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macro.3 Raffaella Sarti, riassume bene i temi che stanno alla base delle
riflessioni sul lavoro domestico quando afferma che “la rinascita del lavoro
domestico salariato riflette profonde tensioni sociali relative a temi quali le
caratteristiche del welfare europeo, il crescente squilibrio demografico tra
giovani e anziani, a sempre più ampia partecipazione femminile al mercato del
lavoro, il problema della responsabilità delle attività di cura in ambito familiare”
(Andall e Sarti 2004, 8).
Se il lavoro domestico è oggi al centro dell’attenzione di molti studiosi, non
lo è quindi tanto come attività in sé, nel suo svolgimento quotidiano, ma come
un anello di una più ampia catena delle politiche sociali istituzionali. Ad oggi,
non mancano studi di sociologia (o della scienza sociale in generale) che
trattino tali aspetti. Il filo rosso di una gran parte delle ricerche consiste nel
collegare il lavoro domestico ad un fenomeno macro di cui è l’espressione,
individuare le figure centrali coinvolte e proporre una definizione chiave sia del
lavoro che dei soggetti. Accennerò ora brevemente ad alcune di esse per
illustrare ciò di cui in questa sede non mi occuperò.
L’impulso per le nuove riflessioni sul lavoro domestico l’hanno dato i
movimenti per l’emancipazione femminile negli anni Sessanta e Settanta. Il
movimento femminista, tramite la lotta per la liberazione della donna dal ruolo
esclusivo di casalinga e per un’equa ripartizione dei compiti di gestione della
casa tra uomo e donna, vedeva nel lavoro domestico un elemento di solidarietà
tra le donne (Andall 2004, 83). La figura chiave era una donna occidentale che
si emancipa, entra nel mercato del lavoro e non vuole più essere l’unica ad
occuparsi della casa. Le studiose di area femminista hanno contribuito altresì
alla ricerca – non conclusa – di una definizione del lavoro domestico,
scomponendolo nei suoi elementi che comprendono l’organizzazione familiare,
il mantenimento dell’ordine e l’accudimento dei membri della famiglia. (Balbo
1987; Piazza 1992).
Un altro filone di studi prende le distanze dai movimenti femministi
sostenendo che essi hanno fallito, in quanto per evitare la “doppia presenza” in
casa e sul mercato di lavoro, “le donne si liberano usando altre donne” (Alemani
2004, 141). Tali studi si pongono in relazione con i processi di sviluppo
ineguale, di globalizzazione e di migrazioni transnazionali. L’attenzione della
ricerca è concentrata sulle migrazioni femminili viste come trasferimento delle
risorse affettive relative al ruolo tradizionale della donna dal Terzo al Primo
mondo. La figura centrale è la donna migrante che per motivi economici si
sposta verso il ricco Occidente per curare i bambini, le case e gli anziani delle
famiglie occidentali, abbandonando alla cura degli altri la propria famiglia. Il
lavoro di cura viene visto come il lavoro dell’amore a pagamento, sottratto da
una parte del mondo per essere reinvestito altrove (Ehrenheich, Hochschild, a
cura di, 2004; Alemani 2004).
Spostiamo ora l’attenzione sulla situazione della ricerca in Italia. Gli studi
condotti sul lavoro domestico negli ultimi decenni si concentrano sullo studio del
lavoro di cura, inteso come l’assistenza agli anziani, svolto dalle donne migranti.
Dato il legame con l’ambito delle politiche sociali, sono caratterizzati, in molti
casi, da una certa strumentalità che ne determina la cornice. Le ricerche o gli
3
Ci sono tuttavia autori e autrici che dedicano l’attenzione anche agli aspetti micro. Si veda ad esempio:
Alemani 2004, Rivas 2004, Hondagneu-Sotelo 2004.
