Introduzione
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1. Breve storia delle fibrille amiloidi
Nel 1854, il fisico tedesco Rudolph Virchow rivolse i suoi studi su macroscopiche
anomalie nel cervello umano (descritte per la prima volta nel fegato nel 1639, lardaceous
liver), presenti sotto forma di corpuscoli, a strati concentrici, somiglianti a grani di amido, i
corpora amylacea.
Questi corpuscoli, come l’amido, reagivano positivamente alla colorazione con iodio,
tingendosi di blu mentre tutti gli altri tessuti si coloravano di giallo. Invece, trattamenti con
iodio e acido solforico, utilizzati come test per la cellulosa nella membrana cellulare delle
piante (Unger, Goldmann, 1847), rivelavano il caratteristico colore violetto della cellulosa.
Ipotizzandole sostanze “cellulosa-simile”, Virchow coniò il termine “amiloide” (Cohen,
1986).
Studi successivi (Friedreich e Kekulè, 1859) dimostrarono invece la presenza, in queste
masse amiloidi, di materiale proteico, di una significativa quantità di azoto e, soprattutto,
l’assenza di carboidrati, per cui si pensò che l’"amiloide" fosse una proteina o una classe di
proteine che formavano ammassi strutturalmente amorfi.
Studi di microscopia con luce polarizzata (Divry e Florkin, 1927) hanno dimostrato che gli
accumuli di amiloide in un gran numero di tessuti, non colorati e colorati con Congo-red,
esibivano una birifrangenza positiva rispetto all’asse longitudinale dei depositi. La
colorazione con Congo-red impartiva una marcata anisotropia alla birifrangenza “verde
mela” delle fibrille amiloidi in situ. Pertanto, la birifrangenza dopo colorazione con Congo
Red fu il primo criterio adottato per definire l’amiloide.
Nel 1959, Cohen e Calkins, tramite studi di microscopia elettronica, dimostrarono che
depositi amiloidi di diversa origine esibivano tutti una comparabile ultrastruttura fibrillare
in sezioni fissate di tessuto: fasci di fibrille rigide e lineari, di larghezza compresa tra 60 e
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130 Å e lunghezza tra 1000 e 16000 Å. La morfologia fibrillare fu, dunque, il secondo
criterio tramite cui veniva definito l’amiloide.
Infine, analisi tramite diffrazione a raggi X di fibrille amiloidi isolate (Bonar et al., 1969;
Glenner et al., 1974) rivelarono che esse erano ordinate in una struttura secondaria detta
Cross-β. In tale struttura, lo scheletro del polipeptide assume la conformazione β−sheet e,
mentre i β-strands si orientano in modo perpendicolare all’asse fibrillare, la faccia del
foglietto β (antiparallela) è parallela all’asse fibrillare. Questo è l’ultimo criterio che viene
usato per definire l’amiloide.
2. La neurodegenerazione
Il morbo di Alzheimer, come molte altre gravi malattie neurodegenerative, tra cui la Corea
di Hungtington, il Morbo di Parkinson e l'Encefalopatia Spongiforme, è caratterizzato dalla
formazione e dall’accumulo di aggregati proteici nel cervello, che formano depositi
fibrillari altamente stabili e insolubili, le fibrille amiloidi (Glenner and Wong, 1984).
Si conoscono oggi almeno venti diverse patologie a cui ci si riferisce usualmente come
“malattie da disordine conformazionale proteico” (PCD, Protein Conformational Disease)
o “amiloidosi”. Queste condizioni patologiche si manifestano quando una proteina nativa
subisce un riarrangiamento conformazionale (misfolding) che, spesso, la porta ad assumere
una struttura tridimensionale errata. Ciò porta alla formazione di intermedi parzialmente
avvolti, che espongono al solvente zone idrofobiche normalmente nascoste all’interno della
struttura tridimensionale della proteina; in tal modo, si creano le condizioni per una
eventuale aggregazione delle catene polipeptidiche in strutture organizzate (Kelly, 1998).
