6
all’interno del dibattito tra buddhisti e confuciani riguardo al carattere più o meno
filiale della nuova religione. Infatti, il protagonista della storia, che ha lasciato la vita
mondana per provvedere ai propri genitori ciechi, è un ottimo esempio di pietà filiale.
Il Mahāsattva jātaka, in cui viene narrato il sacrifico di un bodhisattva, che si
immola per salvare la vita a una tigre e ai suoi cuccioli, risulta interessante per le
significative variazioni di trama che esso subì nelle versioni cinesi. Queste ultime
naturalmente influenzarono le raffigurazioni della storia, che presentano notevoli
differenze tra India e Cina, ma pure tra Kizil e Dunhuang.
Il nostro intento è quello di analizzare il percorso iconografico delle
rappresentazioni artistiche delle tre storie dall’India alla Cina attraverso l’Asia
centrale. Vedremo rilievi provenienti dagli stūpa di Bhārhut, Sāñcī e Amarāvatī, e dai
siti del Gandhāra, ma anche i dipinti murali di Ajantā, Kizil e Dunhuang. Cercheremo
dapprima di mettere in risalto possibili influenze e relazioni nel modo di
rappresentazione, di individuare l’origine di un elemento stilistico o iconografico e la
dinamica della sua trasmissione.
Dall’analisi delle immagini passeremo al tentativo di porle in relazione con le
possibili fonti letterarie. Per quanto riguarda quelle indiane, ci siamo basati per la
collezione pāli sulla traduzione di Cowell e Faussböll, per la Jātakamālā su quella di
Gnoli, mentre per le altre fonti indiane ci siamo attenuti alle notizie di studiosi come
Schlingloff o Dehejia. Per quanto riguarda le fonti cinesi in cui vengono narrate le
nostre tre storie, abbiamo deciso di tradurre tutte le fonti presenti nel canone
buddhista cinese per cercare poi di verificare le influenze di ciascuno di essi sulle
trasposizioni artistiche cinesi. Il testo di riferimento per il lavoro è stato il Taishō
Shinshū Daizōkyō 大正新脩大藏經, l’edizione del Tripitaka cinese pubblicata a Tokyo
nel 1934.
La tesi si articola in due parti. La prima parte descrive nel primo capitolo lo
sviluppo dei jātaka all’interno della letteratura indiana e in quella cinese. Viene quindi
analizzata la struttura dei racconti nelle due tradizioni e infine si forniscono notizie più
dettagliate riguardo a due sūtra cinesi, lo Xianyu Jing e il Liudu Jijing, che ci
interessano più direttamente. Il primo risulta importante per il suo rapporto con il sito
di Dunhuang, il secondo perché contiene due delle storie da noi prese in esame e
perché è probabilmente la prima raccolta cinese di jātaka. Il secondo capitolo della
prima parte della tesi introduce i due siti cinesi di Kizil e Dunhuang, in cui si trovano
le illustrazioni che analizzeremo. Di Kizil si fornisce una breve storia delle
7
esplorazioni e viene presentata la cronologia delle grotte elaborata negli anni ’80;
inoltre, si descrivono i diversi tipi di struttura delle grotte presenti nel sito. Del
complesso di Dunhuang, di cui la datazione delle grotte è pressoché certa, vengono
date delle informazioni storiche sulle varie dinastie che regnarono nel Gansu
occidentale nel IV e nel V secolo e si accenna al dibattito sul possibile contributo
dato da alcune di esse allo sviluppo dell’arte buddhista nell’area.
La seconda parte della tesi è costituita dal lavoro di analisi iconografica delle
rappresentazioni di Viśvāntara, Śyāmaka e Mahāsattva jātaka. A ciascuna viene
dedicata una sezione, nella quale viene narrata dapprima la storia nelle sue versioni
indiane. Si passa quindi alle versioni cinesi, delle quali forniamo le traduzioni dei
passi più significativi nel tentativo di mettere in risalto differenze e somiglianze.
Conclusa la parte relativa alle fonti, vengono analizzate nel dettaglio le trasposizioni
artistiche presenti nell’arte indiana, in quella dell’Asia centrale e in quella cinese.
L’obiettivo dell’analisi è il riconoscimento, per quanto possibile, delle fonti di
alcune illustrazioni di Kizil e Dunhuang. Il lavoro ha un carattere indicativo e
sperimentale, dal momento che le fonti canoniche cinesi hanno delle datazioni poco
affidabili. Ogni sūtra reca con sé la data della propria redazione, che viene indicata
all’inizio dell’opera, ma che fu alle volte inserita da un redattore successivo sulla
base di notizie non sempre fondate. Rappresenta un grande problema anche il fatto
che la maggior parte delle versioni cinesi dei jātaka antedatano quelle indiane a
nostra disposizione. Sebbene una tradizione orale del canone buddhista indiano
possa risalire a molto tempo prima della sua stesura scritta (I secolo a.C.), la più
antica fonte canonica a nostra disposizione per quanto riguarda i jātaka è la raccolta
pāli, risalente al V secolo d.C.
Il nostro lavoro consiste nell’ipotizzare quale sia la fonte di un’immagine di Kizil o
Dunhuang in base alle affinità tra i testi e gli eventi ritratti nelle immagini, in base al
modo in cui avvengono e all’ordine cronologico che seguono. Tuttavia, si tratta pur
sempre di un’ipotesi. Non è necessariamente detto che un artista si sia basato su un
testo piuttosto che su una tradizione orale o su un’altra versione del racconto che
non ci è rimasta. Può anche succedere che l’artista abbia travisato la fonte: in questo
modo dà luogo ad una variazione, che potrebbe influenzare una nuova versione
letteraria.
8
PARTE PRIMA
1. I testi indiani e cinesi nei quali vengono narrate le precedenti esistenze del Buddha storico
1.1 I jātaka nella letteratura indiana
La letteratura sacra buddhista è un’enorme collezione di testi che si sono venuti a formare attraverso procedimenti molto
complessi.
1
In India consiste di un canone pāli di scuola Theravāda e di un insieme di altri testi in sanscrito e prākriti
appartenenti a diverse scuole. Molta della letteratura in sanscrito di scuole come Mahāsamghika, Sarvāstivādin,
Mulasarvāstivādin ed altre è ormai persa nell’originale e ci è nota solamente grazie alle traduzioni cinesi e tibetane. Ci sono
giunti diversi testi in sanscrito composti nello stile poetico kāvya, i quali non sono opere propriamente religiose, ma hanno avuto
una influenza molto importante a livello artistico.
2
Molti dei testi che rientrano nel canone pāli cominciarono probabilmente ad essere formulati poco dopo la morte del
Buddha Śākyamuni, avvenuta attorno al 480 a.C. (la tradizione vuole che si sia tenuto poco tempo dopo un concilio tra i
discepoli, in cui si stabilì una prima intesa sui punti fondamentali della dottrina), ma inizialmente dovette rimanere una tradizione
orale, seppure altamente codificata. Durante i primi concilii buddhisti i monaci dovettero stabilire una dottrina sulla quale vi fosse
comune accordo: da queste assemblee nacquero probabilmente i primi recitatori o bhānaka, narratori di storie dei quali
abbiamo notizia attraverso le iscrizioni presenti sui monumenti di Sāñcī e Bhārhut.
3
Commentari di epoche successive
riferiscono di recitatori che narravano jātaka, storie delle vite precedenti del Buddha (jātaka - bhānaka).
4
La data della
trasformazione del canone pāli in un testo scritto si colloca attorno alla fine del I secolo a.C.: essa ebbe luogo a Sri-Lanka
durante il regno di Vatthagamini (29-17 a.C.).
5
Quando i primi monumenti buddhisti rimasti (Bhārhut e Sāñcī) vennero eretti nel
III secolo a.C., la letteratura era ancora basata sulla tradizione orale: gli scultori che decorarono lo stūpa di Bhārhut, i cui rilievi
che narrano jātaka vennero completati entro la fine della dinastia Sunga (72 a.C.), con ogni probabilità si basarono, per le opere
con soggetti narrativi, sul racconto dei recitatori. Fu probabilmente così anche per i rilievi dei torana di Sāñcī, creati attorno al 20
d.C., sui quali troviamo diversi jātaka.
