6
diplomatica la contaminazione con elementi di storia economica e sociale, sociologia,
psicologia che ne ha profondamente scosso le fondamenta: allo studio dei trattati, delle
istituzioni e della loro produzione documentaria, si sono affiancate indagini sulle
pressioni sociali e sulle forze economiche transnazionali divenute protagoniste nel
secolo delle masse e della globalizzazione
5
.
Alla radice della crisi della storiografia della guerra fredda sta un peccato originale,
un’induzione avvenuta mezzo secolo fa ed iterata, pur in forme attenuate, fino
all’implosione dell’Unione Sovietica: che la storia della guerra fredda sia la storia
internazionale del periodo 1945-91, quando invece ne è solo una trama, ancorché forse la
più manifesta. Questo fraintendimento, effetto della medesima pulsione totalizzante
della guerra fredda, è il nodo venuto al pettine con la recente emersione delle altre
dinamiche della storia della seconda metà del ventesimo secolo: il terrorismo
internazionale di segno islamista è stato il marchio di un nuovo periodo che non è
affatto iniziato l’11 settembre 2001, come una smemoratissima vulgata politico-
giornalistica si è affrettata a certificare il 12 settembre di quello stesso anno, bensì il 4
settembre 1972 alle olimpiadi di Monaco. Né erano una novità i disastri umanitari post-
coloniali in Africa: laddove, nel deserto dell’Ogaden, l’amministrazione americana
credeva fosse stata sepolta la distensione nel 1978
6
, e gli storici che fosse stato scritto un
nuovo capitolo della guerra fredda, le trame della decolonizzazione si mostrarono in
tutta la loro drammatica complessità quando la missione internazionale di pace degli
5
Innovazioni e tensioni della storia diplomatica, ed in particolare della storia della politica estera
americana, sono state ampiamente trattate: per un quadro sintetico, rimando a R. McMahon, The study of
American foreign relations: national history or international history?, in Explaining the history of American
foreign relations, a cura di M.J. Hogan e T.G. Paterson, Cambridge, Cambridge University Press, 1991. Per
quanto riguarda, invece, le difficoltà della storia diplomatica nel venire a patti con la nozione di
globalizzazione, rimando a T. W. Zeiler, Just do it! Globalization for diplomatic historians, in «Diplomatic
History», Vol. 25, n. 4, autunno 2001, pp. 529-551.
6
«Il SALT II è sepolto nelle sabbie dell’Ogaden» è un’espressione di Z. Brzezinsli, Power and Principle,
Farrar-Straus-Giroux, New York, 1983; p. 189.
7
anni Novanta fallì in un silenzio di tomba. Non era, tuttavia, la tomba della distensione
ma semmai quella degli ideali del Terzo Mondo.
Questa tesi di dottorato muove dalla convinzione che gli anni Settanta abbiano
rappresentato la cesura epocale più importante della storia internazionale della seconda
metà del XX secolo: la fine della «età dell’oro»
7
e del modernismo
8
, i cambiamenti della
territorialità
9
e la «morte del sogno[americano]»
10
sono stati collocati tutti nel travaglio
degli anni Settanta. Questa serie di mutamenti, solo in parte legati alla guerra fredda,
produsse anche un nuovo sistema di relazioni USA-URSS conosciuto come détente, o
distensione. (Tentare di) inserire la trama della distensione nella storia americana e
mondiale degli ultimi sessanta anni è un modo, a parer mio, di espiare il peccato
originale col quale, in passato, la storia degli anni Settanta e del rapporto Washington-
Mosca è stata ridotta ad un capitolo della guerra fredda.
7
E. J. Hobsbawm, The age of extremes, New York, Vintage Books, 1994.
8
D. Steigerwald, The sixties and the end of modern America, New York, St. Martin’s Press, 1995.
9
C. S. Maier, Consigning the twentieth century to history: alternative narratives for the modern era, in «The
American Historical Review», Vol. 105, n. 3, 2000.
10
J. Witcover, The year the dream died: revisiting 1968 in America, New York, Warner Books, 1997.
8
Quante distensioni?
La détente degli anni Settanta è solo uno dei fenomeni di distensione occorsi nelle
relazioni fra Washington e Mosca nel mezzo secolo fra la fine della seconda guerra
mondiale ed il crollo dell’Unione Sovietica. Ciò che contraddistinse la grande
distensione degli anni Settanta era la presenza di un progetto compiuto di coesistenza:
dopo la morte di Stalin e dopo la crisi dei missili cubani, i gesti distensivi erano stati
emotivi, atmosferici, non strutturali. Per circa un decennio – dal 1969 al 1980 – la détente
poggiò, invece, su un’ampia convergenza di interessi, pur entro i limiti dell’ostilità.
