collaborazione e di cooperazione
con altri soggetti sia a livello nazionale che internazionale, passando da forme quali la
banca universale (diffusasi soprattutto in Germania) e la banca polifunzionale (tipica
della realtà anglosassone) ad altri modelli più complessi come la banca multi-specialist
o banca-gruppo
11
, fenomeno organizzativo che configura l’istituzione nascente quale
global player, caratterizzato da un portafoglio coordinato di attività specializzate ma
complementari, che agiscono con grande efficacia, competitività e autonomia su una
pluralità di mercati (come ad esempio quello dei servizi bancari, quello dei servizi
assicurativi, quello dell’asset management, quello dell’investment banking)
12
. Si è
assistito ad un processo di despecializzazione e di successiva rispecializzazione degli
intermediari, in un contesto globale che ha visto la progressiva caduta di barriere
operative, territoriali, competitive, protezionistiche e di accesso (grazie anche
all’apporto dell’innovazione tecnologica nel trattamento delle informazioni a
disposizione), nonché l’ingresso di nuovi soggetti e prodotti sui mercati finanziari.
Questi ultimi sono il luogo dello scambio del rischio, fattore che rappresenta una delle
ragioni fondamentali della nascita e dell’esistenza dei mercati stessi e la cui gestione in
uno schema di scelte di portafoglio spiega l’attività delle banche. La pregnanza del
rischio nell’operatività bancaria è evidente: in primis la struttura stessa del bilancio di
una banca, così come configurato antecedentemente agli accordi di Basilea, con attivo
11
Masera R. (2001), Il rischio e le banche, Milano, Il Sole 24 ore, pag. 21 e seguenti.
12
Solo con riferimento al nostro Paese casi emblematici sono rappresentati dagli attuali assetti di
Unicredit, Banca Intesa e Sanpaolo IMI, i tre principali gruppi bancari a livello nazionale.
9prevalentemente di valore incerto e opaco e passivo che dev’essere mantenuto per quote
rilevanti sempre liquido su domanda o prudentemente accantonato in riserve
obbligatorie, portafogli titoli di proprietà e depositi interbancari e preservato attraverso
apposite operazioni di copertura in derivati, ci mostra come essa sia soggetta a
un’esposizione sistematica al rischio nelle sue diverse configurazioni. In secondo luogo
l’attività bancaria, che contribuisce alla corretta allocazione delle risorse finanziarie e
che condivide il potere di creazione monetaria e di funzionamento del sistema dei
pagamenti e dei regolamenti, ha proprio nella capacità di gestire il rischio, tenendo
conto dell’innovazione, delle opportunità tecnologiche, delle spinte concorrenziali e
delle esigenze di creazione di valore, il proprio vantaggio competitivo.
Queste linee evolutive hanno portato a una focalizzazione della rilevanza della variabile
rischio: per un verso si delinea una vigilanza attenta a limitare l’assunzione di rischio e
a imporre un grado di patrimonializzazione coerente con il grado e la tipologia di esso;
per un altro si afferma una concezione dell’attività bancaria di tipo imprenditoriale, tesa
a conseguire l’obiettivo di massimizzazione del valore del capitale a rischio.
L’imprenditorialità della gestione bancaria comporta infatti la necessità di un aumento
del valore per gli azionisti, generato da una crescita degli utili. Questa è possibile solo
grazie a un incremento dei volumi di attività, i quali a loro volta devono essere sostenuti
da maggiori e adeguate dotazioni patrimoniali, capaci di conciliare per l’appunto il
profilo del rendimento con quello dei rischi intrapresi nel perseguimento degli obiettivi
aziendali.
Il concetto di rischio appare pertanto insito in maniera cruciale nella strategia di
funzionamento di una banca: essa si deve dotare di un appropriato sistema di
misurazione dello stesso e deve essere capace di allocare in maniera efficace il capitale
tra le diverse unità che la compongono, assumendo una struttura organizzativa efficiente
e in grado di coordinare i precedenti aspetti. D’altronde, la stessa attività di
intermediazione finanziaria è principalmente un’attività di gestione del rischio e ha
come variabile fondamentale il capitale proprio aziendale
13
.