9
articoli spesso vengono finanziati dalle amministrazioni locali e partono come
progetti, con l’obiettivo preciso di trovare risposte al problema delle politiche
sociali in un determinato contesto (Toniolo Piva 2001, Aidid 2003, Lazzarini
2004; Mazzacurati 2006). L‘organizzazione del discorso è pressappoco la
seguente: a) spiegazione delle cause che inducono le famiglie italiane a
ricorrere all’assistenza privata: mutamento nella struttura demografica della
popolazione, trasformazione dei ruoli all’interno della famiglia italiana, le
politiche sociali incapaci di rispondere alle esigenze della popolazione; b)
giustificazione tramite tali fattori della presenza delle colf e delle badanti
immigrate; c) l’inserimento irregolare e regolare delle lavoratrici nel mercato di
lavoro. Le analisi si concentrano poi sul welfare nascosto (Castegnaro 2002,
Ambrosini 2005, Gori 2002) e sul lavoro domestico come lavoro sommerso
svolto dalle donne immigrate (Giommoni 2004, Lazzarini 2004). I temi trattati
riguardano la quantificazione della presenza delle collaboratrici familiari
immigrate nel territorio in analisi (Mazzacurati 2005, Toniolo Piva 2001,
Lazzarini 2004, Mazzacurati 2006), l’identità sociale delle colf e badanti
(Mazzacurati 2005, Lonardi 2004-2005, Corradini 2002-2003, Piva 2001), la
loro provenienza geografica, i progetti e i percorsi migratori (Mazzacurati 2005,
Lonardi 2004-2005).
In sostanza, il lavoro domestico, quello retribuito, viene studiato
principalmente come un’espressione dei rapporti sociali che ne spiegano
l’esistenza. Eppure, ci sono, a mio avviso, poche attività così adatte allo studio
della vita quotidiana proprio come il lavoro di cura. La sua quotidianità quasi
“banale” lo rende particolarmente adatto allo studio delle interazioni faccia a
faccia tra gli attori, che non rappresentano solamente i ruoli del datore di lavoro
e dipendente, ma anche quelli dell’Autoctono e dell’Altro. Spostando il focus
d’attenzione dalle strutture macro al contesto micro, che cosa rimane? Che tipo
di attività è il lavoro domestico e come viene vissuta dai soggetti coinvolti?
Come gli attori organizzano l’esperienza relativa al modo di gestire i compiti
quotidiani e la comunicazione interpersonale? La domanda di fondo è: che cosa
rende funzionante il rapporto e, viceversa, a cosa sono dovuti i conflitti e le
tensioni tra i partecipanti?
Partendo dall’esperienza pratica allo sportello dell’Acli-colf, la mia ipotesi
iniziale era che i rapporti tra le famiglie italiane e le donne migranti ivi impiegate
non fossero per niente armoniosi e chiari. L’ambiguità implicita nel combinare la
cornice formale del rapporto di lavoro subordinato con la dimensione affettiva
inevitabile nella cura familiare, ai miei occhi si manifestava in maniera
conflittuale. Vorrei subito chiarire che il mio interesse principale non è stato
quello di analizzare i rapporti di forza tra le famiglie e le donne migranti in
quanto datori di lavoro e lavoratori. La questione analitica di base è stata: quali
strategie comunicative usano gli attori muovendosi all’interno delle due cornici
contrapposte? Ho supposto che tali strategie sono espresse attraverso le
maschere dei ruoli, indossate dagli attori a seconda delle circostanze. O meglio,
in alcune occasioni gli individui sottolineano la cornice del rapporto di lavoro, in
altre si comportano come facenti parte della stessa famiglia (si veda il capitolo
terzo). I comportamenti che i partecipanti mettono in atto sono caratterizzati da
determinate regole rituali che presuppongono l’impiego di certe facciate
(Goffman 2001, 33) e delle impressioni da trasmettere l’uno all’altro. Ho
10
ipotizzato che una buona parte dei conflitti tra le famiglie e le dipendenti è
riconducibile al diverso accento che pongono gli attori sulle differenti cornici.
Saper dosare in maniera giusta il “calore” dell’affetto e la “freddezza”
contrattuale presuppone, a mio avviso, una notevole capacità di distacco
emotivo e, di conseguenza, un’abilità nel recitare la parte giusta nel momento
giusto. In questo senso il lavoro di cura può essere analizzato come
rappresentazione teatrale.