Anche nelle relazioni USA-URSS degli anni Settanta, tuttavia, vi furono più distensioni:
la détente di Kissinger (1969-1976), oggetto di questa tesi, non corrispose alla
“coesistenza pacifica” che avevano in mente i sovietici, e nonostante alcuni contenuti di
continuità fu diversa dalla distensione che Jimmy Carter (1977-1980), successore di
Ford, cercò di implementare. Laddove il lone ranger cercò di circoscrivere il più possibile
la competizione sforzandosi, almeno in termini prescrittivi e declamatori, di svuotarla il
più possibile dei suoi innati contenuti ideologici, Carter rilanciò la sfida ideologica e
retorica all’Unione Sovietica, e perseguì una specie di détente semicompetitiva.
Diverse sono anche le distensioni all’interno dello stesso progetto kissingeriano: il
disgelo con la Repubblica Popolare Cinese si basò su una convergenza d’interessi
strategici quasi totale, maturata in modo indipendente a Washington e Pechino che si
trovarono ad avere nell’Unione Sovietica un nemico comune a dispetto delle diversità
ideologiche. L’antica amicizia sino-americana offrì un retroterra culturale fertile sul
quale costruire una détente assai modesta sul piano della collaborazione concreta, ma
nondimeno genuina e condivisa.
Fra Stati Uniti ed Unione Sovietica, invece, la distensione non produsse una riduzione
dell’ostilità: in presenza di interessi comuni, come nel campo della competizione
nucleare, la détente ottenne dei risultati autentici, ma laddove erano necessari
9
compromessi più impegnativi (Terzo Mondo e Medio Oriente) l’ostilità continuò a
catalizzare un alto livello di conflittualità.
Il Grand Design di Kissinger e l’eziologia della détente
Nel sistema internazionale si era venuto delineando, nel corso degli anni Sessanta, un
equilibrio basato sul consueto bipolarismo strategico-militare parallelo ad un nascente
multipolarismo economico e politico. In questo mutato contesto, la potenza americana
appariva assai ridimensionata: il segnale più emblematico del declino era la guerra in
Vietnam, ma esso aveva radici ben più salde nella crisi dell’economia americana
(impegnata nella difficile transizione da un sistema industriale “taylorista” ad uno
postindustriale) e nell’ascesa, dopo il successo della ricostruzione postbellica,
dell’Europa, del Giappone, e della novizia economia del sudest asiatico. Il Vietnam
aveva palesato l’insostenibilità della dottrina del contenimento globale e gli Stati Uniti
dovevano ora prendere coscienza del fatto che la loro forza, pur enorme, aveva dei
limiti. Il disavanzo, conosciuto come Lippman Gap, fra la (sovra)esposizione
internazionale e la potenza americana si era allargato a dismisura ed aveva reso la
politica estera americana «insolvente»
11
.
Kissinger divenne il responsabile della politica estera con l’intenzione di «forgiare un
mondo ed un ruolo americano al suo interno che fosse sostenibile perennemente», con il
ricorso ai dogmi dell’equilibrio geopolitico per garantire la sostenibilità dell’impegno
americano
12
. Secondo il Lone ranger, e secondo storici come Gaddis, la distensione non
11
W. Lippman, U.S. foreign policy: shield of the Republic, Boston, Little Brown, 1943; S. Huntington, Coping
with the Lippman Gap, in «Foreign Affairs», Vol. 66, n. 3, 1987-88; pp. 453-477. Per quanto concerne, invece,
le teorie sul declino relativo di potenza, P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Bologna,
Garzanti, 1989 (prima ed. 1987); infine, sul rapporto fra declino egemonico e politica estera americana, T.
McCormick, America’s half century: U.S. foreign policy in the Cold War, Baltimore, Johns Hopkins University
Press, 1989.
12
H. Kissinger, The White House years, Londra, Weidenfeld & Nicolson, 1982; p. 57.
10
era l’abbandono del contenimento, ma piuttosto la sua ridefinizione
13
. Sulla natura
conservativa della détente ci sono ormai pochi dubbi: il cambiamento, pur radicale,
rappresentato dalle pratiche di Nixon-Kissinger riguardava i mezzi, non il fine della
politica estera americana
14
. Inamovibile nella sua visione bipolare del sistema
internazionale, Kissinger non mise mai in discussione il protagonismo americano, ne
ridefinì solo alcune pratiche mirando a circoscrivere lo spazio della competizione senza
annullare l’antagonismo
15
:
The basic guiding principle of the Nixon Administration’s foreign policy is that the
United States is and must remain a world power. Despite our domestic problems, and
the increasing competition for resources, the United States is too rich and too powerful,
and other nations are too weak for the United States to be able to turn its back on the
world.