Bisogna dunque definire innanzitutto cosa s’intende per rischio, termine a cui vengono
attribuiti significati molto spesso differenti. Nel linguaggio comune esso indica la
13
Il rischio comporta un assorbimento di capitale, per cui si può alla fine parlare di ‘gestione del
capitale’, in particolare se si tiene conto del pericolo che questo possa essere intaccato anche nel ruolo di
motore del funzionamento del ciclo vitale di un’impresa, qualora le riserve costituite si rivelassero
insufficienti a fronteggiare le eventuali perdite.
10
possibilità che vi sia un danno come conseguenza di eventi futuri incerti. Nell’ambito
della disciplina del risk management il rischio viene a configurarsi come l’eventualità
che si verifichi una deviazione sfavorevole da un risultato atteso
14
. Per una banca, quale
entità avente carattere d’impresa, quest’ultimo valore è rappresentato dall’utile netto
atteso.
A seconda dei diversi fattori casuali che determinano tale variabilità, i rischi connessi
all’attività di intermediazione finanziaria svolta da una banca si possono classificare in
quattro principali categorie:
x Il rischio di interesse: è quello conseguente ad uno squilibrio fra le scadenze
dell’attivo e del passivo che caratterizzano il banking book
15
di un’istituzione
finanziaria. In particolare, in una situazione in cui la vita residua delle attività
risulti superiore a quella delle passività si parla specificamente di rischio di
rifinanziamento, ossia il rischio che il costo relativo al finanziamento di una
posizione attiva subisca un rialzo che genera una diminuzione del margine di
interesse. Si ha invece rischio di reinvestimento in presenza di una scadenza
dell’attivo inferiore a quella del passivo, condizione che comporta un ribasso del
margine d’interesse, in quanto la banca potrebbe vedersi costretta a coprire le
proprie passività investendo i fondi rinvenienti da precedenti concessioni di
credito già scadute in attività con un rendimento più basso.
Nell’ambito del rischio di interesse vengono inoltre considerate le variazioni dei
tassi d’interesse di mercato, che producono sia effetti diretti sui flussi di interessi
attivi e passivi e sui valori di mercato delle attività e passività, sia effetti indiretti
sui volumi negoziati. Questi differenziali dipendono, da un lato, dalla quantità di
attività e passività che le controparti di una banca possono modificare mediante
il ritiro dei depositi o il rimborso anticipato dei prestiti, dall’altro, dall’elasticità
della domanda delle controparti rispetto al variare dei tassi d’interesse.
14
“Risk is a condition in which there is a possibility of an adverse deviation from a desired outcome that
is expected” (Vaughan E.J. (1997), Risk Management, New York, John Wiley & Sons, pag. 8).
15
Il banking book è costituito dalla totalità dei prestiti e dei titoli acquisiti da una banca per scopi di
reddito, destinati a un investimento stabile e duraturo, rispondenti a criteri di prudenzialità imposti dalla
normativa e caratterizzati da scadenze a medio-lungo termine. Viene definito quindi anche “portafoglio di
proprietà in senso stretto” o “immobilizzato”.
11
x Il rischio di mercato: è quello concernente variazioni del valore di mercato di
uno strumento o di un portafoglio di strumenti finanziari in cui la banca ha
investito il proprio trading book
16
, dovute a cambiamenti inattesi delle
condizioni di mercato. A seconda della tipologia di mutamento che si verifica, si
possono distinguere le seguenti casistiche di rischio di mercato:
i. rischio di cambio, quando il valore delle posizioni assunte risente della
variabilità dei tassi di cambio;
ii. rischio di interesse, quando il valore delle posizioni assunte risulta
sensibile alle variazioni dei tassi di interesse;
iii. rischio azionario, quando il valore delle posizioni assunte è collegato
alle oscillazioni dei corsi azionari;
iv. rischio merci, quando il valore delle posizioni assunte dipende
dall’andamento dei prezzi delle commodities;
v. rischio di volatilità, quando il valore delle posizioni assunte è funzione
della volatilità di una delle variabili sopra riportate.