Come il film Dogville, che usa come luogo di rappresentazione un palco
teatrale, anche l’ambiente del lavoro di cura sarebbe in questa accezione un
palcoscenico, del quale possiamo intravedere la planimetria e sul quale
osserveremo l’agire dei soggetti partecipanti.
Per esporre al meglio tale linea interpretativa, ho utilizzato il bagaglio
teorico relativo al rituale di interazione e alle rappresentazioni drammaturgiche
di Erving Goffman, applicandolo ai racconti sul sé delle donne migranti. La
metodologia è stata quindi quella di una ricerca empirica basata sulla raccolta
delle interviste aperte e sull’osservazione partecipante (capitolo primo).
Nelle successive pagine seguirò un filo logico che mi porterà ad
analizzare, come nel copione di sceneggiatura, prima i personaggi. Illustrerò
come si definiscono gli attori all’interno del rapporto di lavoro di cura e quali
mezzi utilizzano per acquisire le informazioni gli uni sugli altri. Verificherò in
particolare il grado di identificazione con il ruolo e, se questa fosse debole, quali
sono le motivazioni di una totale o parziale dissociazione dal ruolo (capitolo
secondo).
Nel terzo capitolo seguirò la trama stessa, ovvero descriverò quali
rappresentazioni mettono in scena gli attori gli uni davanti agli altri e all’interno
di quali cornici. Continuerò su questa linea anche nel capitolo quarto,
analizzando l’interazione tra gli anziani, i loro familiari e le lavoratrici in quanto
équipes drammaturgiche.
Infine, nell’ultimo capitolo sposterò l’attenzione sul problema più pratico
riguardante un’applicazione dei temi prima esposti. Userò i concetti relativi
all’arte di ascoltare di Marianella Sclavi per proporre alcune strategie concrete
nella comprensione, mediazione o assistenza nei conflitti tra datori di lavoro e
lavoratori di cura.
Il filo rosso del testo che segue è un continuo entrare e uscire tra la
cornice di lavoro e quella dei legami affettivi a seconda dei contesti. Quasi
come se gli attori dicessero: ti voglio bene…finché dura il contratto.
11
1. Osservazioni metodologiche
Durante le consulenze presso il Patronato Acli in merito al rapporto di
lavoro domestico, mi trovavo spesso a mediare i conflitti tra le parti, nei quali
entrambi, il datore e la lavoratrice, non avevano torto. Come il “giudice saggio”
dell’aneddoto di Marianella Sclavi4, oscillando tra le cornici interpretative mie e
loro, davo ragione ad entrambi o a nessuno. Così mi sono resa conto che molte
delle controversie erano, in realtà, dei rituali del “tira e molla” che esigevano
l’applicazione dell’ascolto attivo5 per essere risolte.
Premesso che l’obiettivo della presente ricerca è quello di comprendere i
punti di vista delle lavoratrici per intravedere la drammaturgia dei rapporti nel
lavoro di cura, la metodologia da adoperare deve essere quella di ascoltare e
partecipare. Dato che l’ambito dell’analisi riguarda l’intima vita familiare, i temi
affrontati in questa sede sono estremamente delicati, spesso imbarazzanti sia
per il datore di lavoro che per il lavoratore. Sarebbe quindi stato utile svolgere di
persona un’osservazione partecipante sul campo, vale a dire lavorare come colf
o badante per un periodo di tempo. L’osservazione diretta mi avrebbe dato la
“giustificazione” e la “certezza soggettiva” di illustrare dettagliatamente le
strategie delle interazioni e le relazioni in oggetto. In mancanza di tale
possibilità, ho svolto la ricerca con la metodologia di dieci interviste aperte alle
collaboratrici familiari.