Il canone pāli è costituito da tre diverse parti: Sutta Pitaka (dottrina), Vinaya Pitaka (disciplina) e Abhidhamma Pitaka
(scolastica). Il Sutta Pitaka contiene alcuni jātaka in versi, mentre altre versioni in prosa sono sparse nel resto del canone. I
versi che formano la base delle storie delle precedenti esistenze del Buddha sono considerati tra le più antiche sezioni della
raccolta. La tradizione vuole che sia stato il Buddha stesso a narrarle, anche se in realtà molte storie hanno radici ben anteriori
e sono state poi adattate al nuovo contesto: fu così che il buddhismo si potè dotare di mezzi efficaci per raggiungere anche la
gente più semplice. Versioni simili di alcuni di questi racconti si trovano nel Pancatantra, mentre in altri casi hanno paralleli in
due poemi epici indiani, il Mahābhārata e il Rāmāyana.
6
L’iniziale versione di jātaka in versi contenuta nel Sutta Pitaka e in altre parti del canone si arricchì in un secondo tempo di
parti in prosa: entro il V secolo d. C. si formò una raccolta post-canonica di jātaka, compilata sempre a Ceylon, forse da
Buddhaghosha. Si intitola Jātakatthavannanā (Descrizione del significato dei jātaka). E’ nel Gandhavamsa che troviamo
l’attribuzione dell’opera a Buddhaghosha, commentatore di numerosi testi canonici.
7
Il redattore del Jātakatthavannanā ripristinò
in pāli la collezione in lingua cingalese poi perduta, che era a sua volta la versione dell’originario testo pāli del quale aveva
conservato inalterate solo le parti versificate.
8
Soltanto queste sarebbero canoniche, mentre le parti in prosa sarebbero aggiunte
successive. Abbiamo già detto che una prima stesura scritta del canone pāli risalirebbe al I secolo a.C., dopo una tradizione
orale di diverse centinaia di anni.
9
Le parti in versi dei jātaka, meno soggette a variazioni proprio per la loro natura, si sarebbero conservate pressoché
inalterate e sarebbero quindi state tramandate nella loro forma originale. Le parti in prosa, meno stabili perché più facilmente
modificabili, avrebbero invece subito col tempo numerose modifiche, in alcuni casi anche di contenuto, per cui si riscontrano
talora contraddizioni tra le due parti. Il numero dei racconti arriva a 547
10
e segue un ordine che si basa sul numero di versi che
una storia contiene: si va da jātaka con uno o due versi fino a quelli di oltre 80 versi. Anche se una prima redazione dovrebbe
risalire al V secolo d.C., essa è con ogni probabilità risultato di una evoluzione lenta e progressiva. Questo giustifica il notevole
sviluppo nella descrizione artistica delle storie già nei secoli precedenti.
11
Un altro testo in cui possiamo trovare una raccolta di jātaka è il Mahāvastu, cioè il Vinaya della setta Lokottaravādin dei
Mahāsamghika: inizialmente di spirito Theravāda, ha subito col tempo modifiche e aggiunte che lo avvicinano al “grande
veicolo”.
12
In entrambe le opere sono contenute diverse versioni di una stessa leggenda.
13
Così come il Mahāvastu, anche il
Mulasarvāstivādin Vinaya contiene storie delle precedenti esistenze del Buddha. E’ un testo enorme che si basa su una varietà
di opere precedenti: contiene più racconti di genere jātaka di qualsiasi altro testo. Tradotto in parte in cinese agli inizi dell’VIII
secolo dal monaco Yi Jing 義淨, è un’opera fondamentale per l’analisi dei dipinti di alcune grotte di Ajanta, dal momento che gli
artisti si basarono prevalentemente su di essa come fonte di ispirazione.
14
Anche la letteratura non canonica in sanscrito composta tra il I e il V secolo ha avuto un’influenza importante sulla
produzione artistica. La Jātakamālā (Ghirlanda di jātaka), scritta tra la fine del IV e gli inizi del V secolo da Āryaśūra (il quale
1
Riguardo al processo di formazione del canone pāli si veda: Norman K.R., Pāli Literature: Including the Canonical Literature in Prakrit and Sanskrit of all the
Hinayana Schools of Buddhism, Wiesbaden, Otto Harrassowitz, 1983, pp. 7-14.
2
E’ il caso della Jātakamālā (Ghirlanda di jātaka), raccolta di storie delle precedenti vite del Buddha scritta da Āryaśūranel IV secolo. Cfr. Gnoli R. (a cura di),
Āryaśūra: storia della tigre e altre storie delle vite anteriori del Buddha (Jātakamālā), Bari, Leonardo da Vinci editrice, 1964, pp. 5-10.
3
Lüders H., Bhārhut Inscriptions, Ootacamund, Government Epigraphist of India, 1963, cit. in Dehejia V., Discourse in Early Buddhist Art, Delhi, Manoharlal
Publishers, 1997, p. 60.
4
Secondo il Mahāvamsa (testo che unisce dati storici e leggendari sull’isola di Ceylon fino al IV secolo, probabilmente redatto da Buddhaghosha nel V secolo), il re
Llanaga (I secolo d.C.) udì il Kapi jātaka dalla viva voce di un monaco bhānaka.
5
Ne troviamo notizia del Dipavamsa, che narra la storia dell’isola dai tempi del Buddha sino al IV secolo d.C. Cfr. Norman K. R., op. cit., pp. 8-11.
6
Joshi M.C., e Banerjee R:, Some Aspects of Jātaka Paintings in Indian and Chinese (Central Asian) Art, Delhi, 1998. Da www.ignca.nic.in.
7
Il Gandhavamsa è un’opera di carattere bibliografico in lingua pāli, composta nel XVII secolo in Birmania da Nandapanna.
8
D’Onza Chiodo M. (a cura di), Vite anteriori del Buddha: jātaka, Tea, Milano, 1994, p. 11.
9
Secondo la tradizione, una prima compilazione avrebbe avuto luogo poco tempo dopo la morte del Buddha, in occasione del primo concilio tenuto da cinquecento
monaci a Rajagaha, capitale del Magadha (odierno Bihar).
10
Il numero totale dei jātaka può essere considerato superiore: infatti, nei diversi testi troviamo non solo versioni discordanti, ma anche storie che compaiono
esclusivamente in uno e non nell’altro. La pagoda di Petliek, a Pagan in Birmania,ospita illustrazioni di 550 jātaka diversi. Cfr. Fahr Becker G. (a cura di), Arte dell’estremo
oriente, Colonia, Könemann, pp. 414-426.
11
Dehejia V., op. cit., p. 63.
12
Anche il Lalitavistara ha subito un processo simile. Questo è un testo che inizialmente faceva parte del canone Sarvāstivādin. Scritto in sanscrito, è stato a più
riprese ampliato da autori di corrente mahayanica, della quale è divenuto uno dei testi sacri. Presenta una biografia parziale del Buddha, dal Tusita al primo sermone.
Venne tradotto in cinese da Dharmaraksha (Zhu Fahu 竺法護, 231-308) con il nome di Pu Yao Jing Ji 普曜經记. Si veda Cornu F., Dictionnaire Encyclopédique du
Bouddhisme, Paris, Seuil, 2001, p. 308.
13
Dehejia V., op. cit., p. 66.
14
Schlingloff D., Studies in Ajanta Paintings, Delhi, Ajanta Publications, 1988, pp. 143-156.
9
deve essere vissuto prima del 460, dato che troviamo versi tratti dalla sua opera su un affresco che ritrae il Ksāntivada jātaka
ad Ajanta nella grotta 2, decorata attorno a quella data), è una collezione di 34 storie. Mescola prosa e poesia ed è
particolarmente famoso per la sua bellezza e la sua raffinatezza stilistica.
15
Un tema ricorrente nella Jātakamālā è quello del
sovrano virtuoso, il che può essere indice di una sua destinazione a un uditorio colto e di corte. Un indizio a sostegno di questa
tesi è l’utilizzo dell’opera come fonte da parte degli artisti di Ajanta: i patrocinatori probabilmente sceglievano in prima persona il
tema da rappresentare. Le tre virtù enfatizzate lungo le varie storie del testo sono generosità (dāna), moralità (śīla) e
benevolenza o capacità di perdono (ksānti), tutte qualità essenziali in un buon sovrano. E’ interessante notare che quattro dei
trentaquattro jātaka della raccolta di Āryaśūra non compaiono nella collezione pāli, in particolare quello di Mahāsattva o della
tigre, di cui si tratterà in seguito e che ci interessa più direttamente. Oltre alle raccolte specificamente dedicate e ai racconti
sparsi all’interno del canone, anche i cosiddetti avadāna hanno in alcuni casi contribuito ad arricchire il patrimonio dei jātaka. Un
avadāna è la storia di un atto meritorio: se il protagonista è un bodhisattva, inevitabilmente ci troviamo di fronte a un jātaka. Il
più antico lavoro di questo tipo è l’Avadāna-Śataka, testo Hīnayāna nel cui secondo e quarto libro vengono narrati diversi
jātaka.
