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Abbiamo scelto di studiare i due conflitti avvenuti in Centro America
rispettivamente nel 1983 e nel 1989 poiché essi sono stati i primi
interventi armati messi in atto dagli Stati Uniti dopo la guerra del
Vietnam e costituiscono per questo una tappa significativa nella storia
dell’informazione in guerra. Il conflitto di Grenada rappresenta infatti la
prima occasione per il governo statunitense di mettere in atto la lezione
appresa in Vietnam. L’intervento a Panama rappresenta invece un punto
di continuità e insieme di rottura rispetto a quanto è avvenuto a Grenada.
Continuità perché le strategie di controllo dell’informazione attuate nel
1989 presentano delle somiglianze rilevanti con quelle messe in atto nel
1983; rottura perché nel 1989 il contesto internazionale è ormai cambiato
e questo costringe il governo degli Stati Uniti a ridefinire alcuni aspetti
di tali strategie di controllo dell’informazione, così che queste possano
essere applicate anche in occasione di guerre future.
Per capire perché i conflitti di Grenada e di Panama costituiscono una
tappa significativa nella storia dell’informazione in guerra, ripercorriamo
l’evoluzione delle strategie di controllo dell’informazione applicate dai
governi belligeranti in occasione degli ultimi conflitti.
La moderna storia dell’informazione in guerra ha inizio nel gennaio
1854, quando Francia e Gran Bretagna inviano le loro truppe in Crimea
per affiancare l’esercito turco contro la potenza russa. È questa la prima
occasione in cui la stampa si trova attivamente coinvolta in un conflitto,
nel ruolo di vittima della censura da un lato, e nel ruolo di strumento in
grado di minacciare il potere politico dall’altro. Protagonista di questa
prima tappa della storia dell’informazione in guerra è il quotidiano
inglese “The Times”, che, allo scoppio del conflitto in Crimea, invia sul
campo di battaglia il proprio corrispondente, William Howard Russell, le
cui critiche mosse al comando dell’esercito britannico arrivano a
provocare le dimissioni del governo presieduto da Lord Aberdeen. Il
3
conflitto in Crimea rappresenta quindi la prima tappa della moderna
storia dell’informazione in guerra, poiché è in quest’occasione che la
stampa si confronta per la prima volta con il tentativo di limitare il flusso
delle informazioni messo in atto dalle forze armate, ed è in questa
circostanza che la stampa si presenta per la prima volta come attore in
grado di influenzare il potere politico. Gli effetti provocati dagli articoli
di Russell, d’altra parte, sono la diretta conseguenza del nuovo ruolo
assunto dai mezzi di comunicazione. Nel corso del XIX secolo, infatti, la
diffusione dell’alfabetizzazione e il conseguente aumento del numero dei
lettori di giornali, fenomeni che si verificano per effetto della rivoluzione
industriale e dello sviluppo economico
1
, segnano l’avvento di un nuovo
attore sociale: l’opinione pubblica. Nel corso dell’Ottocento cresce il
numero di persone che vogliono e che hanno la possibilità di informarsi,
persone che leggono i giornali e che vengono influenzate da quanto i
giornali scrivono, ma soprattutto persone che presto acquisiranno anche
il diritto di voto. La nuova situazione sociale costringe quindi i governi a
confrontarsi con l’opinione pubblica e a giustificare le proprie scelte
davanti ad essa. E la censura e la propaganda, in tempo di pace come in
tempo di guerra, diventano da questo momento uno strumento di cui i
governi hanno un assoluto bisogno per garantirsi il sostegno
dell’opinione pubblica. E i mezzi di comunicazione, che mettono in
contatto opinione pubblica e governo, e che permettono all’opinione
pubblica di controllare l’operato del governo, rappresentano
inevitabilmente lo strumento di cui servirsi per creare il consenso e per
assicurarsi l’appoggio dei cittadini, soprattutto in tempo di guerra. Per
queste ragioni, dopo il conflitto in Crimea, tutte le guerre combattute
saranno sempre accompagnate dal tentativo, messo in atto dai governi, di
controllare il più possibile il flusso delle informazioni. Da questo
1
Giovanni Gozzini, Storia del giornalismo, Milano 2000, p. 8.
4
momento, i mezzi di comunicazione dovranno confrontarsi
costantemente con la censura (messa in atto dai comandi militari con la
giustificazione che certe informazioni, se diffuse, potrebbero favorire il
nemico) e con la propaganda dei governi (intesa come connubio tra
informazioni e idee, come consapevole tentativo di spingere le persone a
pensare e a comportarsi in un certo modo o a sostenere determinati
comportamenti
2
). Propaganda e censura, sebbene siano sempre esistite,
da questo momento diventano per i governi uno strumento di vitale
importanza per la gestione del potere, e una realtà con cui i mezzi di
comunicazione dovranno sempre fare i conti.
