9
Oggi più che mai, l’attività lavorativa è un bene necessario per ogni
uomo, indispensabile tanto per la sussistenza economica quanto per
l’affermazione personale e sociale.
Le fonti di soddisfazione connesse al lavoro concernono differenti aree:
in primo luogo, l’occupazione rappresenta una modalità di realizzazione, un
mezzo indispensabile al raggiungimento degli obiettivi professionali e
personali; il piacere del lavoro ed il senso di realizzazione possono derivare, ad
esempio, dallo svolgere una determinata mansione che permette di acquisire
nuove esperienze funzionali al miglioramento della propria vita personale e
delle proprie competenze specifiche.
Un’ulteriore fonte di soddisfazione è rappresentata dall’area
dell’autonomia e della responsabilità, dal momento che la possibilità di
scegliere e decidere, autonomamente e compatibilmente al proprio ruolo,
costituisce una fonte motivante per il lavoratore ed un’occasione di
accrescimento del benessere lavorativo.
Infine, il lavoro costituisce nell’immaginario sociale, un’attività capace
di condizionare, più o meno positivamente, lo status sociale ed il prestigio
personale; esso, inoltre, è considerato una fonte di soddisfazione in ambito
relazionale, dal momento che prevede l’associazione e la collaborazione
continua con altre persone (colleghi, superiori, clienti, ecc…).
Il percorso lavorativo, dunque, viene caricato di valenze e significati
innumerevoli che possono soddisfare il lavoratore, ma che allo stesso tempo,
possono costituire un’inesauribile fonte di delusioni e difficoltà, che a lungo
10
andare, possono far sorgere sentimenti di frustrazione, di ansia e di stress in
tutte le fasi che lo contraddistinguono; a tal proposito, un ottimo esempio è
costituito dal momento d’ingresso nella realtà occupazionale: quest’ultimo,
infatti, mette a dura prova la tenuta psicologica dei nuovi entrati e se non viene
superato in maniera rapida e soddisfacente, può segnare profondamente
l’esperienza dei soggetti interessati, ripercuotendosi negativamente sui rapporti
interpersonali con il gruppo di lavoro e sulla qualità stessa del proprio operato.
Nel mondo del lavoro esistono, accanto a fattori di rischio specifici
responsabili di malattie professionali, numerosi altri agenti capaci di turbare
l’equilibrio ed il benessere dell’uomo, creando fenomeni di disadattamento e
reazioni di stress, da cui possono derivare malattie a-specifiche, ma certamente
collegate alla professione (es: burnout, mobbing, ecc).
Il malessere sociale che accompagna l’esperienza lavorativa è stato
variamente descritto, nei termini sindrome da stress lavorativo e work
addiction, technostress, burnout, mobbing, ecc.
L’elemento stressante per eccellenza sembra essere il sovraccarico
(surmenage), misurabile attraverso numerosi fattori, tra i quali è possibile
annoverare ad esempio: il numero eccessivo di compiti e di responsabilità
rispetto alle proprie mansioni ed alle capacità personali, la scarsa autonomia, la
non pianificazione dei turni ed il prolungamento eccessivo dell’orario di lavoro
(spesso non retribuito), la mancanza di pause durante le ore di lavoro e la
carenza di strumenti adeguati alle mansioni da svolgere e l’assenza di
riconoscimenti (anche economici).
11
Alcune fonti di stress, inoltre, agiscono sul sistema di comunicazione
tra colleghi o tra subordinati e superiore: le informazioni carenti o mal
interpretate generano confusione e sospetto, che, a lungo andare, possono
tradursi in uno stato di tensione ed ansia. L’essere escluso dai sistemi
informativi genera spesso la diminuzione dell’autostima, l’estraniazione dagli
obiettivi dell’organizzazione per la quale si lavora, la caduta delle aspettative
ed è, in molti casi, responsabile di stati depressivi e di altre malattie mentali.