x Il rischio operativo (operational risk): è una tipologia dai contorni incerti, che
non è ancora stata codificata in maniera univoca dall’industria bancaria, la quale
ha cominciato a considerarne l’importanza solo a partire dalla seconda metà
degli anni Novanta, proponendone diverse definizioni. Ad esso in genere
vengono ricondotte le potenziali perdite dirette o indirette che scaturiscono da
deficienze dei sistemi informativi e gestionali, da errori umani, da controlli
interni inadeguati ed da eventi esterni; spesso viene fatto confluire in esso il
rischio legale
17
. Si configura come una sottocategoria residuale e
complementare rispetto alle altre e si differenzia da queste inoltre per il fatto di
essere connessa per lo più a rischi puri (le altre tre categorie hanno infatti natura
16
Il trading book è dato da quella parte di strumenti finanziari detenuti da una banca per scopi di liquidità
e per alimentare l’attività di trading in proprio e/o per conto della clientela e aventi un orizzonte
temporale a breve termine. Viene pertanto altrimenti detto “portafoglio di negoziazione” o “non
immobilizzato” o “di trading”.
17
Il Comitato di Basilea ha definito il rischio operativo “… come il rischio di perdite derivanti dalla
inadeguatezza o dalla disfunzione di procedure, risorse umane e sistemi interni, oppure da eventi esogeni.
Tale definizione include il rischio legale, ma non quelli strategico e di reputazione” (cfr. Basel Committee
on Banking Supervision (giugno 2004), International Convergence of Capital Measurement and Capital
Standards: A Revised Framework, Basilea, BIS). Per una riflessione sul rischio reputazionale si rimanda
alla successiva nota n. 88 a pag. 71.
12
finanziaria e sono incluse nei rischi speculativi, ossia quelli che possono avere
conseguenze sia negative che positive).
x Il rischio di credito: indica “la possibilità che una variazione inattesa del merito
creditizio di una controparte nei confronti della quale esiste un’esposizione
generi una corrispondente variazione inattesa del valore di mercato della
posizione creditoria”
18
.
Rientra in tale categoria sia il rischio di insolvenza di controparti residenti
nell’ambito dei finanziamenti concessi, sia il rischio legato a deterioramenti del
merito creditizio degli emittenti di valori mobiliari detenuti in portafoglio, sia il
rischio paese, sia il rischio di preregolamento e regolamento che caratterizzano
le posizioni in strumenti finanziari derivati.
Le categorie di rischio appena analizzate sono nella loro eterogeneità da ricondursi ad
un’ottica integrata, che tende alla ricerca del miglior posizionamento rischio/rendimento
del portafoglio aziendale e allo svolgimento di un governo dinamico orientato alla
creazione di valore attraverso appropriati strumenti di gestione (allocazione del capitale,
misurazione della performance corretta per il rischio, processi di budget e di incentivi
legati al rischio, controllo del rischio). Il rischio, globalmente inteso, nelle sue diverse
forme e trasformazioni (per mezzo di strumenti quali i credit derivatives) è il fattore
ineliminabile che “dà un senso economico alla detenzione del patrimonio”
19
.
Il rischio di credito costituisce la tipologia di rischio su cui si impernia l’oggetto della
trattazione del presente capitolo. È d’uopo approfondire dunque gli aspetti teorici e gli
sviluppi dottrinali ad esso connessi.
18
La definizione riportata è quella desunta da Sironi (cfr. ad es. Sironi A. (2005), Rischio e valore nelle
banche, Milano, Egea) ed è ripresa da molti altri studiosi: tra i tanti vedasi Matta A. (2004), Approcci
matematico-statistici alla valutazione del rischio di credito, ricerca per conto dell’Associazione Torino
Finanza.
19
Masera R. (2001), Il rischio e le banche, Milano, Il Sole 24 Ore, pag. 27.