La presenza di questi aggregati contenenti proteine in uno stato di folding non-nativo
induce un danno alla cellula, determinato da una perdita di funzione fisiologica (assenza di
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proteina attiva) e/o da un aumento di citotossicità, in quanto gli aggregati sono tossici per
se (Temussi et al., 2003).
Gli aggregati fibrillari tossici di specifici peptidi, proteine o di loro frammenti, vengono
ritrovati nei tessuti o nei compartimenti cellulari; ciò suggerisce fortemente l'esistenza di
un legame fra la formazione dell'aggregato e la comparsa della patologia. Tuttavia, sebbene
la correlazione esistente fra l'accumulo della proteina misfolded e la patologia sia
indiscutibile, i meccanismi che stanno alla base della citotossicità sono ancora poco chiari.
Fig. 1 In determinate condizioni la capacità del macchinario di controllo della qualità delle proteine viene
saturata e le proteine non ripiegate si accumulano, determinando disfunzioni di vario genere (Muchowsky et
Wacker, 2005).
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Fino a pochi anni fa, l’idea comune era che i pricipali agenti patologici fossero le fibrille
amiloidi. In supporto a questa ipotesi, numerosi studi hanno dimostrato che gli aggregati
βA sono tossici in vitro (Pike et al., 1993) e la tossicità è stata imputata alla specifica
morfologia fibrillare (Seilheimer et al., 1997). La co-localizzazione degli aggregati proteici
con i tessuti degenerati e l’associazione della loro presenza coi sintomi della malattia sono
un forte indizio del coivolgimento dei depositi amiloidi nella patogenesi (Soto, 2001).
Recentemente, è emersa una visione alternativa secondo cui non gli aggregati insolubili,
ma piuttosto gli intermedi oligomerici solubili sono la principale specie tossica. Studi su
cavie hanno mostrato come danni significativi ai tessuti e sintomi clinici appaiano prima
che sia individuato alcun aggregato, il che implica la presenza di un intermedio nel
pathway amiloidogenico che potrebbe essere la causa reale della patogenicità (Zerovnick,
2002).
A conferma di ciò, placche amiloidi sono state trovate anche in individui che non mostrano
i sintomi clinici dell’Alzheimer (Katzmann et al., 1988) e, negli individui affetti, la gravità
della patologia non sembra direttamente associabile alla densità delle placche (Terry et al.,
1981). Pertanto, è stato ipotizzato che l’aggregazione delle proteine in fibrille possa
rappresentare un evento protettivo che “libera” la cellula dalle specie tossiche prefibrillari,
quindi le fibrille non sarebbero altro che riserve finali stabili e “innocue” di tali forme
tossiche (Roher et al., 2000).
Il peptide, nel corso della fibrillogenesi, assembla in piccoli aggregati prefibrillari
metastabili e solubili. Questi oligomeri solubili, definiti anche ligandi diffusibili βA-
derivati, o ADDLs (A β-Derivates Diffusible Ligands), includono particelle sferiche di 2.7-
4.2 nm di diametro, che si formano precocemente, e strutture curvilinee dette protofibrille,
derivanti dall’unione delle particelle sferiche a formare “stringhe” (Hartley et al., 1999).
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Fig. 2 Modello generale di aggregazione di proteine denaturate. Le diverse strutture degli aggregati sono
state osservate al microscopio a forza atomica (Muchowsky et Wacker, 2005).
Poichè βA è un peptide anfipatico, gli oligomeri solubili possono organizzarsi in micelle
proteiche la cui formazione mostra una dipendenza critica dalla concentrazione (Kayed et
al., 2003). Gli oligomeri solubili sono stati ritrovati anche nel fluido cerebrospinale dei
pazienti affetti da Alzheimer (Pitschke et al., 1998) e la loro presenza, piuttosto che quella
delle placche, nel cervello umano è meglio correlata alla severità della patologia (Kayed et
al., 2003).
