maggior critico sia il principale teorico della democrazia diretta
(o, almeno, di quella che oggi non possiamo fare a meno di
chiamare così, ma che certo non era definita tale da Rousseau),
dunque, vedevano nell’elemento della competenza fisica del
popolo il connotato essenziale di quella forma di governo. Tra la
democrazia ed il regime rappresentativo, tutti i classici hanno
sempre tracciato una nettissima linea divisoria, chiarendo la
radicale differenza che le separa. Se è così, si deve allora
riconoscere che l’espressione “democrazia diretta” è affetta da
un pleonasmo e che l’espressione “democrazia rappresentativa”
costituisce un ossimoro. Dove c’è democrazia, infatti, c’è
decisione popolare diretta (nel senso appena indicato); invece,
dove vi è rappresentanza non v’è democrazia. La distinzione,
ben tracciata, di là dall’Atlantico da Madison (con la sua
opposizione tra la pure “democracy” e la “republic”) trovò,
peraltro, la sua più chiara formulazione in Sieyès,
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nel suo
decisivo intervento nella Costituente, il 7 settembre 1789: il
“concours immédiat” alle decisioni pubbliche è quello che
“caractérise la véritable démocratie”; il “concours médiat”,
invece, “désigne le gouvernement represéntatif”. Pertanto, “la
différence entre ces deux systèmes politiques est énorme”.
Tutto, dunque era molto chiaro. Oggi, è evidente, il ritorno alla
nitida differenziazione originaria dei concetti appare
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Sieyès Emmanuel-Joseph (1748 – 1836): uomo politico e abate francese. Sostenne le
rivendicazioni del terzo stato nel noto opuscolo Che cos’è il terzo stato? Deputato alla
costituente e alla convenzione nazionale, membro del de direttorio (1799), fu artefice del
colpo di stato del l8 brumaio.
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improponibile, mentre inevitabile sembra il piegarsi all’esigenza
di precisare meglio – predicandolo di qualificazioni ulteriori – a
quelle dei molti possibili significati si intenda riferirsi quando si
impiega il termine “democrazia”. Democrazia diretta e
democrazia rappresentativa sono, dunque, formule dalle quali
non si può prescindere. La democrazia diretta, è e resta ancora
quella dei classici, e cioè quella del “popolo adunato”, perché se
questa espressione si utilizza – invece – per denotare istituti
partecipativi che si innestano nel sistema rappresentativo si
generano formidabili equivoci e fraintendimenti, tutti legati
all'idea che, in simili istituti, vi sia davvero un elemento di
“diretta” decisione popolare in senso proprio, il che non è. In
realtà, specie nelle società complesse, ogni forma di governo ed
ogni tecnica di decisione politica comportano la mediazione.
Nelle società pluralistiche (che ben vedere, sono caratterizzate
dall’articolazione in gruppi, soggetti, collettivi, corpi intermedi,
specificatamente votati alla capacità di mediazione tra cittadini e
decisione politica) una interpositio fra il popolo e la decisione
politica è, anche quando quella decisione viene imputata al
popolo medesimo e ad una sua “diretta” manifestazione di
volontà, inevitabile. In primo luogo, perché l’opinione pubblica
si forma e si articola solo grazie alla mediazione dell’attività di
partiti e gruppi, o almeno (anzi: soprattutto, laddove gruppi e
partiti sono deboli) dei mezzi di informazione. In secondo
luogo, perché l’agenda politica è solo in minima parte
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determinata “dal basso”; in terzo luogo, perché il quesito
sottoposto al popolo è sempre eterodeciso; in quarto luogo,
perché l’interpretazione della volontà popolare, una volta che
questa si è manifestata, è affidata pur sempre a soggetti
istituzionali o sociali che sanno perfettamente se e come
manipolarla e – addirittura – se e come darle esecuzione.
Nei sistemi democratici di oggi è necessaria la mediazione di
particolari organismi che rappresentano i cittadini e che possono
orientare le loro attività e le loro scelte politiche: tali organismi
sono i partiti politici, che costituiscono l’anello di congiunzione
tra le istituzioni rappresentative (il Parlamento) e la volontà
popolare.
