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In Italia queste opinioni sono state espresse nell’ultimo a partire dal 1995, intorno alla proposta
di revisione della normativa tributaria degli enti non profit oggi contenuta nel D.L. n. 460/97.Tre
sono le maggiori aree di dissenso che caratterizzano il settore non profit in Italia:
1) L’acquisto della rilevanza economico/sociale del settore privato con particolare
attenzione al tributo che esso può dare alla migliore allocazione e distribuzione delle
risorse;
2) Il ruolo che esso ha svolto e potrà svolgere nel prossimo futuro;
3) I veri spazi di sviluppo.
Si sente inoltre l’esigenza di affrontare in modo compiuto un tema di attualità: la trasparenza
dell’informativa di bilancio. In parte, questa è stata considerata nel decreto legislativo
460/97. E’ comunque presente anche nello spirito dei principi contabili del Fasb (Financial
Accounting Standard Board).
Il non profit è effettivamente un arcipelago molto differenziato sia per le caratteristiche
gestionali e organizzative sia per quelle istituzionali e per le regole di funzionamento.
Il presente lavoro vuole porre la propria attenzione verso le Associazioni di volontariato,
disciplinate dalla legge 266/91. All’interno di tali Associazioni viene trattata da vicino la
Croce Azzurra quale organizzazione di volontariato nata per svolgere attività di
volontariato: cioè quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro.
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INDICE PRIMO CAPITOLO
AZIENDE NON PROFIT E I LORO CARATTERI SALIENTI
Premessa
1.1 Le aziende non profit ed il Terzo settore in Italia.
1.2 Evoluzione storica dell’associazionismo.
1.3 Profilo giuridico delle Associazioni di Volontariato.
1.4 Le cause di sviluppo e l’economicità delle aziende non profit.
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1.1 LE AZIENDE NON PROFIT E IL TERZO SETTORE IN ITALIA
L’acquisizione abbastanza recente del termine “non profit” nel dibattito sociale ed economico in
Italia può indurre a pensare che si tratti di un fenomeno di nuova formazione, “importato”
magari da oltreoceano.
In realtà, pur non chiamandosi con questo nome, il non profit in Italia ha una tradizione antica,
talvolta addirittura plurisecolare, molto spesso di gran lunga preesistente al costituirsi dello
Stato.
1
Il terzo settore rappresenta, dunque, un territorio di confine, fra il pubblico ed il privato
imprenditore, all’interno del quale operano soggetti collettivi che hanno, sotto il profilo
giuridico, disciplina normativa diversa.
Per arrivare a una definizione del “non profit” è utile rifarsi allo schema classificatorio
formulato dall’Sna (System of National Accounts) secondo il quale le istituzioni non profit sono
definite come enti giuridici o sociali creati per lo scopo di produrre beni o servizi il cui status
non permette loro di essere fonte di reddito.
La denominazione del Terzo Settore ha comunque valenza storica
2
e resta una formula sintetica
per esprimere un fenomeno nuovo e difficilmente inquadrabile sotto un'unica denominazione.
Il Terzo Settore consiste concretamente in un’area che comprende organizzazioni di volontariato,
associazioni, fondazioni di carattere sociale.
Si tratta di iniziative fra loro eterogenee:
- il configurarsi di un agire collettivo dotato al contempo di caratteristiche di comuntità
(gemeinschft) e di società (geselleschaft);
- il costituire un complesso di formazioni sociali all’interno delle quali vengono attivati
meccanismi di solidarietà allargata;
1
A. PROSPERI, Le aziende non profit. I caratteri, la gestione, il controllo,Editore Etas libri, Milano,1999.
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Deriva dal rapporto di Delors “un progetto per l’Europa in sede comunitaria”
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- l’essere organismi caratterizzati dalla produzione del bene comune nella specifica
accezione di “bene razionale”, inteso come output di una azione svolta insieme da altri
secondo finalità solidaristiche.
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Il Terzo Settore, e al suo interno il volontariato, sta diventando sempre più un soggetto
privilegiato con cui le altre istituzioni devono e vogliono confrontarsi.
Secondo la teoria più accreditata fra gli studiosi sociali, oggi nei paesi occidentali l’articolazione
dell’organizzazione sociale viene rappresentata in quattro settori o poli sociali, ciascuno con
istituzioni, funzioni, valori e norme peculiari.
Un primo settore è l’economia, dotata di specifiche istituzioni (imprese produttive, creditizie,
assicurative, mercato); essa ha nel finanziamento il suo valore preminente, ispira la propria
azione ad una logica caratterizzata dallo scambio utilitaristico (il do ut des), è animata da
un’etica specifica, l’utilitarismo, l’etica del risultato, e ha quale scopo principale e specifico il
profitto, la produzione di ricchezza.
Un secondo settore è lo Stato, dotato di istituzioni (la Pubblica Amministrazione centrale e
periferica: le Regioni, le Province e i Comuni), che ha il suo valore preminente nel potere, ispira
l’azione collettiva secondo una logica diretta ad emettere decisioni vincolanti per tutti i cittadini,
per la collettività vale a dire le regole espresse in forma autoritaria che disciplinano la società
globale.