Nella nostra realtà quasi totalmente dominata dai sistemi informatici,
un’altra fonte di stress sul lavoro è rappresentata dall’introduzione delle nuove
tecnologie (technostress), dal momento che al lavoratore sono richieste
conoscenze che spesso non possiede e che, nel caso dei lavoratori più anziani,
risultano difficili anche da acquisire. In risposta a queste innovazioni si crea
una condizione nella quale il lavoratore si sente letteralmente messo da parte e
sostituito da chi possiede queste competenze specifiche; ciò determina nel
dipendente uno stato di impotenza e di scoraggiamento che lo relegano in una
estenuante difesa della propria nicchia di competenza e di potere.
Una forma particolare di disagio professionale è rappresentata dal
burnout che costituisce l’esito di uno stress cronico; inizialmente identificato
nell’ambito delle occupazioni sociali e sanitarie, successivamente è stato esteso
anche alle altre professioni d’aiuto ed a tutte le attività che richiedono un
costante rapporto interpersonale con gli utenti. Questa sindrome professionale
può essere sinteticamente definita come una progressiva perdita di idealismo,
energia e scopi, vissuta dagli operatori sociali come risultato delle condizioni di
12
lavoro. Nel burnout sono riconoscibili due condizioni di stress: una prima
soggettiva, che si riferisce alle motivazioni ed alle immagini ideali possedute
dall’operatore; un’altra oggettiva ascrivibile, invece, alle condizioni materiali
del lavoro, alle ambiguità di ruolo ed alle strutture relazionali presenti
all’interno del luogo in cui l’operatore esercita la sua professione. Il soggetto
sperimenta una condizione di sovraccarico emotivo che si intensifica
nell’interazione continua con gli utenti e che determina sentimenti di
impotenza e perdita di interesse per il proprio lavoro, che si esprimono in
risposte difensive estreme (rigidità comportamentale, indifferenza, apatia,
distacco, sospettosità, ostilità e relazioni aggressive).
Il mio percorso tra le diverse malattie professionali si conclude con la
descrizione di una forma di disagio, relativamente recente, alla quale negli
ultimi anni molti studiosi hanno dedicato la propria riflessione: il mobbing.
Una definizione ufficiale fornita dall’Associazione contro lo Stress Psico-
Sociale ed il Mobbing, fondata in Germania nel 1993, lo descrive come “una
comunicazione conflittuale sul posto di lavoro, tra colleghi o tra superiori e
dipendenti, nella quale la persona attaccata viene posta in una condizione di
debolezza ed aggredita direttamente o indirettamente da una o più persone in
modo sistematico, frequente e per un lungo periodo di tempo con lo scopo di
estrometterla dal posto di lavoro” (Pedon, Maeran, 2002: p. 285).
Tutti questi attacchi tendono a colpire la capacità di autonomia e
d’iniziativa delle vittime e a renderle insicure di sé e della propria professione:
in sintesi, minano l’autostima ed insinuano il dubbio dell’efficacia del proprio
13
operato. I costi maggiori di questo comportamento vessatorio da parte del
“carnefice” (mobber) sono a carico della vittima (mobbizzato), che oltre ai
danni psico-fisici deve far fronte anche all’impoverimento dei rapporti
interpersonali e sociali e spesso anche alla perdita del posto di lavoro; tuttavia,
questa forma di persecuzione psicologica danneggia, spesso in maniera grave,
anche la famiglia e la stessa organizzazione lavorativa di cui la stessa fa parte.
Uno sguardo d’insieme ci permette di evidenziare che tutte le malattie
professionali, da quelle più datate a quelle più attuali (technostress, burnout,
mobbing), gravano pesantemente sull’assetto psico-fisico delle persone
coinvolte, sulla loro vita familiare e sociale, riducendone la qualità della vita ed
il sentimento di benessere personale.
14
CAPITOLO I
Origine ed evoluzione del concetto di stress
1. Lo stress: definizione di un concetto
Si ritiene comunemente che il termine stress sia nato nell’ambito delle
scienze fisiche del XVII secolo, in particolare dagli studi di Robert Hooke in
merito alle relazioni tra le strutture fisiche e le pressioni che queste ultime sono
in grado di sopportare. Tre secoli fa la parola stress stava ad indicare l’idea di
avversità e di afflizione, durante il IX secolo assunse il significato di tensione e
sforzo.