Ma che cosa sono i partiti politici ? Essi possono essere definiti
come associazioni di persone che hanno le stesse idee e gli stessi
interessi e che, attraverso un’organizzazione stabile, hanno
l’obbiettivo di influenzare l’indirizzo politico del Paese. Le
principali funzioni dei partiti politici negli Stati Federali,
nell’Europa e del resto in tutti gli altri Paesi democratici, sono
quattro. Essi hanno il compito di “formare“ gli elettori dal punto
di vista ideologico e politico; selezionano i candidati da
presentare nelle liste elettorali in occasione delle elezioni
politiche o amministrative; inquadrano le persone che vengono
elette attraverso la disciplina di partito; e garantiscono la
comunicazione tra elettori ed eletti nell’intervallo tra
un’elezione ed l’altra. In tutte le costituzioni degli stati
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democratici i cittadini possono associarsi liberamente per
raggiungere tutti quegli obbiettivi che non siano vietati alle
singole persone dalla legge penale vigente in questi paesi.
Quindi vediamo che tutti i cittadini hanno il diritto di associarsi
liberamente in partiti per concorrere “con metodo democratico“
a determinare la politica nazionale. L’espressione “con metodo
democratico” è stata interpretata in modi diversi. Molti al
giorno d’oggi sono d’accordo nel ritenere che essa implichi il
divieto assoluto di usare qualsiasi forma di violenza fisica o
morale per imporre determinate idee o scelte politiche, mentre
non sembra che tutte le norme che disciplinano tale materia
obblighino i partiti ad adottare al loro interno una struttura
democratica che garantisca a tutti gli associati una uguale
partecipazione all’attività di partito. Centinaia di migliaia di
cittadini sono impegnati in associazioni, comitati, campagne,
movimenti per fare quella che a seconda dei casi viene definita
politica del basso, politica diffusa, molecolare. Si tratta di
organizzazioni e persone che si danno da fare per influenzare le
scelte generali, ottenere il rispetto e la promozione dei diritti
fondamentali, per la difesa del proprio territorio, per concorrere
nel posto dove vivono alle scelte quotidiane degli
amministratori pubblici. Ce ne sono molte altre che vorrebbero
farlo, ma spesso non riescono ad organizzarsi, non hanno gli
strumenti giusti per dare seguito alle proprie intenzioni. Se per
politica si intende la ricerca e la promozione del “bene comune”
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(o dei beni comuni, dai quali dipende la qualità della nostra
vita), della cura e del bene della propria polis, della
realizzazione della “volontà generale”, ebbene queste centinaia
di migliaia di persone fanno politica, anche senza i partiti.
Facendo riferimento all’epoca classica, il Dizionario di politica
di, Bobbio
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, Pasquino, Matteucci ricorda: “Derivato
dall’aggettivo polis (politikos), significante tutto ciò che si
riferisce alla città, e quindi cittadino, civile, pubblico, e anche
socievole e sociale” (Bobbio et al.1976). Qui, la politica – prima
della sua professionalizzazione e della sua costituzione in
scienza e pratica separata nell’epoca moderna – coincide con il
sociale e si identifica, oggi, con i tanti cittadini impegnati in
associazioni, movimenti, organizzazioni della società civile. La
differenza tra le organizzazioni della politica diffusa e i partiti è
sostanzialmente nelle funzioni dell’esercizio della
rappresentanza politica ed elettorale, della selezione del
personale politico e della gestione della cosa pubblica: i partiti a
differenza delle organizzazioni partecipano alle elezioni, si
fanno eleggere, esercitano (quando vincono) funzioni di
governo e amministrative. La politica è certamente questo, ma
anche molto altro. Quando si usa la parola politica la si associa
generalmente e solamente ai partiti. Per questo motivo e per
tanti altri che riguardano la storia delle istituzioni e della società
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Bobbio Norberto : giurista e filosofo nato a Torino nel 1909. Tra le sue opere
ricordiamo Teoria della scienza giuridica, il Giusnaturalismo e Positivismo giuridico.
Autore di ricerche storiche e attivo nel dibattito politico, su posizioni di socialismo
liberale: Destra e Sinistra (1994).Senatore a vita dal 1984.
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del secondo dopoguerra, i partiti hanno goduto di un primato
che ha avuto due risvolti importanti. Uno, molto concreto:
vantaggi e privilegi economici, rendite di potere, occupazione
delle istituzioni. Il secondo nell’immaginario collettivo: i partiti
come custodi e depositari della politica tout court. Così non è.