Quando nel 1914 scoppia la prima guerra mondiale, i governi dei
paesi coinvolti sono ormai consapevoli del potere che la stampa è in
grado di esercitare sull’opinione pubblica, e prendono quindi dei
provvedimenti speciali per gestire e controllare le informazioni. Nel
corso del primo conflitto mondiale, i flussi informativi vengono
monopolizzati dai governi: vengono istituiti dipartimenti speciali con la
funzione di attuare la censura sulle notizie militari e di orientare la
stampa in senso patriottico, e vengono approvate leggi ed emanati decreti
che consentono ai governi di limitare la libertà di espressione
3
. La prima
guerra mondiale coincide quindi con un deciso intervento dello stato nel
mondo dell’informazione, e la situazione rimane sostanzialmente
invariata nel corso della seconda guerra mondiale. Anche in questo caso,
i governi attuano la censura e mettono in atto una massiccia azione di
propaganda per spingere i cittadini a sostenere lo sforzo bellico della
nazione.
Nel secondo dopoguerra, il conflitto che più degli altri suscita
l’interesse dell’opinione pubblica e che segna un’ulteriore tappa nella
2
Philip M. Taylor, Munitions of the mind, Manchester 1995, p. 6.
3
Giovanni Gozzini, Storia del giornalismo, Milano 2000, p. 201.
5
storia dell’informazione in guerra è senza dubbio il conflitto del
Vietnam, il conflitto non censurato. Principale fautore di questa svolta è
il generale William Westmoreland, Comandante in capo delle forze
armate statunitensi in Vietnam dal giugno del ’64. Il generale
Westmoreland è infatti intenzionato ad avviare una politica di larga
costruzione del consenso, consentendo ai media la massima libertà di
movimento. Da questo momento, l’azione di censura esercitata dai
militari raggiunge i suoi minimi storici, e tutto ciò che i giornalisti
devono fare per poter operare liberamente in Vietnam è firmare una
dichiarazione di impegno sul rispetto della sicurezza militare. Dopo la
firma, il reporter riceve un documento ufficiale di accredito che lo
autorizza a rivolgersi alle autorità militari e a chiedere tutto l’appoggio
che egli ritenga necessario. In sostanza, durante la guerra del Vietnam i
reporter godono di una libertà di azione prima sconosciuta e hanno
quindi la possibilità di muoversi sul territorio indocinese, di osservare
l’operato delle forze armate e di essere davvero testimoni di quanto sta
accadendo. Ma, soprattutto, i corrispondenti di guerra hanno ora la
possibilità di confrontare ciò che vedono con le dichiarazioni ufficiali
rilasciate nel corso delle conferenze stampa del comando militare, che si
tengono ogni giorno alle 5 del pomeriggio (quelle che sarebbero poi state
ricordate come le “follie delle 5”). In altre parole, quei reporter che non
si accontentano delle dichiarazioni ufficiali e che invece preferiscono
spostarsi e conoscere davvero la guerra, hanno ora la possibilità di
verificare sul campo la veridicità dei bollettini ufficiali e, se necessario,
di smentire le dichiarazioni del comando militare. La presenza massiccia
dei corrispondenti di guerra permette quindi all’opinione pubblica di
avere informazioni non ufficiali sul modo in cui stanno andando le cose
in Vietnam e di conoscere quindi la realtà del conflitto indocinese. In
altre parole, accanto alla propaganda del governo statunitense, circola
6
ora un’informazione, non controllata dalle forze armate, che racconta
senza censure la realtà dei fatti. Ma, cosa ancora più significativa, una
quota consistente di questa informazione raggiunge i fruitori sotto forma
di immagini. Quella del Vietnam è infatti la prima guerra in cui si
registra la presenza massiccia e organica della televisione, un medium
che mostra senza censure le atrocità che si verificano in Indocina e che
porta davvero la guerra nelle case degli americani
4
. Così, mentre il
numero dei reporter attivi in Vietnam cresce in maniera esponenziale,
fino ad arrivare ai 637 corrispondenti del 1968, crescono anche
l’interesse e il coinvolgimento dei cittadini statunitensi. E saranno
proprio le immagini televisive, capaci di dare ad ogni spettatore
l’illusione di essere testimone diretto della guerra, a suscitare la reazione
dell’opinione pubblica statunitense. Lo sdegno e i cori di protesta
provocati dalla guerra in Vietnam naturalmente suscitano la
preoccupazione del governo statunitense e finiscono per creare non pochi
problemi all’amministrazione Johnson. L’interesse suscitato dai
movimenti di protesta è tale che, ben presto, molti arrivano addirittura ad
attribuire alla televisione la responsabilità della sconfitta americana in
Indocina. Naturalmente si tratta di una conclusione errata: se gli Stati
Uniti sono stati sconfitti, è stato perché il conflitto vietnamita è stato
affrontato nel modo sbagliato, dal punto di vista strategico, dal comando
militare statunitense. D’altra parte, anche se la televisione non è la causa
della sconfitta, il governo Usa non tarda ad apprendere la lezione del
Vietnam: la libera circolazione delle informazioni, in forma di parole e
soprattutto di immagini, ha un’enorme influenza sull’opinione pubblica e
può mettere in seria difficoltà coloro che sono al potere. La lezione della
guerra del Vietnam è che se non si esercita un controllo sui mezzi di
4
Joshua Meyrowitz, Oltre il senso del luogo, Bologna, 1995.