Nel linguaggio della meccanica, questo termine allude ad una forza che
tende a comprimere o a deformare il corpo a cui si è applicata, rappresentando
una buona metafora per descrivere sia la causa dello stress, sia l’esperienza
soggettiva di esso.
La definizione del concetto di stress, in uso nella tradizione
anglosassone da molto tempo, si è evoluta seguendo stadi successivi; a tal
proposito, la letteratura sull’argomento fa riferimento a tre differenti modelli:
1) il modello dello stimolo considera lo stress in relazione a quanto
accade nell’ambiente che pone una richiesta alla persona;
2) il modello della risposta si riferisce all’esperienza provata dalla
persona (per esempio, diciamo che lo stress causa sofferenza);
15
3) il modello transizionale considera lo stress come una transazione
tra la persona ed il suo ambiente ed integra lo stimolo e la risposta
in un medesimo processo. Tale modello, noto anche come
approccio «di processo» o «della persona nel contesto», fa appello
ad un orientamento olistico che non si ferma all’identificazione
delle variabili personali ed ambientali e che interpreta lo stress nei
termini dell’accordo tra la persona ed il suo mondo.
La nozione di stress é utilizzata, molto spesso in maniera scorretta, per
riferirsi sia ad un insieme di reazioni psicologiche e fisiologiche a certe
situazioni ed eventi (es: “Il lavoro è causa di stress”), sia per indicare queste
situazioni e questi eventi in sè (es: “Questo lavoro è uno stress”). Essa allude,
in realtà, ad un concetto ampio e complesso di cui non esiste una definizione
univoca, ma il cui significato dipende, piuttosto, dall’orientamento teorico che
si assume per osservarlo.
Una definizione moderna suggerisce che lo stress umano ed animale sia
“uno stato di tensione dell’organismo, in cui vengono attivate difese per far
fronte ad una situazione di minaccia” (Trombini, 1982: pp. 126-135).
Lo stress è quindi definibile come “l’insieme di processi psicofisici, che
si attivano ogni qual volta che l’individuo è posto di fronte a situazioni
percepite come al limite delle sue possibilità di adattarsi e che devono essere
affrontate” (Sibilia, 1997).
16
Lo stress è quindi uno stato di attivazione fisiologica e biologica,
suscitata dalla presenza di stimoli o situazioni valutate come emozionalmente
significative per l’individuo.
2. Nascita delle ricerche sullo stress
I primi studi sullo stress, analizzato da una prospettiva fisiologica,
risalgono al 1914, anno in cui il fisiologo Cannon intraprese una serie di
esperimenti, influenzato dalle ricerche del suo collega francese Claude
Bernarde. Gli studi proseguirono negli anni a venire con Hans Selye e i teorici
della prospettiva fenomenologia-cognitiva.
Negli anni ’50, si verificò un’inversione di rotta nello studio di questo
fenomeno, osservato non più esclusivamente da una prospettiva fisiologica, ma
prevalentemente da un punto di vista bio-psico-sociale. L’attenzione di
numerosi ricercatori, infatti, si concentrò sulle influenze che i fattori ambientali
potevano avere sull’insorgenza di disturbi emotivi e corporei.
2.1 Le ricerche di Walter B. Cannon
Il primo ricercatore che ha esaminato lo stress da un punto di vista
fisiologico è stato Walter B. Cannon, fisiologo statunitense vissuto tra il 1871
ed il 1945. Cannon studiò presso l’Università di Harvard, ove in seguito fu
docente di fisiologia e poi direttore del dipartimento dal 1906 al 1942.
17
Stimolato dagli studi del fisiologo francese Claude Bernarde (1813-
1878), considerato il fondatore della medicina sperimentale, iniziò le sue
ricerche nel 1896 servendosi dei raggi X per osservare il processo di digestione
nelle cavie. Nel corso di questi esperimenti Cannon rilevò che in un animale
sottoposto a stress, il processo digestivo si interrompeva; questo fenomeno gli
suggerì alcune ipotesi sulle risposte con le quali l’organismo reagisce a
situazioni come la paura, il pericolo, il dolore.
