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Ma quanti sono i modelli di produzione? Tanti. E i più osservati e studiati a livello
globale sono sicuramente quelli originati da menti dall’industria dell’auto
(“l’industria delle industrie” così come la definì Peter Drucker
1
, termine ripreso da
Womack e altri nel libro “La macchina che ha cambiato il mondo”) ed è curioso
osservare come quasi tutti i modelli produttivi siano originati da questo settore: il
toyotismo e il fordismo, si. Ma anche l’hondismo, lo sloanismo, modelli che non
hanno avuto la portata rivoluzionaria di quello giapponese e di quello americano ma
hanno avuto lo stesso la loro importanza.
E’ assodata in letteratura una visione in tre fasi della storia industriale e cioè: una
prima fase “artigianale” in cui una grande varietà di prodotti venivano fabbricati da
operai che organizzavano loro stessi il proprio lavoro. Questo modello ebbe una crisi
di redditività negli anni ’20 e sarebbe stato definitivamente scalzato da un nuovo
modello: “la produzione di massa”, che prevedeva la fabbricazione in grande serie di
beni standardizzati da parte di operai non qualificati e il cui lavoro era rigorosamente
delineato e prescritto. Questo modello sarebbe entrato a sua volta in crisi negli anni
settanta, con il sopraggiungere di eventi che avrebbero cambiato radicalmente le
condizioni economiche e la struttura produttiva dell’industria.
Il terzo modello è quello che ci interessa e cioè il sistema di produzione Toyota,
noto anche come toyotismo. Deriva, ovviamente, il suo nome dall’industria
automobilistica Toyota che per prima lo ha messo in pratica grazie all’intelletto di
alcuni dei suoi ingegneri come Ohno e Shigeo Shingo. Il modello ha reso possibile la
produzione di beni diversificati, di qualità e a prezzi competitivi, grazie a una
manodopera e a fornitori associati al continuo miglioramento delle performance. Il
modello si pose, quindi, come quello che avrebbe potuto superare sia la crisi di
produttività che la crisi di lavoro della produzione di massa attraverso la fine della
divisione tayloriana del lavoro associata alla concezione di divisione nell’esecuzione
dell’attività lavorativa.
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Cfr Peter Drucker: The concept of corporation, John day, New york 1946
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Ma molti sono i dubbi sull’efficacia di questo modello produttivo, sollevati da
diversi studiosi come vedremo nel corso della trattazione. Il toyotismo è nato in
Giappone, nazione che ha indossato questa filosofia. Ebbene questa filosofia non ha
impedito al Giappone di sprofondare in una lunga crisi tuttora in corso. Ma le cause
di questa situazione vanno da ricercarsi, tra le altre, piuttosto in una sregolata
speculazione finanziaria ed edilizia, nell’inasprimento della concorrenza inter-asiatica
e nell’inadeguato dinamismo tecnico in alcuni settori di punta. L’industria
automobilistica giapponese e il suo modo di produrre rappresentano, casomai, il
“nocciolo duro” della resistenza nipponica ai colpi della crisi. In soccorso ci viene
incontro il fatto che la Toyota è ormai il primo costruttore mondiale di automobili del
pianeta. Risultato raggiunto in buona parte con la complicità dell’utilizzo di questo
straordinario modello produttivo.
Perché allora nel dibattito tra studiosi alcuni sostengono che il toyotismo sia un
modello già in declino? Il fordismo non è stato solo un modello di produzione ma
anche un modello di regolazione sociale. Certamente, le innovazioni di cui stiamo
parlando hanno prodotto grandi cambiamenti nel funzionamento della fabbrica
tradizionale ma in che misura queste trasformazioni hanno rotto con il paradigma
fordista e non ne hanno costituito invece l’affinamento delle tecniche e delle
logiche? La valenza del nuovo modello di produzione sembra limitata al modo in cui
il lavoro e le aziende vengono organizzati e gestiti senza mostrare la stessa forza nel
sovvertire i modelli di consumo, l’organizzazione e i comportamenti sociali, a suo
tempo dimostrata dal fordismo. Tuttavia il toyotismo ha mostrato meccanismi che ne
hanno assicurato un certo dinamismo, cioè esso non si è adattato passivamente a
perturbazioni esterne ma è stato anche in grado di modificare l’ambiente circostante
attraverso le imprese che hanno cercato di anticipare gli stimoli ambientali e di
innovare le proprie strutture e gli output prodotti.