La società civile costituisce quello che comunemente viene denominato “il Terzo Settore”, che
fa prefigurare una forma di società civile; esso testimonia nelle proprie istituzioni (associazioni,
fondazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative di solidarietà, organizzazioni operanti nel
settore della cooperazione allo sviluppo, e altro ancora) un nuovo modo di condividere
civilmente; perché tali formazioni sociali appaiono più attente ai bisogni concreti delle persone,
perché capaci di autorganizzarsi e mobilitarsi.
3
BOCCACCIN, Il contributo sul volontariato organizzato e del terzo settore al mutamento socio culturale, rapporto
sulla città, 1995.
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Il Terzo Settore, composto dalle nuove strutture associative, organismi non profit o di privato
sociale, possiede un proprio valore che attraversa e conferisce unità alla varietà di tali forme.
Associative: il valore, che tende a farsi realtà è quello della solidarietà, vale a dire la capacità di
produrre beni relazionali collettivi.
Infine rimane una quarta area sociale, le reti primarie (la famiglia, i gruppi di parentela, le reti
informali), che possiedono un valore specifico, cioè l’affidamento reciproco e fiducioso tra i
componenti di ciascun gruppo primario, anch’esse capaci di produrre beni relazionali primari,
ma non collettivi e non comuni.
Ed è appunto nei confronti dei soggetti sociali, componenti il terzo settore ed il quarto settore,
che l’economia contemporanea, la politica e l’amministrazione pubblica devono, ciascuno a
modo suo, confrontarsi e porsi in relazione virtuosa.
Per comprendere l’autonomia sociale ed istituzionale, oltre alla distinzione di ciascun settore
della società globale, occorre necessariamente fare ricorso all’articolazione e alla scansione
settoriale ma anche ad una teoria dei beni sociali.
Il valore della solidarietà difatti, il bene specifico della terza area sociale, si comprende fino in
fondo solo se, nella distinzione teorica dei quattro settori della società appena accennati teniamo
conto che il primo, cioè l’economia, è capace di produrre beni privati; il secondo, cioè lo Stato e
la Pubblica Amministrazione, è capace di produrre quel qualcosa che rende più umano e più
interpersonale il rapporto tra chi è utente e chi è invece operatore di un servizio sociale ed
educativo.
Solo il terzo settore è in grado di produrre questi beni relazionali, non già l’economia e non già
lo Stato .
Ed è importante sottolineare questo aspetto perché fa capire che la solidarietà, valore verso il
quale si dirige l’azione delle strutture associative solidali, non è concetto generico o
sentimentale, né propriamente religioso, ma squisitamente sociale e civile.
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L’azione collettiva per essere adeguata alle sfide di questo scorcio di millennio, deve proporsi
mete di benessere sociale che possono essere perseguite solo se gli organismi del Terzo Settore,
così come gli organismi primari, naturali e fondamentali per una stabile convivenza umana,
quale la famiglia, siano riconosciuti da tutti i settori e da tutte le persone per la dignità e la
funzione sociale insostituibile che rivestono attraverso l’indispensabile autonomia di ciascuno di
essi che è in definitiva la capacità di rispondere adeguatamente a bisogni sociali mediante la
produzione di beni relazionali primari (la famiglia) e collettivi e comuni (gli organismi del terzo
polo)
4
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In questa panoramica è importante fissare l’attenzione su alcuni aspetti che qualificano il profilo
di tali organizzazioni:
1) Le organizzazioni non profit possono avere patrimonio e reddito, anzi, per certi aspetti,
sottolineano Sparrow e Meandri, devono “guadagnare, cioè produrre ricavi maggiori
delle spese”. Il bilancio in attivo è visto come segno di efficiente gestione di impresa,
genera maggiore fiducia negli investitori, cioè in donatori e volontari. Molte non profit
americane sono organizzazioni ricchissime, con utili a fine anno enormi. La vera
differenza con le imprese profit sta nel come viene utilizzato l’utile prodotto.
2) L’azione delle organizzazioni non profit non è limitata ad alcuni settori della società, ma
spazia dall’assistenza alla sanità, dall’educazione alla conservazione dei beni artistici,
dalla ricerca scientifica al tempo libero o caritatevole.
3) Le organizzazioni non profit erogano servizi di pubblica utilità, sono un’alternativa sia
allo Stato con la sua burocrazia sia all’impresa privata con i suoi sistemi finalizzati
esclusivamente al profitto. Entrambi, sottolinea ancora Sparrow, “non sono un mezzo
adeguato per rispondere a molte esigenze umane e sociali”. Il mercato non è in grado di
4
G.VITTADINI, Il non profit dimezzato, Editore Etas Libri, Milano, 1997.
10
produrre certi beni e servizi che implicano un ampio beneficio umano e in special modo
quelli dove le ragioni del profitto non sussistono
5
.
Il confronto con un quadro di esperienze internazionali aiuta a individuare con maggiore
chiarezza le riduzioni e le mistificazioni a cui il non profit è oggi sottoposto in Italia.