1.2. Struttura dei jātaka
Nella loro versione pāli, i jātaka sono una combinazione di parti in prosa e parti in versi, ma solo queste ultime sono
considerate canoniche. La raccolta è divisa in sezioni, chiamate nipāta, a seconda del numero di versi che le storie contengono:
in questo modo, quelle raccolte nell’eka-nipāta hanno un solo verso, mentre l’ultima sezione, chiamata mahā-nipāta, ospita dieci
storie con parti metriche molto lunghe.
16
Ogni singolo jātaka presenta una struttura fissa: inizia con la descrizione della situazione in cui il Buddha si trova a narrare,
chiamata “racconto del presente” (paccuppanavatthu). Prosegue con la narrazione della storia vera e propria, chiamata
“racconto del passato” (atitavatthu). Qui si trovano solitamente inserite le parti in versi, seguite da un commento grammaticale e
lessicale che si può considerare un’inserzione tarda.
17
La ripresa e la conclusione del racconto cornice sono rappresentate dalla
“connessione” (samodhāna), dove il Buddha identifica i protagonisti del racconto con i personaggi menzionati
nell’introduzione.
18
Una struttura formale di questo genere permetteva di trasformare facilmente in jātaka qualunque racconto
popolare, attribuendo al futuro Buddha la parte appropriata ed esemplificando l’esercizio di una virtù.
Jātaka è una delle nove categorie di testi nelle quali era diviso inizialmente il canone. La presenza anche in altre sue parti
di un certo numero di jātaka in versi, alcuni quasi identici a quelli della raccolta, potrebbe dimostrare che queste storie siano
molto più antiche del I secolo a.C.
19
Si può ipotizzare che il commentatore della raccolta abbia fatto uso di materiale
preesistente, già associato a versi, nel compilare le storie. Questa ipotesi è supportata dal fatto che alcuni jātaka della raccolta
pāli si ritrovano quasi identici in testi sanscriti come il Mahāvastu.
20
Un’analisi dei jātaka pāli evidenzia una grande varietà di tipologie di versi, che in gran parte non sembrano di origine
buddhista. Le qualità e le virtù tipiche del bodhisattva si rintracciano solitamente nelle parti in prosa (successive). Un certo
numero di versi, specialmente quelli contenuti nei nipāta più antichi, sembra dare valore a una saggezza comune, terrena (nīti),
piuttosto che alle virtù del bodhisattva; altri sembrano ispirarsi a fiabe e favole ritrovabili nel Pañcatantra e nell’Hitopadeśa.
21
Si possono fare alcune osservazioni sulla relazione tra i versi e la prosa di cui sono composte le storie: il fatto che un verso
del Bilāra jātaka faccia menzione di un gatto, quando nel testo in prosa si parla di uno sciacallo, indica che la parte in prosa
potrebbe essere un’aggiunta successiva. Nel Viśvāntara jātaka l’uso della parola paccaya nell’insolito senso di “appropriato”
riferita a un elefante ha causato la cattiva comprensione da parte dell’autore della parte in prosa: il termine, inteso
erroneamente, è divenuto il nome dell’animale.
22
Nonostante il grande numero di storie raccolte nella collezione, questa non include tutti i jātaka che esistevano nell’India
settentrionale durante la prima fase di espansione del buddhismo. Ci sono in altre sezioni del canone pāli storie che
tecnicamente sono jātaka, perché narrano atti del Buddha in un’esistenza precedente e si concludono con l’identificazione dei
personaggi (samodhāna), ma non fanno parte della raccolta. Così alcune storie presenti nel Mahāvastu non compaiono nella
raccolta pāli. Esiste anche una collezione di cinquanta jātaka diffusa nel Sud-est asiatico, generalmente definita apocrifa perché
non rientra nel canone.
23
Molte storie includono episodi nei quali il protagonista dona oggetti preziosi e persino la moglie. Tali
eventi si basano sul Viśvāntara jātaka della collezione pāli, dal quale mutuano periodi interi.
24
Altre storie non hanno equivalenti
pāli, ma possono esser messe in relazione con testi in sanscrito come Mahāvastu e Divyāvadāna; altre ancora non hanno
paralleli e le loro origini vanno cercate nella narrativa popolare locale.
25
I jātaka, narrando le precedenti esistenze del Buddha Śākyamuni, si basano, per una giustificazione teorica delle
numerose vite del loro protagonista, sul concetto di rinascita. In India, la fede nel ciclo delle nascite e delle morti (samsāra) e
nella serie delle azioni e dei loro frutti (karma) sta alla base della maggior parte delle correnti filosofiche e religiose. Si possono
rintracciare le prime sporadiche allusioni a questo concetto nelle raccolte vediche, ma è nelle Upanisad che ne troviamo una
prima enunciazione.
26
Il principio etico della retribuzione delle azioni e la teoria della rinascita vengono accolti anche dal
buddhismo. La storia di un individuo non ha inizio con la sua nascita, ma si va formando lungo una serie di vite successive: una
delle conoscenze superiori raggiungibili con la pratica della meditazione consiste nella capacità di ricordare tutte le esistenze
anteriori, per cui appare logico che la tradizione attribuisca la narrazione dei jātaka al Buddha stesso.
I jātaka rappresentano una delle espressioni più efficaci del sistema etico buddhista. Al centro di queste narrazioni è la
legge del karma, in virtù della quale le condizioni di ogni essere vivente sono il risultato di ciò che ha fatto nelle sue precedenti
incarnazioni. Dalle vicende narrate impariamo che il karma non si dispiega sempre in maniera lineare, in modo tale che ogni
singola azione dia immediatamente un effetto specifico, ma che la retribuzione per le proprie azioni si realizza lungo il corso di
numerose vite.
15
Khoroche P., “Towards a New Edition of Āryaśūra’s Jātakamālā”, in Indica et tibetica, vol. 12, Bonn, Indica et Tibetica Verlag, 1987, pp. 5-12.
16
Norman K. R., op. cit., pp. 77-78.
17
D’Onza Chiodo, op. cit., p. 13.
18
E’ stato ipotizzato che il commentario, le parti introduttive e quelle in prosa della storia siano il lavoro di un solo autore. Lüders H., Bhārhut und die buddhistische
Literatur, Leipzig, 1941, p. 144. Cit. In Norman K. R., op. cit., ibidem.
19
Tra gli altri testi del canone che contengono storie delle precedenti esistenze del Buddha è il Cariyapitaka, quindicesimo e ultimo libro del Khuddaya-nikaya. Esso
consiste di trentacinque jātaka che servono a illustrare le dieci perfezioni (pāramitā); trentadue storie sono mutuate direttamente dalla collezione jātaka. Cfr. Norman K. R.
op. cit., p. 95.
20
Norman K. R., op. cit., p. 78.
21
Ibidem, p. 79.
22
Cone M. e Gombrich R. F., The Perfect Generosity of Prince Vessantara, Oxford, 1977, pp. XXXIII-XXXIV. Cit. in Norman K. R., op. cit., p. 80.
23
Norman K. R., op. cit., p. 177.
24
Ibidem.
25
Ibidem, p. 178.
26
D’Onza Chiodo, op. cit., pp. 9-31.
10
Un elemento di grande interesse, non soltanto dal punto di vista storico, ma anche dal punto di vista del problema
rappresentato dalla datazione dei jātaka, è il quadro della società in essi rappresentato. Da un esame dei frequenti riferimenti
alle condizioni sociali, politiche ed economiche che si trovano disseminati nei racconti, emerge che essi si riferiscono
verosimilmente a un’epoca precedente l’avvento delle grandi dinastie dei Nanda e dei Maurya (IV secolo a.C.) alle quali non si
trova mai alcuna allusione.
27
La società che vi è descritta sembra corrispondere, per molti aspetti fondamentali, a quella
dell’India settentrionale nell’epoca immediatamente precedente il Buddha (VI secolo a.C.). Ciò che appare singolare è che
un’opera che ha subito, nel corso dei secoli, tanti rimaneggiamenti ed interpolazioni abbia potuto mantenere una sostanziale
omogeneità di fondo, la quale consente di ricavare un’immagine abbastanza unitaria dell’assetto sociale dell’epoca.
28
1.3. I jātaka nella letteratura cinese
Sin dai primi contatti dei cinesi con il buddhismo, avvenuti in epoca Han, vennero fatte traduzioni di diverse biografie del
Buddha, che venivano narrate dai monaci durante le loro peregrinazioni.