At the same time, the United States does not aspire to be, and has no intention of
becoming, the world’s policeman, responsible for dealing with every dispute between
nations or every threat to domestic stability in the far corners of the world
16
.
Fino ad allora, il contenimento globale aveva esteso progressivamente la guerra fredda,
ora l’amministrazione americana puntava a ridurla. In questa ottica vanno comprese
l’apertura alla Repubblica Popolare Cinese e gli accordi per la limitazione degli
armamenti nucleari, ambedue atti necessari per circoscrivere lo spazio di competizione
delle due potenze.
La novità non risiedeva solo nell’inversione di tendenza, ma anche nel linguaggio
utilizzato per spiegare la nuova condotta. Gli errori di Johnson avevano indebolito,
persino delegittimato, il codice ideologico che veicolava la guerra fredda ed il
contenimento globale. Kissinger offrì una soluzione dialettica innovativa per la cultura
americana, introducendo il realismo come dottrina decisionale di riferimento in modo
13
J. L. Gaddis, The rise, fall and future of détente, in «Foreign Affairs», Vol.59, n.3, 1983-84, pp. 354-377.
14
P. Williams, Détente and US Domestic Policy, in “International Affairs”, Vol. 61, n. 3, Summer 1985, pp.
431-447.
15
Cfr. M. Del Pero, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 72.
16
Memo, Morton H. Halperin to HAK, Accomplishments of the first six months, 7-16-1969, pp. 4-5, NPM, NSC,
b. 366, NARA II.
11
esplicito come alternativa più efficace alla struttura mista di interessi ed ideologia che
fino ad allora aveva plasmato la politica estera americana.
Uno sguardo all’interno
Il realismo geo-strategico rivendicato da Kissinger è stato trasmesso alla storiografia che
è ricorsa quasi sempre, talvolta con leggerezza, alla teoria sistemica per spiegare la
distensione. Che il realismo ben si presti alla diagnosi dell’eziologia della distensione è
evidente: l’abbandono dell’anticomunismo intransigente in nome di una cooperazione
limitata – dato conto della difficoltà economica e politica di proseguire la competizione
globale – è un atto di puro realismo (per molti aspetti già impostato dai predecessori di
Nixon). Il realismo, però, non aiuta a spiegare la fine della détente. Nel 1975-76 e nel
1980, quando finirono le due fasi della distensione degli anni Settanta, erano ancora più
che mai attuali le circostanze economiche e strategiche – in una parola: il declino
americano – che avevano condotto all’adozione della détente a Washington. In un’ottica
realista, dunque, non si spiega la fine della distensione: se l’Afghanistan, l’invasione del
quale da parte dei sovietici portò all’abbandono ufficiale della distensione negli Stati
Uniti, aveva una sua importanza strategica nel 1979, lo stesso non si può dire di altre
aree dove la détente venne messa in crisi (Angola, Corno d’Africa). Né sarebbe stato
rilevante, in una condotta a-ideologica di politica internazionale, il caso
dell’emigrazione degli ebrei dall’URSS.
La debolezza del realismo come chiave di lettura storiografica emerge qui in tutta la
sua evidenza: in uno stato pluralista non esistono gli attori razionali perché non
esistono gli elettori razionali. L’influenza delle tesi di Morgenthau, Lippman e Kennan
ha finito per adombrare il panorama delle alternative al modello stato-centrico ed alla
visione dei decision makers quali individui capaci di un’analisi fredda e distaccata dei
12
meri interessi nazionali
17
. Questa ossessione per il realismo – traslata direttamente
dall’enfasi che vi poneva Kissinger – evoca suggestioni illuministiche e pare inadatta
nel secolo della relatività ed in una democrazia nella quale il consigliere per la Sicurezza
nazionale ed il segretario di Stato (anche se sono la medesima persona) sono due
componenti di un processo plurale e molto complesso di policymaking. Senza uno studio
che tenga conto anche di una prospettiva «internalista» della storia americana degli
anni Sessanta e Settanta, la distensione non è spiegabile, perché non sono comprensibili
gli interessi nazionali americani
18
.
