stravaganze impossibili; e si ficcò nella testa che tutto quell'arsenale di sogni e
d'invenzioni lette ne’libri fosse verità pura (p.28).
In Madame Bovary (1857), Emma [3] viene presentata come un'accanita lettrice di romanzi, fin da
quando, nella sua fanciullezza in convento, incontra una vecchia zitella che veniva ogni mese per otto
giorni a cucire la biancheria e che prestava alle grandi, di nascosto, qualche romanzo che teneva sempre
nelle tasche del grembiule (p.41)
Il tutto avviene in un'atmosfera di clandestinità: Emma è costretta a nasconderli, a leggerli
furtivamente in dormitorio, prefigurandone così il carattere pericoloso:
Non si parlava che di amori, di amanti, dame perseguitate che svenivano in
padiglioni abbandonati, postiglioni uccisi ad ogni posta, cavalli scappati ad
ogni pagina, foreste oscure, turbamenti di cuore, giuramenti, singhiozzi, lacrime
e baci, barchette al chiaro di luna, usignoli nei boschetti, gentiluomini coraggiosi
come leoni, dolci come agnelli, virtuosi come non se n'è mai visti, sempre ben
vestiti e che piangono come fontane (p.41).
Questo brano, se da una parte rivela la sottile ironia del narratore nell'affastellare gli ingredienti
tipici del romanzesco, fa risaltare il rapimento della fanciulla verso i mondi fatati che le si aprono
all’immaginazione. Del resto, la sua conoscenza del mondo è tutta letteraria:
Nei romanzi di Eugene Sue studiò la descrizione degli ambienti; lesse Balzac e
George Sand cercando di appagare con l'immaginazione le sue brame personali.
Perfino a tavola aveva un libro accanto, e ne voltava le pagine, mentre Charles
mangiava e le parlava (p.45).
Emma oppone ad una realtà, che al paragone risulta squallida, le situazioni ed i personaggi
eccezionali di cui si nutre il suo immaginario. E tutto questo la porterà, infine, alla ricerca di
amanti che inevitabilmente la deluderanno, a folli debiti, e, infine, al suicidio, molto più penoso e
terribile di tutte le morti delle sue letture.
Dunque, da qui doveva partire la mia analisi all'interno della narrativa italiana. Avevo già
cominciato a considerare qualche esempio, come l'omonima protagonista della Fosca di Tarchetti
[4], Marina di Malombra [5] ed il maestro di un racconto di Verga [6] , quando mi sono imbattuta
in un testo di psichiatria ottocentesca francese [7] che presentava un lungo brano sui romanzi, che
riporto per intero perché in un certo senso riassume tutte quelle opposizioni che si troveranno nel
corso della mia ricerca:
La lettura de' romanzi non produce conseguenze meno triste nello sviluppar le
passioni, massimamente la pigrizia, la paura, l'amore, il libertinaggio, il suicidio
o per imitazione o per noia della vita reale (p.82).
Già in questa prima frase è evidente il parallelismo romanzo/ozio, e il legame indissolubile con le
passioni, la cui violenta irruzione nella vita tranquilla del lettore può portare anche al suicidio
(per contrasto con una realtà che non rispecchia il sogno o, viceversa, per eccessiva immersione
nel sogno e quindi identificazione con i personaggi suicidi). Il meccanismo diviene ancora più
esplicito nelle frasi seguenti:
6
Ne' romanzi, specialmente la passione erotica ne vuol essere il cardine, esalta la
fantasia de' giovani, delle fanciulle: si metton in testa di voler trovare quella
esagerata tenerezza: si dipingono esseri immaginari, poetici portenti di bellezza,
di fedeltà ec. quali non si trovano in natura: la prosaica realtà poi reca presto il
disinganno; e allora smanie, rimpianti, noia della vita. Tutte le fanciulle e i
giovani si credono tante eroine o eroi da romanzo; le passioni si infiammano,
non trovan sollievo che in queste letture inebrianti, il lavoro è trascurato, ogni
altro studio diviene insipido; i loro discorsi sono un impasto di frasi esagerate
lette in tali libri favoriti; e in quel delirio i sensi si ribellano; e allora? Le
conseguenze funeste ognuno le vede (p.83).