29
I jātaka, conosciuti in cinese con la traslitterazione
qieduoga 闍多伽 o con la traduzione del nome in bensheng gushi 本生故事, in quanto narrano delle precedenti incarnazioni
dell’Illuminato, erano probabilmente conosciuti in Cina già a quell’epoca, ma purtroppo non abbiamo informazioni a riguardo.
L’idea dell’accumulo di meriti tramite nobili atti, nient’affatto estranea alla morale confuciana, ebbe molta efficacia nella
diffusione della religione dopo le prime traduzioni, che vennero effettuate nella seconda metà del III secolo.
30
Le vite del Buddha che circolavano in Cina, diversamente dalle biografie di Confucio e di personalità simili, erano storie di
un individuo dalle caratteristiche sovrumane; ma, nello stesso momento, vennero costruite come storie realistiche di un uomo.
Questo aspetto probabilmente rivestì un ruolo importante nel successo che ebbero, successo testimoniato anche dalle frequenti
trasposizioni artistiche presenti nei siti rupestri della Cina nord-occidentale.
Il canone buddhista cinese, detto Sanzang 三藏 (dal termine sanscrito Tripitaka,
31
“Tre Canestri”) o Dazangjing 大藏经
(Grande deposito delle scritture), è una enorme ed eterogenea collezione di testi venutasi a formare nell’arco di quasi mille
anni. Vi sono comprese traduzioni, ma anche testi scritti direttamente in cinese, commentari e trattati. Una prima edizione venne
completata nel 581, ma ne seguirono molte altre. L’ultima in ordine di tempo è il Taishō Shinshū Daizōkyō 大正新脩大藏經
(1924-1929, cinquantacinque volumi, ma con aggiunte fino al 1934, per un totale di cento volumi), sulla quale si baseranno le
nostre traduzioni delle principali versioni cinesi di Viśvāntara, Śyāmaka e Mahāsattva jātaka.
32
I jātaka non sono ospitati in un’unica collezione a sé stante come nel canone pāli, ma si trovano distribuiti in diversi testi
nella sezione chiamata benyuan bu 本缘部: questa comprende i sūtra numerati nel Taishō dal 152 al 219, raccolti in due volumi,
il terzo e il quarto. Altre storie sono sparse nel canone.
33
La frammentazione dei jātaka in varie opere dipende dal fatto che il
processo di traduzione fu complesso e disomonogeneo, fatto in funzione dei lavori che, nel corso del tempo, arrivavano
dall’India. I testi della sezione benyuan talvolta sono interamente dedicati al genere (come nel caso dello Xianyu Jing 賢愚經, T.
202), talvolta ne ospitano alcuni esempi (è il caso dello Zabaozangjing 雜寶藏經, T. 203). Vi sono dei casi in cui un jātaka viene
narrato in un testo indipendente: lo Śyāmaka jātaka vanta quattro sūtra interamente dedicatigli: il Pusa Shanzi Jing 菩萨睒子经
(T. 174) , lo Shanzi Jing 睒子经 (T. 175a) e due versioni quasi identiche del Foshuo Shanzi Jing 佛说睒子经 (T. 175b e T.
175c).
34
I jātaka presenti nel canone cinese presentano strutture di vario tipo. Nello Xianyu Jing le storie sono precedute dal
“racconto del presente”, quindi abbiamo il “racconto del passato”. La narrazione è chiusa dalla “connessione”: ci si presenta
quindi una struttura simile a quella dei jātaka pāli. Nel Liudu Jijing六度集經
35
invece non troviamo il “racconto del presente”, ma
la narrazione parte direttamente dalla storia vera e propria senza alcuna introduzione. Nel Pusa Benyuan Jing 菩薩本緣經
36
e
nello Zabaozangjing troviamo piccole sezioni in versi: stabilire un eventuale rapporto tra queste e le parti in versi delle versioni
indiane sarebbe davvero interessante.
Nel terzo capitolo di questa tesi analizzeremo tre jātaka: la storia di Viśvāntara, il cui protagonista in Cina prese il nome di
Xudana 须大拏, quella di Śyāmaka o Shanzi 睒子 e il jātaka della tigre, conosciuto anche come Mahāsattva jātaka (in cinese
Mohesaduo 摩訶薩埵). La scelta è ricaduta su questi perché sono dipinti frequentemente nelle grotte di Kizil e sono tra quelli più
raffigurati a Dunhuang. Inoltre, ogni storia presa singolarmente riveste un particolare interesse: il Viśvāntara jātaka, che illustra
la virtù della generosità spinta ai suoi estremi, è una delle storie più famose e gode di un elevatissimo numero di trasposizioni
artistiche, non solo in India, Asia centrale e Cina, ma anche nel sud-est asiatico. Qui il Viśvāntara jātaka dette origine ad altri
jātaka che da esso prendevano ispirazione. E’ illustrato e inciso in molti templi dell’area, come a Pagan, in Birmania o a
Borobudur, in Indonesia.
37
E’ rappresentato nel teatro tradizionale thailadese e nel teatro delle marionette cambogiano.
38
Lo Śyāmaka jātaka, in quanto un esempio di pietà filiale assimilabile a quella tradizionale confuciana che venne valorizzato
e sottolineato, rivestì un ruolo molto importante all’interno del dibattito tra buddhisti e confuciani riguardo al carattere più o meno
filiale della nuova religione;
39
inoltre, abbiamo già accennato alla mole di traduzioni presente nel canone. La storia della tigre,
nelle versioni cinesi, presenta interessanti variazioni a livello di trama che proveremo a riscontrare nelle trasposizioni artistiche.
Di seguito descriveremo brevemente due testi molto importanti per il nostro studio: il Sūtra del saggio e del folle e il Sūtra
delle sei perfezioni. Del primo parleremo perché, pur narrando una sola delle tre storie di cui ci occupiamo, ovvero del jātaka
27
Ibidem, p. 15.
28
Ibidem.
29
Le due principali filosofie cinesi, confucianesimo e taoismo, basavano i propri sistemi dottrinali sulla venerazione dei fondatori. Era uso molto importante nella
società cinese conoscere dettagliate informazioni su antenati e capostipiti. Di ogni personaggio importante si dovevano avere precise informazioni biografiche, anche se
spesso fantasiose.
30
Tsukamoto Z., A History of Early Chinese Buddhism, Tokyo, Kodansha International Ltd., 1979, pp. 277-279. Il Liudu Jijing 六度集經, che contiene novantuno
jātaka, venne tradotto nella seconda metà del III secolo. Molte delle storie narratevi rappresentano le prime versioni cinesi. Di questo sūtra parleremo al paragrafo 1.3.2.
31
Questo termine viene utilizzato per denominare il canone buddista nelle sue diverse forme (pāli, tibetano e cinese) anche se la divisione in tre parti è stata
mantenuta solo nel canone pāli.
32
Takakusu J. e Wanatabe K. (a cura di), Taishō Shinshū Daizōkyō 大正新脩大藏經, Tokyo, 1924-1934.
33
Una versione del Mahāsattva jātaka è contenuta nel Jinguangmingjing 金光明經, che si trova nella sezione jingji bu 經集部 (voll. 14-17 del Taishō).
34
Per maggiori informazioni su questi testi, si veda il capitolo tre, paragrafo 2.2.
35
Si veda al paragrafo 1.3.2.
36
Taishō 153, pp. 52b-70a.
37
L’edificazione del tempio di Borobudur, nell’isola di Java, risale al IX secolo. Cfr. Fahr Becker G., op. cit., p. 424. Fischer, R. E. Buddhist Art and Architecture,
Londra, Thames and Hudson, 1993, pp. 195-201. Nou J. L. e Frédéric L., Borobudur: la via alla conoscenza perfetta, Milano, Jaca Book, 1994. Riguardo a Pagan, si veda
Fahr Becker G. (a cura di), op. cit., pp. 414-426.
38
Fahr Becker, ibidem.
39
Ch’en K., The Chinese Transformation of Buddhism, Princeton, Princeton University Press, 1973, pp. 14-60. Il problema verrà trattato più approfonditamente nel
terzo capitolo, paragrafo 2.3.
11
della tigre, risulta essere stato una importante fonte di ispirazione per le illustrazioni di Dunhuang. Del secondo parleremo
perché in esso troviamo due tra le prime versioni cinesi del Viśvāntara e del Mahāsattva jātaka.
40
1.3.1 Lo Xianyu Jing
Lo Xianyu Jing 賢愚經 (Sūtra del saggio e del folle) è un testo incluso nel quarto volume del canone buddhista cinese ed è
il risultato dalla compilazione e dalla riunione in un’unica opera di jātaka, leggende e racconti allegorici.