Alcuni autori come Dohse, Jurgens e Malsch
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sono dell’opinione che tra il
modello giapponese e il modello fordista esista un rapporto di continuità piuttosto che
2
Cfr Sociologia del lavoro n. 34, Franco Angeli, Milano
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di antitesi: essi sostengono che l’organizzazione giapponese dei processi di lavoro
non è, ad ogni modo, un’alternativa al fordismo. Nel toyotismo il lavoro è
organizzato secondo il principio della linea di montaggio, è ripetitivo, consiste di cicli
brevi ed è subordinato a tempi standard pianificati centralmente. L’attribuzione di
compiti indiretti di produzione ai lavoratori, non cambia fondamentalmente il
carattere del lavoro e può essere vista come una razionalizzazione delle attività
indirette.
La ricezione del toyotismo non appare essere stata omogenea a livello europeo o
quantomeno mondiale. D’altronde importare un modello produttivo senza adattarlo,
anche in minima parte, alle “abitudini” produttive e sociali in cui si è sempre
lavorato, appare impresa ardua e, forse, fallimentare. Bonazzi nel suo libro del 1993
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argomenta che la via europea alla produzione snella si differenzierebbe da quella
giapponese pura sotto tre aspetti: un maggiore ricorso alle innovazioni tecnologiche,
il coinvolgimento dei lavoratori e dei sindacati nell’introduzione dei cambiamenti
nella “vecchia” organizzazione del lavoro e, infine, l’articolazione del sistema
integrato di produzione in unità minori, decentrate, autosufficienti e in grado di porre
rimedio alle anomalie di processo e di prodotto.
I diversi sistemi nazionali hanno apprestato diversi metodi di regolazione al
“postfordismo”. Già nel 1994 Mariotti
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indicava nell’organizzazione del lavoro,
nell’efficienza dei meccanismi di distribuzione e nella formazione della domanda, il
problema della regolazione che avrebbe dovuto caratterizzare il modo di sviluppo
post-fordista.
- Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro se prima erano necessari
operai con bassa qualifica ora è assolutamente necessaria una manodopera
qualificata che sappia partecipare al raffinamento di processi e prodotti e
adattarsi alle modificate condizioni produttive. Per un sistema nazionale che
voglia preparare una manodopera preparata a questi nuovi compiti è necessaria
3
Cfr. Bonazzi G., Il tubo di cristallo, Il mulino, Bologna, 1993
4
Cfr S. Mariotti: Verso una nuova organizzazione della produzione. Le frontiere del postfordismo, Etas Libri, 1994
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un’adeguata formazione e un elevato grado di coinvolgimento del lavoratore
nel processo produttivo. Diversi sono i modi di regolazione con cui si può
ottenere questo coinvolgimento: nei paesi anglosassoni si assiste a una
prosecuzione dei metodi tayloristici abbinati a un disinvolto ricorso al mercato.
Questo significa che il coinvolgimento è ancora ottenuto con il controllo
diretto all’interno della fabbrica e con la minaccia di licenziamento. Al
contrario in paesi come il Giappone e la Germania e nei paesi nordici il
coinvolgimento è ottenuto grazie alla partecipazione dei lavoratori alle
decisioni di management. In questo quadro l’Italia appare un caso ibrido dove
ancora convivono modi di regolazione corporativi e modi prettamente di
mercato.