Come si è visto in tanta parte della storia del mondo, la
realizzazione delle “volontà generale” e la determinazione delle
politiche nazionali delle nazioni sono avvenute anche per la
spinta decisiva di movimenti, campagne, associazioni che,
grazie alla partecipazione e al consenso di tanti cittadini, hanno
contribuito a cambiare gli assetti istituzionali, la legislazione
sociale ed economica, gli indirizzi di governo. I partiti di massa
hanno avuto un ruolo centrale nel secondo dopoguerra nel
garantire un forte tessuto democratico e civile. La stagione dei
partiti di massa è stata una lunga parentesi (a parte gli albori,
quella dello scontro ideologico del secondo dopoguerra) dentro
una linea di continuità del tutto diversa. Quella – pur con
importanti eccezioni, talvolta legate a nobili tradizioni, altre al
populismo demagogico – dei partiti come assemblaggio di
comitati elettorali e di eletti, gruppi e correnti di affinità o di
interessi (e di potere), apparati funzionari: più che sedi di
organizzazioni della politica e di democrazia, strumenti di
selezione della classe politica come specialismo separato o
“come professione”. E’ stato calcolato che siano all’incirca
diecimila le persone – funzionari di partito, eletti organici alle
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formazioni politiche – impegnati nella politica (tradizionale)
come professione; a questi vanno aggiunte le poche decine di
migliaia di militanti attivi ancora presenti nelle formazioni
politiche tradizionali. Invece, pure in un’accezione specifica e
ristretta (quella cioè di organizzazioni impegnate in attività di
pressione, rivendicazione, advocacy legate ai temi delle scelte e
delle decisioni politiche su temi sociali e dei diritti) sono oltre
quattrocentomila coloro che fuori dai partiti fanno politica, e
cioè si impegnano in organizzazioni, campagne e movimenti
volti alla realizzazione dei beni comuni e dell’interesse generale.
Il principio che noi vogliamo richiamare è quello della pari
dignità (nella loro diversità) delle variegate forme della politica.
Questa pari dignità, per essere tale, deve essere declinata in due
direzioni : lo smantellamento del primato monarchico dei partiti
(che devono continuare ad avere un ruolo fondamentale in un
moderno e plurale sistema della politica) e la costruzione di
strumenti, procedure e sedi per dare più forza e impatto alle
forme della politica diffusa. Solo in tal modo quest’ultima potrà
superare il suo complesso di inferiorità (reale) e la sua
subalternità ai partiti, nonché il periodico travaso di energie
associative nel ceto politico tradizionale e la trasformazione di
movimenti sociali in partiti. E’ questo anche un modo per
lavorare su quelle proposte avanzate da alcuni studiosi relativa
al depotenziamento della politica tradizionale (i partiti) a favore
di “politica orizzontale“ fondate non sul potere e la sua gestione
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dall’alto, ma sulla partecipazione e l’autogestione dal basso.
Non si tratta però di contrapporre un’inesistente società civile
immacolata ad un generalizzato sistema dei partiti degenerato.
La questione non è tanto togliere poteri da una parte (i partiti)
per ridislocarsi da qualche altra parte (società civile) in un
gioco a “somma zero”. Il nodo è come creare le condizioni per
liberare nuove risorse che allarghino lo spazio sociale e civile
della politica tout court. Alcuni studiosi contemporanei hanno
affermato che in una vera democrazia i partiti come formazioni
chiuse, dogmatiche e quasi militari non dovrebbero esserci.
Bisogna fare tutto un lavoro di aggiunta al vecchio schema
partiti – parlamento – governo, di un nuovo schema di una
democrazia integrale che arriva fino alla periferia, e dal basso si
autoeduca e si autoamministra. Soltanto una società di questo
genere è sopportabile, soltanto essa realizza quell’andare oltre la
politica, in nome di una liberazione infinita e una solidarietà
popolare. Altri studiosi hanno anche stigmatizzato la
separazione della “classe politica“ dalla società, invitando ad
esautorare – cioè a svuotare – il potere e il governo, andando per
un’altra strada; quella del far da se solidaristico fondato sulla
democrazia del basso e l’autogestione, la strada di una politica
senza classe politica, di nuovi “partiti sociali” oltre o accanto ai
“partiti politici” professionalizzati o separati. L’obbiettivo era
quello di una “dimensione pubblica“ come luogo di
“indipendenza ed autonomia” costruito dal basso, in cui lo stato
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non avrebbe dovuto sottrarre spazi alla società, ma solo togliere
ostacoli alla realizzazione dell’autogestione popolare. Questi
sono dei temi che oggi si ripropongono a chi – nei movimenti,
nelle associazioni, nelle campagne, nel volontariato – è
impegnato a costruire alternative politiche e concrete per una
società diversa, in cui la politica “senza bisogno di un partito”
può avere un ruolo importante.
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