41
In esso sono presenti
trame narrative molto vivaci e complesse, che ebbero un notevole fascino sui suoi lettori ed ascoltatori e ne favorirono un’ampia
diffusione. I racconti si attengono a un criterio utilizzato dal Buddha stesso al tempo della predicazione, cioè quello di basarsi
durante il lavoro evangelico sul racconto di storie allegoriche anziché sulla predica di soli elementi dottrinali.
42
Secondo la tradizione lo Xianyu Jing fu tradotto e redatto da Tan Xue 曇學 (chiamato anche Hui Jue 慧觉), Wei De 威德 e
altri otto monaci durante la dinastia dei Liang settentrionali 北凉. Raggiunse una versione definitiva a Liangzhou e da allora
ebbe una diffusione ininterrotta.
43
Dopo essere giunto a Dunhuang, ebbe una notevole influenza sulla produzione artistica del
sito. Oltre ai vari esemplari del sūtra ritrovati nelle grotte in cui si conservavano innumerevoli quantità di testi di diverso genere,
sulle pareti ritroviamo molti dipinti murali che hanno per soggetto racconti narrati in esso. Con la diffusione del testo, il suo
materiale divenne patrimonio della gente comune e col tempo, durante la dinastia Tang e più tardi con le Cinque dinastie,
contribuì e divenne la base per la formazione dei bianwen 變文, ritrovati in gran numero proprio a Dunhuang. Il preziosissimo
materiale letterario e pittorico di Dunhuang giunto sino a noi, oltre a testimoniare la diffusione e la popolarità del Sūtra del
saggio e del folle nell’area, può fungere da base per lo studio dello sviluppo del buddhismo nella regione del Gansu.
Il sūtra, chiamato anche Xianyu Yinyuan Jing, 賢愚因緣經, consta di tredici capitoli, che contengono sessantanove unità
narrative. Secondo quanto scrive il monaco Seng You 僧祐 nello Xianyu Jing Ji 賢愚經記,
44
Tan Xue, Wei De e altri otto monaci,
in viaggio verso ovest alla ricerca di testi sacri, arrivarono a Yutian 于闐 (l’odierna Hetian, nello Xinjiang). Là si imbatterono per
puro caso in una grande assemblea di monaci che si teneva solo una volta ogni cinque anni e ascoltarono le prediche e i
racconti di anziani monaci provenienti dalle regioni oltre Dunhuang e dall’Asia Centrale, le annotarono e le tradussero in cinese.
Tornati a Gaochang 高昌 (l’odierna Turfan), riunirono tutto ciò che avevano ascoltato, lo ordinarono e ne produssero un’opera.
Recandolo con sé tornarono poi a Liangzhou 涼州 (oggi Wuwei, nel Gansu), dove il monaco Hui Lang 慧朗, per differenziarlo da
altri testi simili già in circolazione all’epoca, lo intitolò Xianyu Jing 賢愚經.
45
La natura del testo
Il riferimento più antico al Sūtra del saggio e del folle si trova nel Chu Sanzang Jiji
46
che, narrandone la genesi, lo cataloga
come testo creato in Cina e non come traduzione di un originale indiano. Durante le dinastie Sui e Tang viene classificato
semplicemente come classico dell’Hīnayāna. Il Kaiyuan Shijiao Lu 開元釋教錄 (Catalogo sul buddhismo dell’era Kaiyuan),
compilato entro il 730 dal monaco Zhi Sheng 智昇, lo definisce come una raccolta sui saggi e i santi delle terre d’occidente.
47
Per quanto riguarda la datazione del testo, Seng You fissa una data precisa: il ventiduesimo anno dell’era Yuanjia dei Liu
Song (420-479). Zhi Sheng invece narra che esso fu messo per iscritto (si parla in realtà di traduzione) a Gaochang durante il
sesto anno dell’era Taiping Zhengjun degli Wei settentrionali (386-534).
48
Le date indicate dai due autori coincidono: si tratta
dell’anno 445. Tuttavia, non vi è mai stato accordo su questa data tra gli studiosi. La discordia nasce da un altro passo del
Xianyu Jing Ji, nel quale quando si parla della compilazione dell’opera si fa riferimento a una data diversa, il quarto anno
dell’era Tianjian degli Wei settentrionali: essa corrisponderebbe al dodicesimo anno dell’era Yuanjia anziché al ventiduesimo,
così come scritto da Seng You in un altro punto. In questo caso la data della redazione del sūtra andrebbe retrocessa al 435,
ipotizzando un errore da parte di Seng You nel passo in cui si fornisce la data del ventiduesimo anno dell’era Yuanjia. La
maggior parte degli studiosi propende per il 445: tra di essi vi è Tang Yongtong (1892-1964), importante storico del buddhismo
cinese.
49
Chi si oppone a questa data, preferendo anticiparla di dieci anni, punta il dito sull’improbabilità che la situazione
politica che la regione in quegli anni viveva potesse permettere ai monaci di spostarsi alla ricerca di testi in totale tranquillità.
50
Infatti, dopo diversi scontri, proprio nel 445 le truppe degli Wei settentrionali attaccarono le popolazioni barbariche presenti nella
regione, che a loro volta si riversarono su Yutian, uccidendone il sovrano. Durante lo stesso anno, gli Wei settentrionali misero a
ferro e fuoco Liangzhou, divenendo i padroni incontrastati di tutto l’Hexi.
51
Il sūtra in rapporto al sito di Kizil
Nelle grotte della regione autonoma del Xinjiang sono presenti diversi dipinti murali che si trovano a corrispondere per i
temi trattati alle storie narrate nello Xianyu Jing. In particolare, tra le oltre settanta grotte di Kizil che preservano i propri dipinti
murali, ve ne sono trentanove il cui materiale pittorico può essere messo in relazione con il sūtra. Secondo quanto narrato nel
Chu Sanzang Jiji, alcuni monaci, dopo avere annotato i racconti uditi a una grande riunione tenutasi a Yutian, lungo il tratto
meridionale della via della seta, si recarono a Gaochang, dove lo organizzarono e misero per iscritto. Si può ipotizzare che i
jātaka narrati nello Xianyu Jing divennero presto popolari grazie a una rapida diffusione del testo e che influenzarono la
produzione artistica dei diversi siti rupestri dell’attuale Xinjiang. E’ pure probabile che i racconti orali che i monaci udirono a
Yutian fossero già conosciuti anche nell’area di Kuche e che, ancora in assenza di testi di riferimento, alcune delle grotte più
40
Per quanto riguarda la storia del principe Viśvāntara, Zürcher sostiene che quella contenuta nel Liudu Jijing sia la prima traduzione cinese in assoluto. Cfr.
Zürcher E., The Buddhist Conquest of China, Leiden, E.J. Brill, 1972, p. 14.
41
Ch’en K., op. cit., pp. 365-386.
42
Liang Li Ling 梁麗玲 “Xianyu Jing zai Dunhuang de liuchuang yu fazhan” 賢愚經在敦煌的流傳與發展, in Zhonghua foxue yanjiu 中華佛學研究, n. 5, 2001, pp. 123-
162.
43
Ibidem.
44
Lo Xianyu Jing Ji fa parte del nono capitolo del Chu Sanzang Jiji 出三藏記集 (Collezione di memorie riguardanti il Tripitaka cinese), il più antico catalogo di testi
sacri buddhisti giunto sino a noi. Fu scritto dal monaco Seng You che lo completò nel 518. Cfr. Ch’en K., op. cit., p. 373.
45
Liang Li Ling, “Xianyu Jing zai Dunhuang de liuchuang yu fazhan”, pp. 125-128.
46
Si veda nota 39.
47
Taishō 55, p. 539b-c. Cit. in Liang Li Ling, op. cit., p. 125.
48
Liang Li Ling, ibidem.
49
Tang Yongtong 湯用彤, Han Wei Liang Jin Nanbei Chao Fojiao Shi (shang) 漢魏兩晉南北朝佛教史(上), Pechino, Luotuo Chubanshe 駱陀出版社, 1987, p. 379.
Cit. in Liang Li Ling, ibidem, p. 128.
50
Liang Li Ling, ibidem.
51
Ibidem.
12
antiche costruite e decorate di Kizil, risalenti all’inizio del IV secolo, avessero per base proprio queste narrazioni tramandate
oralmente.
52
Da quanto ci dicono le analisi storiografiche, i rapporti intercorsi tra Kuche e Yutian sin dai primi secoli dopo Cristo
risultano essere stati assidui. Non si trattava solo di rapporti diplomatici tra i due regni, ma anche di intensi scambi commerciali
su una rotta che connetteva direttamente le località, poste su due diversi tratti della via della seta.