Le sue scoperte lo condussero a formulare la cosiddetta teoria centrale
delle emozioni, secondo la quale la sede della formazione delle emozioni si
troverebbe nel talamo; studiò, inoltre, la reazione del cuore, del sistema
nervoso simpatico e della ghiandola surrenale a circostanze innaturali.
Cannon, infine, si occupò dei meccanismi di autoregolazione corporea
grazie ai quali l’organismo raggiunge una condizione, definita di omeostasi,
nella quale i parametri interni (come la temperatura o la concentrazione dei
fluidi corporei) vengono mantenuti costanti al variare delle condizioni
ambientali.
2.2 L’approccio fisiologico di Hans Selye
Le ricerche sullo stress si moltiplicarono negli anni ’50, grazie al
contributo del fisiologo viennese Hans Selye, il quale adottò il termine stress,
usato fino ad allora solo in ingegneria per descrivere la fatica dei metalli,
definendolo “una risposta non specifica dell’organismo ad ogni richiesta di
18
cambiamento” (Trombini, 1999: p. 141), la cui finalità è favorire l’adattamento
dell’organismo stesso.
Questo ricercatore ipotizzò che le alterazioni organiche che
caratterizzavano l’animale sottoposto a stimolazioni stressanti (ingrossamento
delle ghiandole surrenali, atrofia del timo e di tutti i tessuti linfoidi, ulcere
gastriche e duodenali) fossero l’esito di un insieme di reazioni difensive a-
specifiche dell’organismo stesso, meglio note come sindrome generale di
adattamento (GAS). Selye si accorse che non esisteva nessuno stimolo in grado
di elicitare la comparsa delle reazioni organiche da lui osservate nelle cavie;
rilevò, piuttosto, che ogni impulso era in grado di innescare una risposta
uguale, anche per stimoli differenti, indipendentemente dalla sua specie, quindi
a-specifica.
Secondo quanto emerso da questi studi, il processo stressogeno si
articola in tre fasi:
1) una fase di allarme sostenuta da attivazioni neurovegetative di tipo
adrenergico, in cui la secrezione delle principali catecolamine,
adrenalina e noradrenalina, permette una rapida reazione del
sistema nervoso autonomo. In questo primo stadio, lo stimolo
induce cambiamenti di tipo biologico ed ormonale. La fase di
allarme è contraddistinta da due momenti diametralmente opposti:
lo shock, in cui si registra la caduta al di sotto del livello fisiologico
di funzionamento dell’organismo ed il controshock, momento
reattivo attivato e sostenuto dal sistema neurovegetativo. Questa
19
prima fase è immediata, ma estremamente labile, poiché le
catecolamine, frutto delle attivazioni neurovegetative, sono
rapidamente scisse;
2) una fase di resistenza, che si rende necessaria soprattutto nel caso
ci si trovi dinanzi a stress prolungati nel tempo, nella quale il
soggetto stabilizza le sue condizioni adattandosi alle nuove
richieste e riducendo le difese verso altri stimoli. Questo secondo
momento ha una durata maggiore della fase di allarme, essendo
sostenuta da fenomeni endocrini;
3) una fase di esaurimento, nella quale vengono meno sia le difese che
la capacità di adattamento. L’individuo sottoposto a stress
prolungati può sperimentare squilibri funzionali, nevrosi vegetative
ed alterazioni strutturali.
Seley caratterizzò la risposta dell’organismo ad eventi esterni e negativi
come una particolare attivazione delle ghiandole surrenali che, in particolari
circostanze, aumentano la secrezione di ormoni quali il cortisolo e l’adrenalina,
ribattezzati, non a caso, ormoni dello stress. Ipotizzò, cioè, che un insieme di
stressors, vale a dire di agenti stressanti di varia natura, potessero provocare in
modo a-specifico, la sindrome generale di adattamento, causando l’attivazione
dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene ed il conseguente aumento di ormoni nel
circolo ematico, la cui produzione è controllata dall’ACTH, un ormone secreto
dal lobo anteriore dell’ipofisi, la cui funzione specifica consiste nello stimolare
20
la secrezione di numerosi altri ormoni da parte delle ghiandole surrenali
corticali.