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comunicazione e sui flussi di informazione, il potere che i media hanno
sull’opinione pubblica può rendere davvero difficile l’operato del
governo. L’informazione può destabilizzare il potere, e per questo deve
essere in qualche modo controllata. In una società democratica, però, non
è possibile attuare la censura in maniera evidente e sistematica. Bisogna
piuttosto creare il consenso attraverso una massiccia e sottile azione di
propaganda, e controllare le informazioni in maniera sistematica e non
troppo evidente. È da questo momento che scaturisce l’idea di creare
attraverso il news menagement, la gestione dei media, l’illusione della
guerra chirurgica, asettica, pulita, capace di non creare vittime. E nasce
ora l’idea di controllare le informazioni in maniera tale da dare al
pubblico l’illusione di sapere e, nello stesso tempo, da nascondere
all’opinione pubblica gli aspetti più brutali della guerra.
Nella primavera del 1982, la guerra delle Falkland-Malvinas si
presenta subito come la prima occasione per applicare la lezione appresa
in Vietnam. Il 2 aprile 1982, per ordine della giunta militare al potere, i
marines argentini attaccano la guarnigione ingese alle isole Falkland, da
tempo rivendicate dall’Argentina come territorio nazionale. Dopo un
mese di inutili tentativi per una composizione negoziale del conflitto, il
governo inglese decide infine di bombardare le isole Falkland. Le
operazioni belliche hanno inizio il 1° maggio con il bombardamento
inglese di Port Stanley e si concludono dopo poche settimane con la
vittoria della flotta britannica.
Per quanto riguarda i flussi informativi, in questa circostanza il
comando militare britannico sceglie di esercitare un rigido controllo sulla
circolazione delle informazioni. Favorite dalla posizione geografica del
teatro di guerra (un gruppo di isolotti situati nell’Atlantico, vicino al
Polo Sud), le autorità militari britanniche impediscono sistematicamente
ai reporter di raggiungere le isole Falkland, e i pochi giornalisti che
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hanno la possibilità di avvicinarsi al campo di battaglia sono quelli, tutti
inglesi, selezionati dal comando britannico e imbarcati sulle navi della
Royal Navy. In questo modo, i militari possono tenere i reporter lontani
da Port Stanley, dove infuria la battaglia, e fare in modo che non
assistano alle prime fasi del combattimento, le più difficili e
drammatiche. Inoltre, il comando militare britannico può anche
censurare, per ragioni strategiche, il contenuto dei messaggi che i
reporter vogliono mandare in Inghilterra, i quali devono passare
attraverso il radiotelefono militare di bordo. Dal punto di vista del
controllo esercitato sull’informazione, la guerra delle Falkland-Malvinas
si risolve quindi in un successo. Selezionando i reporter da imbarcare,
impedendo agli inviati di raggiungere il campo di battaglia e censurando
le corrispondenze inviate alle redazioni dei giornali inglesi, il governo
britannico riesce a controllare scrupolosamente i flussi informativi e ad
evitare che vengano diffuse notizie che potrebbero suscitare la protesta
dell’opinione pubblica. L’alto grado di news management esercitato
dalle autorità militari britanniche si rivela quindi una strategia vincente,
destinata ad essere applicata anche in occasione di guerre future.
I conflitti immediatamente successivi alla guerra delle Falkland-
Malvinas sono proprio quelli di Grenada nel 1983 e di Panama nel 1989,
ed è proprio su questi interventi armati che noi concentreremo la nostra
attenzione. Attraverso l’analisi degli articoli pubblicati dai principali
quotidiani italiani, cercheremo di capire se anche il governo degli Stati
Uniti ha applicato la lezione del Vietnam, come ha fatto il governo
inglese nella primavera del 1982, esercitando un rigido controllo sui
flussi informativi e limitando la libertà di azione dei reporter.