1.1. Il campione e i requisiti per la selezione
In primo luogo è stato necessario scegliere come interlocutori soggetti con
caratteristiche tali da permetterli non solo di descrivere la loro condizione
lavorativa, ma anche di raccontare se stessi, di svelare i segreti della
quotidianità data per scontata. I requisiti intuitivi, che ho adottato per
selezionare le intervistate, sono stati principalmente due. Innanzitutto, la
capacità di sospendere per il tempo del colloquio la lealtà al datore di lavoro. E
in secondo luogo, l’attitudine ad usare l’imbarazzo scaturito dalle domande
impertinenti per vedere e far vedere i modelli di interazione propri della routine
del lavoro di cura. Le caratteristiche, che ho ipotizzato potessero corrispondere
a tali requisiti, sono state il soggiorno in Italia di almeno un anno, l’esperienza
lavorativa significativa, il titolo di studio medio o superiore, l’interesse di
partecipare ad attività diverse dal lavoro e l’orientamento verso il miglioramento
della propria condizione. Era inoltre desiderabile che le intervistate provenissero
da esperienze lavorative diverse - di maggiore prestigio - da quella attuale, e
quindi che fossero, consapevolmente o meno, alle prese con un processo di
costruzione di una nuova identità sociale. Supponendo che tali soggetti sono
meglio accessibili tramite le organizzazioni, ho usato come campione di
estrazione i 10256 utenti dei servizi dell’Ufficio Immigrati – Acli-Colf di Padova.
4
Marianella Sclavi: Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte.
Milano, Mondatori, 2003, p. 9. “ […] Il giudice ascolta il primo litigante con grande concentrazione e
attenzione e ‘Hai ragione’, gli dice. Poi ascolta il secondo e ‘Hai ragione’, dice anche a lui. Si alza uno
del pubblico: ‘Eccellenza, non possono avere ragione entrambi!’. Il giudice ci pensa sopra un attimo e
poi, serafico: ‘Hai ragione anche tu’.”
5
Concetto preso in prestito da: Marianella Sclavi: Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle
cornici di cui siamo parte. Milano, Mondatori, 2003.
6
Dato aggiornato al 26/10/2006.
12
Erving Goffman suggerisce che più notizie dettagliate abbiamo sugli
individui, più possiamo sapere in anticipo cosa aspettarci da loro e meglio
riusciamo ad agire per ottenere una determinata reazione (Goffman 2001, 11).
Per la selezione ho adottato un metodo etnografico, vale a dire, ho individuato i
soggetti da intervistare osservandoli durante le interazioni con gli operatori in
ufficio e fuori, durante incontri informali. Tale procedimento è stato necessario
ai fini della ricerca, in quanto ha permesso di creare reciproci rapporti di fiducia,
i quali hanno poi facilitato la comunicazione durante le interviste.
1.2. Le intervistate
Il criterio che si è rivelato importante per la scelta delle intervistate è stato
il vincolo di fiducia. Tuttavia, è stato altrettanto necessario, che tra intervistatrice
e intervistata non ci fosse un legame di amicizia, perché troppa familiarità
avrebbe compromesso l’intervista. Non si riuscirebbe ad instaurare
un’interazione “seria”, ovvero a focalizzarsi e rimanere nel contesto
dell’intervista. Alla fine ho individuato dieci donne che fanno parte di un gruppo
più vicino all’ufficio e avevo ragioni per supporre che non avrebbero difficoltà
nell’aprirsi al tipo di intervista proposta.
L’età delle intervistate è tra i 27 e i 57 anni7, tre donne sono moldave, tre
sono rumene, due bosniache (zia e nipote), una ecuadoriana e una bulgara.
Tutte sono in possesso del permesso di soggiorno, quindi hanno già
attraversato percorsi burocratici tipici dell’inserimento dei migranti nel mercato
del lavoro. Sono ben integrate nel territorio e partecipando ai corsi di
formazione o agli altri eventi di tipo associativo dimostrano l’interesse di uscire
dal puro contesto di lavoro e vivere anche altri tipi di esperienza.