53
Le memorie di Xuanzang 玄奘 (600-664) ci danno notizia di una riunione di monaci che si teneva ogni cinque anni a
Kuche: essa aveva luogo in occasione di una festa religiosa che pare in tutto e per tutto simile a quella in cui si imbatterono a
Yutian Tan Xue, Wei De e gli altri monaci che redassero il Sūtra del saggio e del folle.
54
Doveva essere una festa importante
nelle “regioni occidentali”: essa attirava i monaci e la popolazione dell'area circostante e in questa occasione i religiosi
predicavano i princìpi della fede e narravano storie esemplari, tra le altre con ogni probabilità anche quelle che erano state
fissate circa due secoli prima nel sūtra.
Secondo la nuova datazione, elaborata dal team archeologico guidato da Su Bai negli anni ’80, i primi dipinti murali del sito
di Kizil vennero creati nel IV secolo, mentre lo Xianyu Jing venne presumibilmente messo per iscritto attorno alla metà del V
secolo. Si potrebbe ipotizzare quindi una influenza delle raffigurazioni del sito sulla successiva compilazione della raccolta. In
altre parole, alcune delle storie raffigurate a Kizil potrebbero in parte avere condizionato il contenuto del sūtra.
55
I jātaka
raffigurati a Kizil, che narrano in una singola scena racchiusa in uno spazio romboidale un momento significativo della storia,
compaiono generalmente nello Xianyu Jing, mentre, secondo Liang Li Ling, non incontriamo jātaka che compaiano
esclusivamente in altri testi.
56
A causa della carenza di fonti, la periodizzazione delle grotte del sito di Kizil è stata al centro di un lungo e acceso dibattito
tra gli studiosi di tutto il mondo: la tesi ormai comunemente accettata, quella sostenuta da Su Bai a seguito delle analisi al
radiocarbonio, è che le prime grotte (tra le quali vi è la 38) vennero scavate agli inizi del IV secolo. Le grotte dell’area di Kuche,
che oggi si trova nella contea di Baicheng, ospitano 135 raffigurazioni di jātaka, all’interno di 442 superfici dipinte in 36 grotte di
vari siti. Il sito di Kizil, che si trova a sette miglia a sud-est del paese su un rilievo poco distante dalla riva settentrionale del
fiume Muzart, rappresenta in ordine di tempo il primo sito rupestre buddhista dell’antico stato di Kuche. Nonostante questo è il
meglio preservato.
Tra le 236 grotte del sito si possono individuare oltre settanta illustrazioni di jātaka, di cui quelle presenti in 27 grotte
57
possono essere messe in relazione con lo Xianyu Jing. Tuttavia, data la natura estremamente sintetica delle illustrazioni, è
difficile dare un giudizio certo sulle possibili relazioni con il testo.
Il sūtra in rapporto al sito di Dunhuang
Dopo la sua redazione, il Sūtra del saggio e del folle ebbe una rapida diffusione ma, quanto al periodo della sua
introduzione a Dunhuang, le fonti non forniscono dati sicuri: stando a quanto riferito dal Dazhidulun Dinianliupin Shilun 大智度論
第廿六品釋論 e dal Daban Niepan Jingjuan Disayi 大般涅槃經卷第卅一, il testo avrebbe fatto la sua comparsa nell’area attorno
al 530.
58
Tuttavia, in una tra le grotte più antiche rimaste, la 275, risalente alla dinastia dei Liang settentrionali, ci sono degli
affreschi che hanno come soggetto dei jātaka: secondo l’analisi di Zhao Xiurong, l’artista che dipinse le storie si basò sul Sūtra
del saggio e del folle.
59
Secondo lo studioso cinese la comparsa di questa compilazione a Dunhuang andrebbe quindi anticipata
perlomeno al periodo in cui venne costruita la grotta, cioè alla seconda metà del V secolo.
60
Diversi dipinti murali delle grotte di Dunhuang hanno come soggetto jātaka che appaiono nel sūtra: si tratta di sedici opere,
che spaziano dalla 275, risalente alla dinastia dei Liang settentrionali, alla 55, che fu costruita durante i Song settentrionali. La
grotta 254, risalente all’epoca degli Wei settentrionali, ritrae la storia del novizio che, messo in difficoltà dai tentativi di seduzione
di una donna, preferisce suicidarsi piuttosto che venir meno al voto di castità. Questo racconto compare unicamente nello
Xianyu Jing, consolidando l’ipotesi di Zhang Xiurong che quest’ultimo sia stato utilizzato come fonte per molte raffigurazioni di
jātaka.
61
Può anche esser vero che gli artisti che dipinsero jātaka e leggende a Dunhuang si basassero inizialmente su una
tradizione orale diffusa e radicata, che successivamente confluì in opere come lo Xianyu Jing.
Con l’emergere nella prima parte della dinastia Tang della corrente mahayanica della Terra Pura (jintu zong 淨土宗)
62
, il
numero di jātaka raffigurati all’interno delle grotte del sito di Dunhuang si ridusse notevolmente: essi occupavano ora le pareti
delle nicchie che accoglievano le statue di argilla, una posizione cioè molto meno importante di quelle riservategli un tempo (ad
esempio la fascia centrale della parete laterale della grotta 275).
Nell’ultima fase della dinastia Tang e all’inizio delle Cinque dinastie, i jātaka tornarono ad essere raffigurati in una
posizione di maggiore visibilità, in diversi casi nella parte inferiore delle pareti. Il contenuto dei jātaka si arricchì e le trasposizioni
pittoriche arrivarono a occupare più pareti: il risultato naturalmente era ormai molto diverso dagli antecedenti creati sotto le
dinastie settentrionali. In questo periodo si possono distinguere le raffigurazioni di trentotto storie diverse, più della metà di
quelle contenute nello Xianyu Jing.
63
I jātaka raffigurati sulle pareti delle grotte di Dunhuang si dotarono a partire dall’epoca Tang anche di brevi scritte verticali
che identificavano la storia. Shi Weixiang sostiene che i jātaka dipinti sulle pareti delle grotte delle dinastie settentrionali fossero
destinati ai monaci per la loro pratica quotidiana di contemplazione, mentre quelli dipinti in epoca Tang e successive erano
destinati all’educazione della gente comune.
64
Questa tesi è sostenibile anche data la diffusione in epoca Tang di testi che si rifacevano ai racconti del sūtra, ampliandoli
notevolmente: probabilmente queste variazioni venivano lette da un pubblico laico (in grado di leggere, quindi di ceto alto),
52
Liang Li Ling 梁麗玲, “Xianyu Jing yu shiku yishu” 賢愚經與石窟藝術, in Zhonghua foxue yanju 中華佛學研究, Taibei , Zhonghua foxue yanjiusuo 中華佛學研究所,
2002, pp. 45-46.
53
Ibidem.
54
Xuanzang 玄奘, Da Tang Xiyuji 大唐西域记, cit. in Liang Li Ling, ibidem.
55
Liang Li Ling, ibidem, p. 47.
56
Ibidem.
57
Le grotte n. 7, 8, 13, 14, 17, 38, 47, 58, 63, 69, 91, 98, 99, 100, 101, 104, 110, 114, 157, 163, 171, 178, 184, 186, 198, 206 e 224.
58
Liang Li Ling, “Xianyu Jing zai Dunhuang de liuchuang yu fazhan”, pp. 134-135.
59
Zhao Xiurong 趙秀榮, “Shilun Mogaoku 275 ku beibi gushihua de fojing yiju yifu 275 ku deng nianlai zai tantao” 試論莫高窟 275 窟北壁故事畫的佛經依據—附 275
窟等年代再探討, in Dunhuang yanjiu 敦煌研究, n. 3, 1991, pp. 13-27. Citato in Liang Li Ling , ibidem.
60
Le prime grotte tutt’ora esistenti a Dunhuang vengono datate all’epoca dei Liang settentrionali, che occuparono l’oasi nel 420, ma vi è ancora dibattito su questa
tesi. Tornerò successivamente sul problema.
61
Liang Li Ling, “Xianyu Jing zai Dunhuang de liuchuang yu fazhan”, p. 133.
62
Corrente nata tra il IV e il V secolo, credeva nella salvezza ottenuta tramite la fede in Amithaba. Recitando il nome del Buddha infatti, si poteva ottenere la
rinascita nel Paradiso occidentale, conosciuto anche come la Terra Pura di Amitabha.
63
Ibidem, p. 153.