Cercheremo insomma di capire se anche il governo Usa ha applicato una
strategia di controllo dell’informazione basata su due presupposti di
fondo: da un lato, è impossibile impedire ai mezzi di comunicazione di
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essere testimoni degli eventi; dall’altro, i mezzi di comunicazione
devono comunque essere in qualche modo controllati, gestiti e resi
inoffensivi.
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Il contesto internazionale
L’invasione di Grenada si colloca all’interno di un contesto
internazionale ancora segnato dal confronto tra Unione Sovietica e Stati
Uniti. Sebbene le due superpotenze abbiano ormai cominciato a
percorrere la via della distensione, la rivalità tra i due blocchi è ancora
rilevante e induce le due superpotenze a dimostrare alla controparte e
agli alleati la propria fermezza di propositi. I giorni dell’attacco a
Grenada coincidono, in particolare, con una fase di acuta ostilità, segnata
dal congelamento delle trattative sul disarmo a Ginevra. Nello stesso
periodo, inoltre, è in corso la discussione sull’imminente installazione
dei missili statunitensi in Europa; mentre l’Urss ha da poco annunciato
di essere pronta a schierare i propri missili nucleari in Germania
orientale e in Cecoslovacchia, ai quali si aggiungeranno gli Ss-20 che
dalla Siberia nord-orientale potranno tenere sotto tiro l’Alaska e le città
settentrionali della costa pacifica statunitense.
Il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, però, non si
esaurisce in ambito diplomatico, ma continua a coinvolgere paesi terzi,
che diventano così teatro dello scontro tra le due superpotenze. Nei
giorni dell’aggressione a Grenada, gli Stati Uniti sono impegnati in
Libano, in un periodo in cui il paese è sconvolto dalla guerra civile fra i
diversi gruppi religiosi che in esso convivono. Gli Usa sono poi
impegnati in Nicaragua, paese guidato dal 1980 dal Fsln (Fronte
sandinista di liberazione nazionale), dove finanziano e sostengono la
guerriglia dei contras (abbreviazione di contrarevolucionarios) contro la
giunta di sinistra al potere. Alcuni consiglieri militari statunitensi sono
invece impegnati a El Salvador, dove sostengono il presidente Duarte
contro la guerriglia del Fronte Farabundo Martì; mentre in Honduras
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sono presenti circa 1.200 soldati nordamericani, che, oltre ad intervenire
direttamente nelle operazioni belliche, danno istruzioni militari e
appoggio logistico ai controrivoluzionari nicaraguensi. In sostanza, la
situazione internazionale nel 1983 è ancora segnata dalla tensione tra i
due blocchi, e l’America Centrale è una delle zone del mondo in cui
questo confronto si concretizza in scontri armati veri e propri.
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Breve storia di Grenada
L’isola di Grenada si trova tra il Mar dei Caraibi e l’Oceano
Atlantico, ha una superficie di 344 Km² e nel 1983 ha una popolazione di
110 mila abitanti. Indipendente dal 7 febbraio 1974, il Paese viene
guidato per anni da Eric Gairy, primo premier di Grenada, in seguito
proclamatosi presidente. Nei primi anni Settanta, Maurice Bishop,
Unison Whiteman e Bernard Coard fondano l’Unione congiunta per
l’educazione, il benessere e la liberazione: un nome la cui sigla è Joya, in
spagnolo “gioiello”. Per questo, in inglese, la lingua parlata a Grenada, il
nuovo partito di ispirazione marxista prende il nome di New jewel
movement (Njm). Il 13 marzo del 1979, mentre Eric Gairy si trova a
New York per parlare all’Onu, Bishop attua un colpo di stato, prende il
potere e instaura un governo socialista. Nei quattro anni successivi, il
Njm cerca di governare ispirandosi all’indipendentismo di Cuba rispetto
agli Stati Uniti, ma cerca anche di mantenere una linea autonoma per
Grenada. L’amicizia tra Bishop e Fidel Castro influenza comunque in
maniera profonda la vita dell’isola, e ben presto il modello cubano
penetra dappertutto.
Il tentativo socialista messo in atto dal Njm ha fine il 16 ottobre
del 1983 ad opera dei militari. Diciotto ufficiali dei servizi segreti
dell’esercito attuano un colpo di stato, rovesciano il governo di Bishop e
creano il Consiglio militare rivoluzionario, guidato dal generale Hudson
Austin. Bishop viene arrestato e il 19 ottobre viene giustiziato a Fort
Rupert insieme ai suoi ministri.