In un'epoca in cui è fortemente sentita l'esigenza di controllo sociale, il medico appare seriamente
preoccupato: fa paura chi vola con la fantasia verso altre condizioni (è sottintesa la valenza
politica di certe affermazioni), sceglie un mondo alternativo, scivolando in fantasie che
intrappolano dentro un sogno che diventa follia. Il romanzo diventa quasi un allucinogeno che fa
vedere una realtà altra, dalla quale o si esce accorgendosi del divario (disperazione, suicidio), o si
resta nel sogno (libertinaggio, follia, suicidio come imitazione):
Si aggiungano a questi inconvenienti comuni a quasi tutti gli scritti di simil genere
o in prosa o in versi, antichi e moderni, i difetti delle opere più recenti, cioè pitture
lubriche, delitti atroci: come avvelenamenti, ratti, adulteri, ec. scene di terrore
inaudito; e tutto esposto con stile talora seducente, con arte di sospensione che
picca la curiosità; e poi si pretenda di far gustare a chi legge, anzi divora tali libri,
un'opera morale, istruttiva; si pretenda di ragionare pacatamente sui doveri, di
fare intendere il semplice linguaggio della natura, della virtù, della religione, e sarà
lo stesso che pretendere di persuadere la liberalità ad un avaro (p.84).
Fin qui avevo pensato ai personaggi corrotti dalle letture come a geniali intuizioni romanzesche.
Poi, mi sono resa conto, lentamente e forse con ingenuo stupore, di come la legittimità letteraria
del romanzo non fosse affatto qualcosa di scontato, ma da conquistare in un percorso durato tre
secoli, e non equivalente a nessun altro genere letterario (il poema e la tragedia sono oggetto di
lunghe polemiche, ma per la forma e le leggi che le regolano: non viene mai messo in dubbio il
loro diritto ad esistere).
Il retroterra di tali posizioni, si può far risalire, a grandi linee, a due filoni di considerazioni: da
una parte la tradizione letteraria che non considera la possibilità formale del romanzo, e il
richiamo inevitabile è alla Poetica di Aristotele, dominante in età umanistica (non è certamente un
caso che il romanzo si sviluppi fortemente in epoca barocca, quando la poetica dello stupore e
della meraviglia spinge alla ricerca di soluzioni nuove al di là dei canoni prestabiliti). Dall'altra, la
questione, di peso morale, del rapporto verità/menzogna, su cui grava l'eredità di Platone che nel
famoso libro X della Repubblica svalorizza tutta l'arte in quanto imitazione dell'apparenza, e
perciò di tre gradi lontana dalla verità. E, proprio in quanto produttrice di illusione, la bandisce
dalla sua repubblica: tutte le opere di questo genere costituiscono, sembra, un grave danno per lo spirito
degli ascoltatori che non dispongono del farmaco, ossia che non le conoscono quale sono effettivamente [8].
Tutto questo fa capire perché i romanzi ellenistici non avessero trovato considerazione a livello
critico: il romanzo come genere era rimasto ignoto nell'antichità, non aveva acquistato neppure
un nome specifico (a testimonianza del disprezzo degli intellettuali), non ne erano state indagate
l'origine, le caratteristiche, la destinazione [9].
7
Infine, il motivo verità/ menzogna è portato avanti anche dalla religione, e non è difficile trovare
riferimenti biblici, per lo più nei Libri Sapienziali. L'assunto di base è che la salvezza è nel
Signore, fonte di vita, e solo seguendo le sue vie si è sicuri di essere nel vero e nel giusto (Sal
8,11). Le parole dell'uomo sono sempre potenzialmente menzognere, di conseguenza va
esercitato un continuo controllo sulla lingua (Libera, o Signore, l'anima mia da labbra fallaci e lingue
false, Sal 120,2) cercando di non farsi sedurre dalle parole: Ami il male invece del bene, l'inganno e
non il vero? (Sal 52,4). La finzione è la via storta (Sal 119,101) che allontana dal vero.