Il livello di istruzione medio – alto8 e il fatto che nei loro paesi hanno svolto
professioni di alta responsabilità9 suggeriscono che queste donne hanno dovuto
apprendere il ruolo di assistente familiare a pagamento con le relative
conseguenze per l’identità sociale. Ciò che le accomuna è il fatto che nel
processo di socializzazione alla nuova collocazione sociale hanno utilizzato
diversi mezzi di apprendimento10 e di conseguenza “dispongono di una
versione del loro punto di vista presentato in termini intellettualizzati” (Goffman
2006b, 36). Sebbene non abbia ritenuto fondamentale ai fini della ricerca che
esse fossero “rappresentanti” della loro categoria, alcune intervistate aspirano a
diventarlo.11
Ho ipotizzato che tale capitale di esperienza biografica (Bertaux 1998, 45)
implica una capacità di guardare dall’alto la propria vita e di “non prendersi
troppo sul serio”, le qualità fondamentali per aiutarci a intravedere gli aspetti
drammaturgici del lavoro domestico, svelare i segreti che stanno dietro le
definizioni della situazione date per scontate.
7
Età: 48, 48, 29, 50, 57, 45, 29, 53, 27, 43.
8
Cinque donne sono laureate, quattro diplomate e una con licenza elementare. Quest’ultima, nonostante il
basso livello di istruzione, dimostra una sensibilità tale da poter fare parte del gruppo.
9
Tra le intervistate, una era responsabile di marketing di una azienda multinazionale, tre erano insegnanti,
una ragioniera, due controllori di qualità, una imprenditrice, una operaia qualificata e una casalinga.
10
Corsi di formazione per assistenti familiari sugli aspetti giuridici e culturali del lavoro domestico, corsi
per operatori socio-sanitari, partecipazione ai convegni sul tema ecc.
11
Claudia, rumena, 29 anni ha dichiarato ripetutamente nel corso dell’intervista di voler diventare la
“sindacalista delle badanti”.
13
1.3. Dall’intervista semi – strutturata all’intervista aperta
L’obiettivo delle interviste è stato quello di ottenere dei racconti sulla vita
quotidiana di una badante o di una colf in modo da poter ricostruire significati
inerenti alle strategie di interazione tra le lavoratrici e le famiglie. Non è stato
facile creare una traccia. Conoscendo le intervistate e la loro incessante voglia
di parlare, sapevo, che impostando le domande in maniera troppo larga, avrei
ascoltato le storie sugli argomenti più svariati tranne che quelli che mi
interessavano. Proponendo domande precise, invece, rischiavo di ottenere solo
le risposte sì - no e nessun racconto.
L’idea iniziale è stata quella di realizzare una intervista semi-strutturata.
Ho quindi preparato una traccia con tutte le domande che mi sono venute in
mente pensando alle storie raccontatemi dalle medesime o dalle altre badanti in
occasione degli incontri informali. Ho diviso la traccia in due sezioni: una
descrittiva e una valutativa. Nella prima parte ho inserito domande relative
all’attività lavorativa, al luogo di lavoro e agli aspetti contrattuali. Nella seconda
ho collocato le domande che inducono a dare giudizi sulla loro identità di
badante, sulle rappresentazioni che esse hanno sul conto dei datori di lavoro e
sulle relazioni con le famiglie. Questa ultima serie delle domande è stata
concepita sotto la forma di simulazione delle situazioni reali che potrebbero
accadere. Qui ho inoltre inserito le domande “imbarazzanti” (es. hai mai usato
di nascosto il telefono di casa?) che fanno in tale modo parte di una più ampia
serie di situazioni e sembra non facciano riferimento diretto all’intervistata.
Tuttavia, nello concreto svolgimento dell’intervista, ho usato la traccia
preparata sostanzialmente come la lista dei punti da tenere presente e dei temi
da approfondire. Nella maggior parte dei casi bastava chiedere: “raccontami
che lavoro fai” oppure “raccontami della tua ultima giornata di lavoro”, e le
risposte sono arrivate spontaneamente. Dopo una prova con una donna non
presente tra le intervistate ho rinunciato alla intervista semi-strutturata e ho
optato per un’intervista aperta.