Per comprendere la détente è necessaria, dunque, un’indagine delle origini interne
della politica estera americana negli anni Sessanta e Settanta: non è solo l’interazione
strategica fra USA ed URSS ad essere importante, ma anche il modo in cui Washington
istituzionalizzò l’ordine mondiale comprendendolo alla luce di una struttura analitica
mista di interessi ed ideologia
19
. Solo così si può spiegare come mai la détente cinese sia
proseguita senza intoppi di rilievo attraverso tre amministrazioni (Nixon, Ford, Carter)
e sette legislature americane negli anni della distensione, mentre ogni accordo con
l’Unione Sovietica avveniva a costo di faticose battaglie politiche.
I protagonisti di tali battaglie furono quasi sempre Kissinger ed il senatore Henry
“Scoop” Jackson, dello stato di Washington. Questi si opponeva alla distensione e riuscì
17
Si vedano, per esempio: H. J. Morgenthau, Politics among nations: The struggle for power and peace, A.A.
Knopf, New York 1948; id., In defense of the national interest, New York, Knopf, 1951; e W. Lippman, A
preface to politics, University of Michigan Press, Ann Arbor 1962.
18
Cfr. G. Smith, Morality, Reason and Power: American Diplomacy in the Carter Years, New York, Hill&Wang,
1986.
19
F. Schurmann, The Logic of World Power: an Inquiry into the Origins, Currents and Contradictions of World
Politics, New York, Random House, 1974, pp. 8-13. Sulla relazione fra politica interna e politica estera, v.
N. Wahl, The Autonomy of Domestic Structures in European-American Relations, in Atlantis Lost: US-European
Relations after the Cold War, ed. by J. Chace and E. C. Ravenal, New York, New York University Press,
1976, pp. 225-48; Domestic Determinants of Foreign Policy (Third German-American Forum), Washington,
Georgetown University, 1974; Domestic Sources of Foreign Policy, ed. by J. N. Rosenau, New York, The Free
Press, 1967; H. A. Kissinger, American Foreign Policy, New York, W. W. Norton, 1974, pp. 11-50. Studi
recenti hanno insistito maggiormente sull’importanza della politica interna nel definire la politica estera:
il più recente, in riferimento alla storia della distensione, è di J. Suri, Power and Protest: Global Revolution
and the Rise of Detente, Cambridge, Harvard University Press, 2003.
13
progressivamente a scardinare l’effimero consenso che la sosteneva. Uomo politico
sottile e capace, Jackson affrontò l’amministrazione in quasi ogni ambito della
distensione: con l’eccezione dell’apertura alla Cina, alla quale era favorevole, operò
contro il SALT, contro il trattato anti-ABM, contro gli accordi commerciali con Mosca. La
sua opposizione alla détente è un esempio perfetto della struttura mista di interessi ed
ideologia richiamata poco sopra: anticomunista intransigente, Jackson era comunque
benevolo nei confronti della Cina; mentre stigmatizzava le violazioni sovietiche del
diritto all’emigrazione, condonava la tirannia cinese. La contraddizione è in parte
esplicabile: a differenza della RPC, l’Unione Sovietica costituiva una minaccia strategica
per gli Stati Uniti. Per un anticomunista come lui, era difficile avere fiducia in un
nemico tanto potente ed affidare la sicurezza nazionale ad un trattato con esso: venire a
patti col nemico era un errore sia morale che strategico. Nel caso della Cina, invece,
Jackson era ben disposto sia per la relativa modestia della posta in gioco, sia per la
tradizione culturale di amicizia sino-americana nella quale era cresciuta la sua
generazione. È ancora più semplice comprendere certe scelte guardando all’elettorato
del senatore: egli era eletto nello stato di Washington – dove il maggior datore di lavoro
era la Boeing – ed aveva interesse a mantenere alto il livello di spesa militare e di
commesse aggiudicate alla società aerospaziale di Seattle. Infine, “Scoop” intendeva
candidarsi alle elezioni presidenziali del 1976 e certe campagne in favore degli ebrei di
Russia gli servirono a guadagnare l’immagine di uomo retto e ad accattivarsi i favori
dell’elettorato ebraico nelle primarie del Partito democratico
20
.
Interessi ed ideologia, dunque, ma anche opportunismo e cinismo – tutto in una
parola: democrazia – questi sono i motivi per i quali è opportuno studiare la distensione
come progetto americano e non solo come fenomeno internazionale.
20
La figura di Jackson è descritta in una biografia apologetica ma interessante da R. G. Kaufman, Henry
M. Jackson: Life in Politics, Seattle, University of Washington Press, 2000.