La via cattolica sarà, tuttavia, di rifiuto solo per gli eccessi fantastici (in quanto producono una
semplice perdita di tempo), ma più spesso proporrà un utilizzo del coinvolgimento emotivo per
veicolare messaggi morali.
Quelle di seguito sono, le varie giustificazioni dei romanzieri contro questi timori, il desiderio e la
paura di legittimare il romanzo come genere, e la finzione come necessaria e utile.
8
1600
Il delirio del secolo
Delira, per mio credere, il presente secolo nelle composizioni e nella lettura de'
romanzi [10].
Gli stessi contemporanei definiscono il Seicento il secolo dei romanzi [11], l'età in cui questo nuovo
genere si impone sulla scena culturale italiana ed europea. Ed è un vero e proprio delirio: si parla
di circa duecentosessanta opere suddivise in mille edizioni, una proliferazione [12], un diluvio [13]
che sull'onda del successo incontrato in Spagna ed in Francia riesce a sommergere allo stesso
modo palazzi aristocratici, dimore borghesi, botteghe di piccoli professionisti, accademie e
conventi.
Tipograficamente pensati per un facile smercio (carta scadente, margini poveri, formati esigui), i
romanzi hanno un successo spesso effimero [14], ma tale da invadere il mercato [15]. L'intreccio è
generalmente complicato: si parte da una vicenda principale che poi si dirama in varie peripezie
che si sovrappongono, con largo uso del meraviglioso, fino all'esito risolutore [16].
Si stampano per lo più in area veneta (il centro maggiore è Venezia, e, in un secondo tempo,
Genova e Bologna). L'arco cronologico di sviluppo è relativamente breve: Asor Rosa [17]
individua in particolare un quarantennio: all'incirca dall'Eromena (1624) di Giovan Francesco
Biondi, a La peota smarrita (1662) di Girolamo Brusoni (ma occorre ricordare che questo periodo è
preceduto, a partire dalla metà del XVI secolo, da molte traduzioni, in particolare di romanzi
ellenistici, tra cui quelli di Achille Tazio, Eliodoro e Longo).
Il successo è tangibile: la Dianea di Gian Francesco Loredano, il fondatore dell'Accademia degli
Incogniti (da dove vengono le maggiori sollecitazioni a comporre romanzi) appare a Torino nel
1627 e in pochi anni ottiene sette edizioni veneziane e traduzioni in latino ed in francese; la
Stratonica di Luca Assarino registra almeno trentun edizioni nel corso del secolo; il Calloandro
fedele di Giovanni Ambrogio Marini, l'opera che più di ogni altra offre illusioni eroiche e
struggimenti patetici, conquista la Francia, presta il suo nome ai cagnolini delle dame [18] e si
ristampa fino a metà Ottocento.
Due esempi
È in questo secolo che comincia propriamente la storia del romanzo [19] e si inizia a discutere sul
nuovo genere. È, in realtà, un dibattito in sordina, frammentario, del quale si hanno poche tracce,
prevalentemente circoscritte alle avvertenze che gli autori fanno precedere ai loro romanzi [20].
Nonostante, infatti, il successo immediato, il romanzo in Italia non riesce a costituire una vera e
propria tradizione letteraria come in Spagna e in Francia, né nascono grandi opere paragonabili
al Don Chisciotte (1605-15) o a La principessa di Cleves (1678).
La spavalda invasione romanzesca [21] crea stupore e diffidenza: gli accademici tendono a
sottovalutarne l'importanza considerando il romanzo un bastardo dell'epopea [22], un poema
imperfetto [23], mentre gli autori oscillano dall'esaltazione per la novità [24] al tentativo di
inquadrarlo nel sistema letterario tradizionale [25].