- Per quanto riguarda la distribuzione del reddito in epoca fordista il patto
sociale si basava sullo scambio tra accettazione dei metodi tayloristici in
fabbrica e garanzia di incrementi salariali in linea con la produttività. Oggi il
nuovo compromesso dovrebbe basarsi sull’ottenimento della qualità del lavoro
in cambio della qualità del prodotto e sul perseguimento di salari sicuri. Questa
sembra essere la strada battuta da Germania, paesi nordici e Giappone, diversa
da quella dei paesi anglosassoni in cui sembra prevalere modalità di
formazione di redditi dualistiche, con una divisione della società in una fascia
medio-alta (domanda elevata) e una bassa con relativa domanda stagnante.
- Per quanto riguarda, invece la formazione della domanda l’interrogativo che
Mariotti si pone è il seguente: quale modello di consumo possiede le
caratteristiche per sostenere una duratura fase di crescita? La domanda dipende
direttamente dalle modalità di distribuzione del reddito. Così i modelli
anglosassoni favoriscono andamenti fortemente ciclici mentre modalità più
cooperative sono presenti nei paesi mitteleuropei che permettono andamenti
della domanda più stabili e recessioni caratterizzate da contenuti tassi di
disoccupazione.
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Da tutto ciò si può evincere che il toyotismo, sin da subito, non si è posto come il
naturale successore del fordismo ma ha avuto (ha ancora) diverse barriere
ideologiche, fortemente ancorate a teorie tayloriste. E la partita è ancora aperta.
La struttura della tesi
In questo lavoro il termine “Toyotismo” è inteso in un accezione più ampia
rispetto al significato originario dato dai creatori di tale modello produttivo quali
Shigeo Shingo e Ohno. Con tale termine si vuole quindi fare riferimento
all’evoluzione delle metodologie di lavoro giapponesi e di tutte le tecniche che esso
implementa e che incontreremo nel corso della lettura quali il JIT ma anche più
recenti come il Six sigma e via discorrendo.
La nostra trattazione si articola in quattro capitoli.
Il primo è una sorta di riassunto, per coloro già esperti in materia, o di
introduzione all’argomento per quelli che si accostano per la prima volta al tema.
Verranno esposte le diverse metodologie di produzione, con un approfondimento
maggiore a quella che ci interessa di più, la tecnica toyotista. Vedremo poi quale sono
le evoluzioni che questa ha ricevuto nel corso degli anni.
Nel secondo capitolo andremo ad analizzare le caratteristiche dell’industria
italiana e giapponese nei loro caratteri generali, scoprendo quale sono state le reazioni
al “contatto” tra le due, e quali sono state le barriere che hanno ostacolato
l’introduzione in Italia di una diversa cultura industriale.
Nel terzo capitolo ci occuperemo delle diverse politiche nazionali e regionali
attuate per favorire l’implementazione delle tecniche produttive del nuovo
paradigma, nello specifico, negli Stati Uniti, in Giappone in Unione Europea (intesa
come istituzione unica), e in Italia.
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Il quarto capitolo, infine, costituisce la parte più importante del lavoro. Andremo a
vedere come nella pratica le tecniche toyotiste siano state implementate, analizzando
il caso di un grande stabilimento di una grande azienda automobilistica: la Fiat a
Melfi. Parte non meno interessante è l’analisi dei dati della tabella della ricerca
“International Manufacturing Strategy Survey” (IMSS), effettuata tramite una rete
globale di studiosi di vari paesi, sull’utilizzo delle pratiche inerenti alle nuove
innovazioni organizzative. Inoltre è presente nel capitolo le considerazioni di un altro
studio effettuato nel 2002 dalla Commissione europea, il “Business decisions limited
study”, e di una conferenza tenutasi a Roma nel 2004, in cui studiosi di diverse
università italiane hanno fatto il quadro della situazione sull’effettivo attecchimento
delle pratiche delle nuove forme di organizzazione del lavoro, in Italia.
Per l’elaborazione di questo lavoro ringrazio il professor Frey e, in particolar
modo, il dott. Abatecola che mi ha seguito per più di un anno nelle peripezie della
progettazione e articolazione della tesi.
Desidero inoltre ringraziare il corpo docente dell’università di Tor Vergata con il
quale ho avuto rapporti nel corso di questi anni, che mi hanno permesso di vivere
un’esperienza formativa personale di molto valore.
V. E., luglio 2007