64
Shi Weixiang 史葦湘, “Guanyu Dunhuang Mogaoku neirong zonglu” 關於敦煌莫高窟內容總錄, in Dunhuang Yanjiuyuan 敦煌研究院, Dunhuang shiku neirong
zonglu 敦煌石窟內容總錄, Beijing, Wenwu Chubanshi 文物出版社, 1996, pp. 248-249. Cit. Liang Li Ling, ibidem.
13
mentre la gente comune si serviva dei dipinti murali. Questi, diventati ora molto più estesi (anche grazie agli Xianyu Jing Bian
65
),
erano di più facile comprensione rispetto ai jātaka monoscenici delle prime grotte, che a causa della loro sinteticità davano solo
le notizie essenziali all’osservatore.
Si potrebbe ipotizzare che, quando un monaco si trovava a spiegare alla gente comune o ad altri monaci appena ordinati i
concetti chiave della religione, si poneva il problema del linguaggio dottrinale, che spesso poteva presentarsi troppo astratto e
complicato per un uditorio di illetterati. I dipinti murali, narrativi e non, fornivano all'oratore una valida spalla per chiarire alcuni
elementi attraverso un supporto visivo. I jātaka in particolare godettero di grande popolarità, se si vede la continuità nella loro
raffigurazione a Dunhuang sin dall'epoca dei Liang settentrionali e la diffusione dei testi che vi si ispiravano a partire dall'epoca
Tang: queste storie probabilmente fornivano il punto di partenza a un monaco nel corso della sua opera di proselitismo,
essendo più facili per la gente di quanto potessero essere i passaggi dottrinali dei testi.
66
In linea di principio, i dipinti murali che dal punto di vista del tema si possono mettere in relazione con il Sūtra del saggio e
del folle presenti a Dunhuang si possono classificare in due periodi principali: il primo, dalle dinastie settentrionali alla dinastia
Sui e all'inizio dei Tang, in cui il tema principale sono jātaka e leggende; il secondo, dai Tang e le Cinque dinastie per terminare
all'inizio dei Song settentrionali, che utilizza materiale proveniente dagli Xianyu Jing Bian.
67
Le storie presenti nel Sūtra del saggio e del folle, molto apprezzate per la loro vivacità, godettero nei secoli della
produzione artistica di Dunhuang di grande popolarità: all'interno del processo di diffusione del buddhismo in Cina, divennero un
ottimo strumento per propagare la fede. Il materiale narrativo di queste storie influenzò lo sviluppo di un nuovo genere, il
bianwen 變文, forma letteraria popolare durante la dinastia Tang e all'origine della produzione narrativa successiva. I bianwen,
inizialmente brevi colonne di testo inserite all’interno di raffigurazioni di generi diversi a Dunhuang, si andarono gradualmente
trasformando in canovacci di storie che venivano raccontate davanti a un uditorio.
68
Tra quelli che si basavano sui racconti
buddhisti, quelli più interessanti col tempo subivano graduali manipolazioni, fino a quando divenivano totalmente indipendenti
dal contesto in cui erano stati creati. In questo modo, alcuni jātaka divennero particolarmente popolari, anche se avevano ormai
perso il proprio legame originario con il buddhismo e in parte anche la propria funzione didattica.
1.3.2 Il Liudu Jijing
Il Liudu Jijing 六度集經 (Classico delle sei perfezioni)
69
, conservato nel terzo volume (benyuan bu shang) del Taishō (T.
152), raccoglie novantuno storie delle precedenti esistenze del Buddha storico. Venne tradotto dal famoso monaco sogdiano
Kang Senghui 康僧會 durante il regno di Wu 吳 (220-284, periodo dei Tre Regni) nella capitale Jieye 誱業. Egli vi arrivò nel 247
proveniente da Hanoi. La sua famiglia aveva vissuto in India per diverse generazioni, poi il padre mercante aveva spostato la
sua attività.
70
Kang Senghui perse i genitori da ragazzo e fu allora che entrò nell’ordine monastico (questo può dimostrare che
già nel III secolo il buddhismo si stava diffondendo anche nei principali centri del sud-est asiatico). Più tardi si spostò a nord, nel
regno di Wu, dove incontrò alterne sorti nei rapporti con la corte. Stando a quanto riferisce il Gaosengzhuan 高僧傳,
71
venne
inizialmente arrestato per ordine imperiale per essere sottoposto ad indagini, salvo poi essere rilasciato e conquistare il favore
del sovrano.
72
Dal punto di vista dottrinale, il Liudu Jijing è il più importante tra i lavori di Kang Senghui, in particolar modo per le parti
introduttive ai capitoli e per il fatto che rappresenta uno dei primi esempi di narrativa buddhista in Cina.
73
Interessante notare
che il termine pāramitā, tradizionalmente inteso come “perfezione umana”, viene tradotto con wuji 無極, che significa “illimitato,
infinito”. Questo termine deriva probabilmente dal contesto taoista, dal quale i traduttori di testi buddhisti del III secolo
mutuavano diversi vocaboli. Secondo Tsukamoto, nei gruppi di traduzione guidati da monaci stranieri durante gli Han posteriori
e i Tre regni in città come Luoyang e Jieye c’erano cinesi con un’educazione taoista: le più antiche traduzioni cinesi vennero
fatte anche con l’utilizzo e la mediazione di concetti e idee di questa filosofia.
74
Lo studioso giapponese nota anche che dietro la
progressiva accettazione da parte degli intellettuali cinesi dei testi buddhisti attraverso la mediazione taoista, si stava
verificando nella società di quel tempo una diffusione di altre credenze taoiste, inerenti gli spiriti e la magia: questa fu la base
religiosa della società comune sulla quale inizialmente si introdusse la figura del Buddha.
75
Il Liudu Jijing è diviso in sei sezioni, ciascuna delle quali, attraverso diversi jātaka, rispecchia una delle sei perfezioni che
ne sono il tema: generosità (dana, tan檀), condotta morale (śīla, shiluo 尸羅), pazienza (ksānti, ren 忍), costanza (virya, jingqin
精勤), contemplazione (dhyana, chanding 禪定) e saggezza (prajna, hui 慧). Queste sono le forme di condotta che un
bodhisattva deve coltivare. Qui ci imbattiamo in un ulteriore aspetto importante dell’opera: essa infatti propaga, esponendo le
virtù della generosità, della saggezza etc., l’ideale mahayanico del bodhisattva servendosi delle precedenti esistenze del
Buddha. Nel Liudu Jijing troviamo storie delle precedenti esistenze non solo del Buddha Sākyamuni, ma anche di Maitreya (Mile
彌勒), il Buddha del futuro.
76
La storia di Mahāsattva si trova nella quarta sezione del primo capitolo, dedicato alla virtù della
generosità, mentre quella di Viśvāntara si trova nel secondo volume, dedicato alla condotta morale.
2. I siti rupestri di Kizil e Dunhuang
Ora descriveremo brevemente i siti di Kizil 克孜尔, situato nell’odierna provincia autonoma dello Xinjiang 新疆, e di
Dunhuang 敦煌, che si trova in Gansu 甘肃. E’ infatti in questi due antichi complessi rupestri che si conservano in grande
quantità rappresentazioni ispirate alle storie delle precedenti esistenze del Buddha.
2.1. Kizil e il regno di Kuche
65
Nuovi testi narrativi indipendenti dallo Xianyu Jing, comparsi in epoca Tang.
66
Liang Li Ling, ibidem.
67
Liang Li Ling, “Xianyu Jing zai Dunhuang de liuchuang yu fazhan”, p. 154.
68
La definizione di bianwen è ancora oggetto di discussioni. Alcuni studiosi usano il termine per riferirsi sia alla narrativa popolare sia alle letture interpretative dei
sūtra. Altri ritengono che le due cose debbano mantenersi ben distinte e che il termine vada utilizzato solo per la prima categoria. Comunque, il bianwen era
originariamente un canovaccio per la declamazione in pubblico di una storia. Cfr. Wu Hung, “What is bianxiang 變相? – On the Relationship between Dunhuang Art and
Dunhuang Literature”, in Harvard Journal of Asiatic Studies, LII (1992), n. 1, pp. 111-192.
69
Denominato anche Liudu Wuji Jing 六度無極經, Liudu Wuji Ji 六度無極集, Liudu Ji 六度集 e Zawujijing 雜無極經. Cfr. Ci Yi 慈怡 (a cura di), Foguang Da Cidian 佛
光大辞典 (Grande dizionario Foguang), Taibei, Shumu Wenxian Chubanshe 书目文献出版社, 1989, 8 voll., p. 1277.
70
Tsukamoto Z., op. cit., p. 151.