L’avvento al potere della giunta militare di sinistra determina
l’intervento armato degli Stati Uniti e di sei stati caraibici, che attaccano
Grenada martedì 25 ottobre.
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Alle cinque del mattino, sbarca sull’isola un contingente composto
da 1.700 soldati statunitensi (tra rangers e marines), appoggiati da una
flotta di 11 unità, che comprende anche la portaerei Independence e la
nave d’assalto Guam. Il contingente americano è affiancato da 300
soldati in rappresentanza di Antigua, Dominica, Saint Lucia, Saint
Vincent, Barbados e Giamaica.
Per quanto riguarda l’atteggiamento tenuto dal governo Usa nei
confronti della stampa durante il conflitto di Grenada, ci sembra
opportuno sottolineare già ora che la strategia usata dalle autorità militari
statunitensi, per controllare e gestire le informazioni nei giorni
dell’invasione, consiste essenzialmente nel tenere i reporter lontani dal
campo di battaglia. Nei primi giorni dell’invasione, a nessun giornalista
viene data la possibilità di raggiungere Grenada, e i quotidiani sono
quindi costretti a fare affidamento soltanto sulle notizie diffuse dalle
fonti ufficiali statunitensi. Al di là di una breve visita guidata concessa il
27 ottobre ad alcuni reporter nordamericani, il comando militare Usa
vieta sistematicamente ai giornalisti di raggiungere Grenada fino al 29
ottobre, quando circa trecento inviati sbarcano a Barbados, isola situata a
pochi chilometri da Grenada. Quel giorno il comando militare Usa
accorda ad alcuni reporter il permesso di visitare l’isola occupata, ma i
giornalisti scelti per questa “visita guidata” sono soltanto dodici e
provengono dagli Stati Uniti o dai Paesi caraibici che hanno partecipato
all’invasione. I reporter provenienti dagli altri paesi dovranno invece
attendere almeno fino al 31 ottobre prima di poter raggiungere Grenada.
Per quanto riguarda i quotidiani che abbiamo scelto di analizzare
per verificare il livello di news management esercitato dalle autorità
militari statunitensi, essi sono “Corriere della Sera”, “la Repubblica”,
“l’Unità”, “il manifesto”, “Secolo d’Italia” e “Avvenire”.
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Ad inviare dei reporter a Grenada sono soltanto “Corriere della
Sera”, “la Repubblica” e “il manifesto”, che mandano rispettivamente
Giangiacomo Foà (i cui primi articoli da Barbados sono datati 29
ottobre), Stefano Malatesta (le cui prime corrispondenze da Grenada
portano la data del 31 ottobre) e Lucia Annunziata (che arriva a Grenada
soltanto il 2 novembre). Per il resto, gran parte degli articoli pubblicati
dai quotidiani portano la firma dei corrispondenti da New York e da
Washington, a testimonianza del fatto che le notizie più significative
vengono diffuse dalle autorità governative statunitensi.
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1. Le ragioni del conflitto
1.1 Motivazioni economiche e motivazioni ufficiali
Il primo aspetto della guerra di Grenada di cui ci occupiamo è
costituito dalla causa del conflitto, ovvero le motivazioni addotte dal
governo statunitense per spiegare l’attacco armato. Proprio in virtù del
fatto che in questo periodo il mondo è ancora dominato dal confronto tra
le due superpotenze, l’invasione di Grenada è caratterizzata da un
elemento di fondo: la necessità di contenere la minaccia comunista viene
presentata come un’importante motivazione dell’aggressione. Le
motivazioni dell’aggressione – dichiarate o presunte – sono quindi al
centro della maggior parte degli articoli pubblicati nei giorni
dell’invasione.
La principale motivazione dell’intervento statunitense a Grenada
si inserisce appunto nell’ambito del confronto tra Usa e Urss ed è quindi
una motivazione di natura essenzialmente ideologica. La presenza di un
paese socialista, allineato con Mosca e L’Avana, non lontano dalle coste
nordamericane, in una zona del mondo che si trova da sempre nell’orbita
statunitense e che in questi anni è sconvolta dalla guerriglia, non può
certo lasciare indifferente il governo degli Stati Uniti. Soprattutto per
questioni di natura economica. Un governo di sinistra, che cerca da anni
di percorrere le vie di un dirigismo socialista, ostacola infatti il controllo
tradizionalmente esercitato dagli Stati Uniti sull’economia dei paesi del
Centro America. Grenada, in particolare, riveste un ruolo importante
nell’ambito degli interessi economici statunitensi, e questo per due
ragioni di fondo.