In definitiva, il Seicento italiano si conclude senza aver dato vita ad un vero e proprio bilancio
critico: gli interventi restano sparsi, manca qualcuno che si impegni in una considerazione critica
globale del nuovo genere (come accade in Francia con il Trattato sull'origine dei romanzi di Pierre-
Daniel Huet). I problemi vengono, per così dire, impostati ma non risolti, e troveranno spazi più
9
ampi di riflessione solo nei secoli successivi. Tuttavia, già in questi interventi, si possono
individuare quelli che diventeranno i temi costanti della discussione teorica intorno al romanzo.
Mancini, da un'analisi complessiva delle prefazioni, rivela come gli autori si concentrino
prevalentemente su due ordini di problemi: le finalità particolari del romanzo; i rapporti con l'epica e la
storia [26]. In altre parole, si parte da due prospettive:
* estetico-poetologica, che cerca di individuare e collocare il romanzo all'interno del sistema dei
generi attraverso un confronto/scontro con gli altri;
* etica-morale, che ricerca le finalità del romanzo in particolare e della finzione in generale, la sua
utilità e i suoi effetti sul lettore.
Sulla base di questa duplice prospettiva ho scelto due esempi che mi sembravano significativi
anche rispetto alla linea di evoluzione del dibattito nei secoli successivi: sono due prefazioni, una
al Cretideo (1637) che si basa sul riconoscimento del romanzo come genere autonomo; l'altra alla
Vita di Sant'Eustachio martire (1631) che è una violenta invettiva contro tutti quei libri che cercano
il solo diletto del lettore. L'autore di entrambi è Giovan Battista Manzini, letterato vissuto a
Bologna tra il 1599 e il 1664.
Definito da Varese uno spirito devoto e insieme attento alle ragioni del mondo e alle novità della
letteratura contemporanea [27], Manzini cerca di inquadrare i generi letterari (nella premessa a
L'avarizia scornata, opera teatrale del 1663, enuncia anche una teoria sul teatro) oscillando tra
un'esaltazione per le forme "nuove" ed un generico biasimo per i contenuti corrotti e corruttori.
La più stupenda e gloriosa machina
Cretideo è un romanzo pubblicato a Bologna nel 1637 e riproposto lo stesso anno a Venezia e a
Milano. Ha un successo rapido ma non duraturo (l'ultima edizione nota è del 1663). Costruito su
fraintendimenti e peripezie [28], non si discosta dalla produzione narrativa del tempo, se non per
la fondamentale premessa che, pur nella sua brevità, si può considerare il punto più alto del
discorso teorico in Italia per quanto riguarda la riflessione sul romanzo. Infatti, in un panorama
di scarsi ed occasionali interventi, le parole di Manzini con una perentoria, quasi provocatoria
sentenziosità [29] mettono in risalto le qualità potenziali del nuovo genere in un periodo in cui ha
ancora confini molto fluttuanti ed incerti.
La premessa è divisa in due parti: nella prima Manzini cerca di collocare il romanzo all'interno
del sistema dei generi letterari; nella seconda sostiene, orazianamente, la necessità di unire l'utile
con il dilettevole, per non fare della lettura il semplice svago degli oziosi.
Comincia [30] rivolgendosi al cortesissimo lettore spiegandogli il motivo per cui invece di una
historia, tradizionalmente più nobile, ha preferito comporre una favola. Giustifica la sua scelta
sulla base della "superiorità" del romanzo dal confronto con la storiografia, l'epica e gli altri
generi letterari.
La storiografia, dice Mancini, è completa solo se sa illustrare la preparazione politica, diplomatica
e psicologica agli eventi. Ma perché questo sia possibile occorre essere vicini agli uomini di stato.
In caso contrario, si riduce ad un nudo e freddo racconto d'accidenti fortuiti (p.5). Allora, il romanzo
è più nobile della storiografia perché, nonostante entrambi abbiano medesimi fini (di educazione
morale) e medesimi stromenti (la forma narrativa), il romanzo contien poi di vantaggio tutti i meriti
della poetica , ha cioè in più la possibilità di adornare e rendere dilettevole il racconto stesso.