Di particolare interesse è il recente studio condotto da Kayed e collaboratori (Kayed et al.,
2003) che ha dato risultati piuttosto sorprendenti: un anticorpo (da siero policlonale
ottenuto tramite vaccinazione di coniglio) che riconosce in modo specifico gli intermedi
oligomerici solubili di βA, è in grado di legare sia le particelle sferiche, che compaiono
precocemente durante la fibrillogenesi, sia le protofibrille, presenti in tempi successivi,
indicando che entrambe mostrano, almeno in parte, una stessa struttura, riconosciuta
dall’anticorpo. Inoltre, lo stesso anticorpo è capace di reagire con gli aggregati oligomerici
e protofibrillari di molte altre proteine amiloidogeniche ( α-sinucleina, IAPP,
poliglutammina, lisozima, insulina umana e peptide del prione 106-126), riconoscendo
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quindi un epitopo conformazionale comune che è indipendente dalla sequenza
aminoacidica. Infine, saggi su colture cellulari di neuroblastoma umano (SH-SY5Y cells)
hanno rivelato che l’incubazione con tale anticorpo degli oligomeri di βA, e di tutte le altre
proteine sopra citate, portava ad una inibizione della tossicità, per cui tutte queste proteine
amiloidogeniche possiedono una analoga struttura che può mediare la tossicità tramite un
meccanismo comune.
Sembra che i piccoli oligomeri solubili possano interferire coi sistemi di trasduzione del
segnale, probabilmente legandosi ad una tirosina-chinasi importante nello sviluppo della
memoria (potenziamento sinaptico a lungo termine) e nella fosforilazione delle proteine
tau (Klein et al., 2001).
Le protofibrille isolate si sono rivelate tossiche poichè causano stress ossidativo alle
membrane e, in più, sembrano alterare l’attività elettrica dei neuroni e indurli a morte,
attraverso rapidi aumenti in EPSPs (Excitatory Post-Synaptic Potentials), nei potenziali
d’azione e nella depolarizzazione delle membrane (Hartley et al., 1999).
Secondo l’"Ipotesi canale", gli aggregati oligomerici tossici formerebbero “pori” aspecifici
nelle membrane delle cellule bersaglio, con profondi squilibri nell’omeostasi ionica
(soprattutto del calcio), che condurrebbero le cellule a morte (Arispe et al., 1993).
Infine, molti autori concordano sul fatto che le caratteristiche strutturali degli aggregati
amiloidi, sia a livello di protofibrille che di fibrille, si riflettano in modificazioni
biochimiche precoci nelle cellule che li “ospitano”, che si traducono in un indebolimento o
in un sovraccarico dei meccanismi di difesa (chaperone molecolari e via dell’ubiquitina-
proteasoma) e conseguente morte cellulare per necrosi o apoptosi. Inoltre, specifiche
mutazioni inattivanti o condizioni ambientali sfavorevoli (shock da calore o stress
ossidativi, per esempio) possono causare il malfunzionamento dei macchinari di controllo
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cellulari, con incremento del numero di proteine misfolded o unfolded e loro eventuale
aggregazione (Bucciantini et al., 2002).
3. Il Morbo di Alzheimer
Nel 1906, Alois Alzheimer, giovane neurologo tedesco, descrisse in una donna di
cinquant’anni una insolita patologia, che le aveva provocato perdita di memoria,
disorientamento, allucinazioni e l’aveva infine condotta a morte.
Nel 1907, lo scienziato espose il caso alla Convenzione psichiatrica di Tubingen,
sottolineando che l’autopsia del cervello della paziente aveva mostrato una scarsità di
neuroni nella corteccia cerebrale e la presenza di due distinti tipi di lesioni cerebrali:
depositi extracellulari e fasci intracellulari di grovigli neurofibrillari. Queste lesioni oggi
sono considerate le caratteristiche patologiche invarianti del Morbo di Alzheimer (Temussi
et al., 2003).
Fig.3 Rappresentazione schematica di un confronto fra neuroni sani e neuroni con le caratteristiche
patologiche del morbo di Alzheimer (http://w3.uokhsc.edu).
Il Morbo di Alzheimer viene oggi definito come un disordine neurodegenerativo
progressivo, caratterizzato da perdita di memoria e cambiamenti nella personalità. Poichè
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