1.4. Lo svolgimento delle interviste
La durata media delle interviste è stata di circa un’ora. La forma è quella di
un racconto di vita ovvero racconto di pratiche, con attenzione all’esperienza
vissuta come collaboratrice familiare immigrata e sugli episodi concreti di
interazione con l’assistito e i suoi familiari (Bertaux 1998, 40). Attraverso le
storie del tipo “che cosa è successo e come ti ha fatto sentire” ho cercato di far
loro aprire il mondo “banale” di quella attività che molti studiosi definiscono
socialmente invisibile (Rivas 2004; Alemani 2004; Corradini 2002-2003). Più
che intervistate, le mie interlocutrici sono state testimoni privilegiati, che mi
hanno fatto entrare, anche fisicamente12, nella quotidianità del lavoro e
annottare dettagliatamente lo svolgimento delle loro giornate lavorative.
La domanda chiave - “Descrivimi la tua giornata di lavoro” – ha suscitato
diverse reazioni dalle interlocutrici. Solitamente si mostravano perplesse, un po’
imbarazzate, e si trovavano in difficoltà nel riportare dettagli sul loro lavoro.
Alcune hanno cercato di evitare di rispondere, altre, partendo dalla descrizione
12
Ho fatto l’intervista con Elena nella casa dove vive e lavora. Mi ha mostrato la casa, spiegato la
divisione degli spazi e ho conosciuto l’assistito e sua moglie.
14
dei compiti, si sono addentrate nel descrivere l’universo relazionale, il quale
costituisce una parte fondamentale del lavoro. La reazione a questa domanda è
stata rivelatoria anche con riguardo alla percezione del sé come lavoratrici e
migranti. Infatti, se, come vedremo, la professione “badante” non costituisce la
parte determinante del self delle intervistate, anche le risposte riduttive o non-
risposte sono state indicative in tale direzione (vedi capitolo 3).
Cercando una definizione del self delle colf e badanti, ho fatto trasparire
l’impressione di insistere che esse si definiscano come tali. Occorre ammettere,
che durante le interviste, non ho potuto evitare un approccio di questo genere,
volendo studiare le interazioni nell’ambiente del lavoro domestico e di cura. In
effetti, ponendo un tipo di domande piuttosto che un altro, ho precluso alle
interlocutrici di definirsi all’infuori del loro essere donne migranti impiegate nel
settore di assistenza privata alle famiglie.
“Tra le esperienze vissute da un soggetto e il loro racconto s’interpongono
necessariamente un gran numero di mediazioni” (Bertaux 1998, 55), quali la
percezione, la memoria, la riflessività. Al di là dell’analisi testuale dei racconti,
tali mediazioni sono già di per sé delle rappresentazioni da esaminare.
L’obiettivo dell’intervista non è stato solo quello di raccogliere i contenuti, bensì
anche di osservare gli atteggiamenti, le reazioni, i gesti involontari, o meglio
dire, partecipare come pubblico alla rappresentazione che le interlocutrici danno
del sé. In tale modo, l’intervista stessa non è stata solo una tecnica, ma anche
un oggetto di studio.
1.5. Strumenti affini
Le interviste non sono state gli unici strumenti della ricerca. Per integrare il
materiale raccolto dalle interlocutrici e per dare un contrappeso alle loro
affermazioni “di parte”, mi sono servita delle osservazioni dei datori di lavoro e
loro familiari, che ho raccolto lavorando nell’Ufficio Immigrati delle Acli. A tal fine
ho usato il metodo etnografico, dato che per ovvie ragioni non ho potuto usare
alcun metodo di registrazione. Inoltre, seguendo suggerimento di altri studiosi
più esperti13 ho utilizzato le narrazioni e racconti giornalistici, in particolare il
romanzo di Paolo Teobaldi La badante, il libro di Louise Rafkin Lo sporco degli
altri e le storie di vita delle donne migranti ne La serva serve.
13
Erving Goffman e Gabriella Tornatore tra molti.