Purtroppo si continua a guardare con sospetto al settore non profit, favoriti in questo dalla grande
confusione che regna attorno a esso.
L’identificazione di una “azione non profit” non avviene solo in base alle sue manifestazioni più
evidenti: non è sufficiente, infatti, inquadrare la sfera delle motivazioni da cui essa trae origine e
si alimenta. Per questa ragione, occorre prendere in considerazione sia le modalità con le quali
una azione non profit si rende manifesta, sia le caratteristiche più profonde e spesso più nascoste
del soggetto che la realizza.
Procedendo in questo modo, possono dunque essere identificati quattro parametri per riconoscere
un’azione non profit.
I primi due si riferiscono agli elementi manifesti dell’azione:
a) L’azione non profit si caratterizza in quanto è una azione collettiva, che, in certi casi, può
assurgere al livello di partecipazione o di promozione di una politica pubblica;
b) L’azione non profit si inquadra in un progetto sociale, più o meno esplicito e
formalizzato; è quindi in ogni caso orientata a produrre un impatto sulla realtà e la
produzione di tale impatto viene colta come prioritaria rispetto allo stesso soggetto che la
promuove.
A questi parametri possono aggiungersene altri due, relativi al soggetto promotore dell’azione:
c) l’azione non profit è resa possibile dall’esistenza, nel soggetto che la promuove, di una
cultura di base, dove vi è una prevalenza dei fini rispetto ai mezzi, sia nell’impiego
personale che di gruppo, tale da produrre uno spazio rilevante per il lavoro volontario;
5
A. ZANGRANDI (a cura di ), Aziende non profit. Le condizioni di sviluppo, Editore Egea, Milano, 2000.
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d) l’azione non profit presuppone la messa in campo di strumenti, mezzi, sistemi operativi
da parte di un soggetto che esprime in questo modo la capacità di controllo delle risorse
in relazione all’ambiente ed è quindi orientato alla autonomia e all’auto-organizzazione.
Secondo i parametri proposti, si può quindi parlare di azione non profit quando ci si trova di
fronte a una azione collettiva, promossa nel quadro di un progetto sociale da un soggetto che ha
una cultura di base fondata su un certo “trascendimento” e che è in grado di controllare
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Le aziende non profit sono caratterizzate da specifiche problematiche non solo in relazione alle
finalità istituzionali ed alle diverse modalità di perseguimento delle stesse ma anche in relazione
al settore di appartenenza, al loro contesto sociale, politico ed economico.
Il ciclo di vita di un azienda, che rappresenta le fasi principali in cui si articola la vita di un
istituto viene scomposto in quattro fasi o stadi: nascita, crescita, maturità e declino.
Alla prima fase corrisponde la nascita dell’organizzazione e si dà l’avvio al processo di
costituzione dell’assetto strutturale; la fase di sviluppo/crescita che è caratterizzata da un
incremento dell’attività; la maturità, invece, è caratterizzata dal raggiungimento di un certo grado
di stabilità economica; l’ultima fase rappresenta il declinio della stessa sempre se questa non è in
grado di modificare il proprio prodotto/servizio secondo le esigenze emerse.
Nella realtà, però, per le aziende non profit tale modello non è valido, in quanto si presenta uno
sfasamento temporale fra la nascita dell’istituto - realizzato dalla condivisione di valori e dalla
motivazione degli individui coinvolti - quindi e la nascita dell’azienda e della organizzazione.
Queste considerazioni impongono una revisione sul modello del ciclo di vita per l’azienda non
profit, che può essere articolato in tre macro-fasi: pre-organizzativa, di transazione e
organizzativa.
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G. P. BARBETTA, Senza scopo di lucro. Dimensione economica, legislazione e politiche del settore non profit in
Italia, Editore Il mulino, Bologna, 1996.
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Nella prima fase si ha la nascita dell’istituto creato per le finalità di solidarietà grazie alla
condivisione da parte dei fondatori; a questa segue una fase di sviluppo, la crescita dell’attività
per quello che concerne servizi erogati.
La fase di transazione si connota per il fatto che la crescita delle dimensioni produce fenomeni di
disequilibrio e di crisi, che si manifestano nell’incapacità di soddisfare il livello quantitativo
della domanda, nella caduta della qualità dei servizi questa crisi può generare due tipi di
alternative: da un lato, si può avere una situazione in cui l’ente rifiuta un’apertura
all’introduzione di modelli economico-aziendali; in questo caso rischia di farsi trascinare in una
crisi che porta di conseguenza ad una paralisi.
Dall’altro lato, invece, si può constatare la presenza di una forte volontà di intraprendere un
processo di cambiamento e sviluppo, basato sulla capacità di gestione delle risorse al fine di
perseguire le finalità istituzionali.
Questo cambiamento gioca essenzialmente attraverso interventi di tipo organizzativo- gestionale
e di tipo strategico-istituzionale.
Con questo processo l’azienda non profit prende coscienza della sua dimensione aziendale e
organizzativa
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ANDREAUS M., Le aziende non profit. Circuiti gestionali, sistema informativo e bilancio, Giuffre, Milano, 1996.