71
Opera enciclopedica sulla storia del buddhismo cinese raccontata attraverso le biografie dei suoi più importanti esponenti, compilata attorno al 530 da Hui Jiao 慧
皎.
72
Zürcher E., op. cit., p. 52.
73
Tsukamoto Z., op. cit., p. 162.
74
Ibidem.
75
Ibidem.
76
Foguang Da Cidian, op. cit., p. 1277.
14
A causa della sua posizione strategica sulla rotta commerciale che univa l’India e il mondo occidentale con l’impero cinese,
la città-stato di Kuche 庫車 (all’epoca Qiuzi 龟兹), situata a metà strada tra Turfan e Kashgar, venne attaccata diverse volte dai
cinesi tra il I secolo (un attacco del generale Ban Chao 班超 è dell’88) e il VII secolo, quando entrò a far parte del protettorato
cinese dell’Anxi 安西 (nel 658).
77
Diverse figure importanti del buddhismo del IV e del V secolo provenivano da quella zona: è il caso del famoso traduttore
Kumarajiva (Jiumoluoshe 鳩摩羅什, 350-409), che era originario di Kuche. Il padre, che apparteneva a una eminente famiglia
indiana, aveva sposato la sorella del sovrano, la quale più tardi prese i voti e portò il figlio (che aveva nove anni all’epoca) con
sé in Kashmir. Là studiarono presso un famoso predicatore Theravāda . Pochi anni dopo andarono a Kashgar, dove vennero
istruiti sul Mahayana. A ventun’anni Kumarajiva, la cui fama si stava già diffondendo nell’area, tornò nella sua città natale e
prese i voti. Egli era riverito da tutti i sovrani della regione e dai principi della città, che si prostravano al suo passaggio.
78
Questa testimonianza ci dà un’idea dello stadio di penetrazione del buddhismo tra i nobili e la famiglia reale e del rispetto di cui
godeva la casta dei monaci.
Fotucheng 佛圖澄 (?-348) è una importante figura sia del buddhismo dell’Asia centrale sia di quello cinese. Alcuni studiosi
ritengono che fosse nativo di Kuche, poiché il nome del suo clan era Bo, termine che solitamente distingueva la gente
provenente dal quel regno.
All’inizio del IV secolo, Kuche era già un importante centro culturale e religioso. Stando a quanto scritto nel
quattordicesimo capitolo del Chusanzang Jiji 出三藏记集
79
, in quel periodo vi abitavano più di mille monaci.
80
Il Jin Shu晉书
(Storia di Jin), compilato nel VII secolo da Fang Xuanling 房玄齡, descrive la Kuche del IV secolo come un regno prospero in cui
il buddhismo stava vivendo la sua età dell’oro, mentre la prefazione al Bhiksunipratimoksa narra di numerosi monasteri con
centinaia di monaci, che godevano del favore del re.
81
La situazione rimase tale fino al VII secolo e il regno continuò ad attrarre
missionari indiani e pellegrini cinesi, compreso Xuanzang. Nel 698 e nel 791, due invasioni da parte dei tibetani si susseguirono
alla dominazione cinese. E’ in questo periodo che iniziò la decadenza dell’area, che nel IX secolo passò sotto il controllo degli
uiguri. Nel X secolo, il sovrano di Kashgar si convertì all’Islam, segnando la fine del buddhismo nella regione.
82
2.1.1 La posizione di Kizil
Situata lungo il fiume Muzart 木扎提, a metà strada tra Kuche (67 km a sud-est) e Baicheng 拜城 (60 km a ovest), l’esatta
posizione rispetto al sito rupestre di Kizil della via commerciale settentrionale che collegava Cina e India è ancora oggetto di
dibattito, sebbene paia ormai certo che una località poco lontana, oggi chiamata Duldul-aqur, fosse un passo estremamente
importante.
83
Il complesso rupestre si trova sette chilometri a sud-est rispetto al villaggio da cui prende nome, poco distante dalla riva
settentrionale del Muzart. In realtà, le 236 grotte si dividono su diverse aree di una gola all’interno della quale scorre un
affluente del fiume, il torrente Sugete 苏格特. Sul lato occidentale all’esterno della gola si trovano le grotte dalla 1 alla 81,
all’interno della gola quelle dalla 82 alla 135; nell’area orientale all’esterno della gola le grotte dalla 136 alla 200; dall’area nord-
orientale della gola fino alla parte posteriore della montagna, abbiamo le grotte dalla 201 alla 229. Le altre sono sparse su
un’area compresa nell’area orientale del sito.
84
2.1.2 Le prime esplorazioni
Nel 1895 il geografo ed esploratore svedese Sven Hedin diede inizio alla prima di una serie di spedizioni nel Turkestan
orientale e riconobbe sin da subito l’importanza delle rovine che vi trovò. Nel 1900 l’archeologo inglese (ma di origine
ungherese) Aurel Stein iniziò le sue ricerche lungo il tratto meridionale della via della seta. Pochi anni dopo (tra il 1906 e il 1909)
egli avrebbe “scoperto” Dunhuang.
85
Il sito di Kizil venne visitato per la prima volta durante la terza spedizione tedesca in Asia centrale, tra il 1905 e il 1907. Il
gruppo, guidato dal professore Albert Grünwedel, all’epoca direttore del dipartimento indiano del Museo Etnologico di Berlino, e
da Albert von le Coq, anch’egli membro della stessa istituzione, lavorò per quattro mesi vicino a Kuche, prima a Kumtura e poi a
Kizil.
A causa del grande numero di grotte ancora esistenti a Kizil, si rese necessaria agli archeologi tedeschi la creazione di un
sistema di identificazione. Questo non si basava sulla numerazione, ma ad ogni grotta anziché un numero veniva dato un nome
che ne evidenziasse una particolare caratteristica. Così, quella che oggi è la grotta numero 8 un tempo veniva chiamata “grotta
dei sedici portatori di spada”, a causa del gruppo di soldati ritratti sulle sue pareti. Vi fu solo un’altra spedizione tedesca, questa
volta guidata da von le Coq, nel 1913, che si concentrò principalmente su Kizil e Kumtura. La prima guerra mondiale interruppe
le ricerche, che ripresero con minore frequenza negli anni ’20 (con spedizioni americane e svedesi) e si conclusero prima
dell’inizio del secondo conflitto mondiale.
86
2.1.3 La cronologia tradizionale
Nel 1912 Albert Grünwedel pubblicò i suoi studi su Kizil, Kumtura e Turfan, località che si trovano tutte lungo il tratto
settentrionale della via della seta.
87
Sebbene non si occupi specificamente della datazione, utilizza le differenze stilistiche come
criterio per la classificazione cronologica delle grotte. Egli divide la produzione dell’area in tre stili, dei quali solo i primi due
interessano Kizil. Il primo deriva da modelli gandharici, utilizza sfondi color cinabro scuro e si trova principalmente nelle grotte
squadrate con soffitto a cupola. Il secondo si avvicina maggiormente alle convenzioni stilistiche sassanidi, in particolare
77
Lesbre Emmanuelle, “An Attempt to Identify and Classify Scenes with a Central Buddha Depicted on Ceilings of the Kizil Caves”, in Artibus Asiae, 61 (2001), pp.
305-352.
78
Cfr. Gaosengzhuan, Taishō vol. 50, op. cit, pp. 330a-333. Cit. in Howard A. F., “In Support of a New Chronology for the Kizil Mural Paintings”, in Archives of Asian
Art, XLIV, 1991, p. 80.
79
Opera compilata attorno al 515 dal monaco Sengyou 僧祐.
80
Su Bai 宿白, “Kezier bufen tongku jieduan huanfen niandai deng wenti de chubu tansuo” 克孜尔部分洞窟阶段划分年代等问题的初步探索 (Descrizione introduttiva
riguardo alla cronologia delle grotte di Kizil, alla loro divisione in fasi e ad altri problemi), in Zhongguo shiku - Kezier shiku 中国石窟 - 克孜尔石窟, Pechino, Wenwu
Chubanshe 文物出版社, 1985, vol. 1, p. 10-23.
81
Howard A., op. cit., p. 79.
82
Hartel H. e Yaldiz M., Along the Ancient Silk Routes: Central Asian Art from the West Berlin Museums, New York, The Metropolitan Museum of Art, 1982, p. 16.
83
Lesbre E., op. cit., p. 308.
84
Su Bai, op. cit., ibidem.
85
Hartel H. e Yaldiz M., op. cit., p. 24.
86
Ibidem, pp. 45-46.
87
Grünwedel A., Altbuddhistische Kultstatten in Chinesisch Turkistan, Berlino, 1912. Cit. in Howard A., op. cit., p. 68.