E passiamo all’epica. In un periodo in cui gli accademici tendono a considerare il romanzo una
sottospecie di poema epico, Manzini, ponendo i due generi a confronto, dichiara che il romanzo
supera l'epica. Il romanzo, infatti, rispetta le principali norme estetiche [31] ed è caratterizzato,
rispetto all'epica, da uno stile più sobrio, meno sovrabbondante, anche grazie all'uso della prosa.
10
Manzini conclude che se il romanzo è superiore ai due generi alti per eccellenza, per conseguenza
inevitabile lo sarà anche nei confronti di opere meno nobili, sien dramatiche o sien liriche (p.6).
Da qui si vede come Manzini colga ed esalti la possibilità del romanzo di essere veramente un
genere "misto": la sua superiorità deriva proprio dalla capacità tutta speciale di saper unire storia
e favola, poesia e dottrina, diletto e istruzione. E non contraddice Aristotele, ma colloca il
romanzo proprio nello spazio intermedio tra storiografia ed epos, come prodotto di
un'ibridazione letteraria da cui raccoglie l'eredità di entrambi (e si garantisce quella necessaria
parentela con i generi "alti" che gli dà valore e legittimità). Ma allo stesso tempo è qualcosa di più
e di diverso rispetto ad entrambi: non è il risultato dell'evoluzione o del corrompimento di uno
dei due, come si dirà più spesso in seguito, ma un genere nuovo, espressione del moderno
ingegno:
Questo genere di componimento, che Romanzo è chiamato dai moderni, è la più
difficile (quando sia fatta a disegno d'arte) e in conseguenza la più stupenda e
gloriosa machina che fabrichi l'ingegno (p.5).
In questa dichiarazione ribalta la gerarchia tradizionale, riconoscendo al romanzo l'eccellenza tra
i generi, proprio in quanto raccoglie un po’ da tutti, e di conseguenza ha una maggiore difficoltà
di composizione (come si evidenzia nell'idea stessa di machina, cioè di struttura complessa e
articolata).
Certo, Manzini non prova le sue affermazioni attraverso argomentazioni razionali, tanto che
Raimondi parla di atto di fede [33], ma resta il fatto che il suo è non soltanto il più importante
tentativo di definire il romanzo negli aspetti più peculiari (non a caso tanta lucidità non si
ritroverà per lungo tempo e fino all'Ottocento si continuerà a discutere sui confini e sull'essenza
di un genere letterario tanto sfuggente), ma anche un invito a comporne, proprio come lui stesso
si accinge a fare [34].
Nella seconda parte della prefazione, che qui accenno soltanto, Manzini si scaglia contro la
perniciosissima di tutte le passioni, l'amore nato nell'ozio, e allevato nella lascivia che ha effetti
vergognosi, indegni, precipitosi, nocenti, dannabili (p.7). E, ribadendo come il fine di ogni arte debba
essere l'utile del pubblico (si intende, l'utilità morale), dichiara la necessità di creare un eroe
esemplare, positivo, che sappia sollecitare i cuori de' leggitori spingendoli ad emulazione e imitazione
(p.8). Evidenzia così l'intento, che spiegherò meglio più avanti, di utilizzare il coinvolgimento
emotivo della lettura per trasmettere precetti morali.
Una machina apparente
Lo stesso Manzini che nel 1637 elogia il nuovo genere letterario nei modi già commentati, pochi
anni prima si era scagliato con durezza contro quelli che definiva libri vani.
Si tratta della prefazione alla Vita di San'Eustachio martire, un'agiografia romanzata che,
pubblicata nel 1631, fu ristampata regolarmente per quasi quarant'anni e aprì in Italia il filone dei
romanzi religiosi.
La polemica di Manzini [35] non è esplicitamente contro i romanzi (Chiamo vani que' libri, che,
trattando di niente, compongono una machina apparente di gran cose, p.3) anche perché non riguarda
forme o tecniche letterarie, ma gli effetti di un modo di fare letteratura che cerca unicamente lo
svago del lettore.
Il nodo centrale del discorso è l'alternativa verità/menzogna, onestà/disonestà: insomma, il
significato della finzione.
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