Per Selye, lo stress non è necessariamente una condizione patologica,
ma è piuttosto uno stimolo fisiologico normale ed in quanto tale, la reazione ad
esso può essere utile anche nel caso in cui l’azione dello stressor è tanto
prolungata ed intensa, da poter potenzialmente trasformarsi in malattia. Lo
stress assume, dunque, una valenza duplice: sul breve termine, produce
variazioni adattive, mentre sul lungo termine, può essere causa di variazioni
antiadattive.
Le esperienze stressogene non possono essere evitate, ma come ci
insegna lo stesso autore, possiamo confrontarci con esse in maniera
appropriata, imparando a conoscere i meccanismi che le animano e cercando di
adattare la nostra vita alla consapevolezza della loro esistenza; in tal senso, la
soluzione ottimale per affrontarle, non è la totale eliminazione della fonte di
stress, ma piuttosto, la loro ottimizzazione al fine di renderle sopportabili ed
utili per la sopravvivenza e lo svolgimento di tutte le attività umane.
L’idea fondamentale che scaturisce dalle teorizzazioni di Selye è che
l’uomo risulta in salute se le sollecitazioni dell’ambiente sono consone alle sue
potenziali capacità di risposta. Da questa intuizione discende la famosa
suddivisione operata dall’autore tra eustress e distress, secondo la quale
esisterebbe uno stress costruttivo che la persona riesce a fronteggiare con un
impegno adatto alla situazione in atto, che richiede impegno e sforzo di
adattamento, ma che non assume un significato di minaccia per il benessere
21
personale (eustress), ed uno stress distruttivo (distress), tipicamente
accompagnato da sensazioni penose, che acquista per il soggetto che lo
sperimenta, un significato di minaccia e che può presentarsi sia nel caso in cui
le sollecitazioni degli stressors sono superiori alle capacità di risposta del
soggetto, sia nel caso in cui le pressioni esterne o interne, risultano talmente
povere e monotone da inibire le normali potenzialità di attivazione della
persona.
2.3 La prospettiva fenomenologia-cognitiva
Le teorie sullo stress hanno conosciuto un momento di
approfondimento e di innovazione grazie alla prospettiva fenomenologico-
cognitiva, la quale ha spostato l’attenzione sui processi di valutazione delle
potenziali situazioni-stimolo.
In questo ambito si inseriscono le ricerche di Lazarus (1966), autore di
un’ipotesi nella quale si sottolineava la fondamentale importanza della
valutazione cognitiva nel processo di modulazione della risposta
dell’organismo agli stimoli stressanti. L’elaborazione degli stimoli nocivi,
secondo quanto ipotizzato da Lazarus, a livello cognitivo avverrebbe in
maniera del tutto personale e differente da individuo ad individuo, sulla base
delle esperienze passate e della costituzione genetica.
22
Lazarus ha valutato lo stress come l’insieme di tre fattori: lo stimolo
stressante; i processi che concorrono a determinare la risposta
comportamentale; la risposta elicitata.
Seguendo la prospettiva proposta da questo autore, le situazioni
stressanti assumono un significato differente per ogni persona, sollecitando
l’insorgenza di emozioni e comportamenti estremamente complessi e
particolari.
Il modello proposto da Lazarus ha introdotto una distinzione tra stress
psicologico e stress fisico, volendo indicare con il primo la situazione nella
quale la reazione individuale dipende esclusivamente dalla valutazione
cognitiva che un soggetto fa dello stimolo; col secondo, la situazione nella
quale lo stressor agisce direttamente sui tessuti corporei e, solo in un secondo
momento, sull’apparato mentale.
All’interno della cornice fenomenologia-cognitiva, si inseriscono anche
le ricerche di Spielberger (1983), che ha definito in termini di «minaccia», le
situazioni potenzialmente dannose per la persona che le sperimenta.