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Da tale struttura dipende infatti la qualità ed il tempo che figli e parenti possono
dedicare al proprio caro, e l’eventuale istituzionalizzazione dell’anziano in Casa di
Riposo.
Anche il tema della religione viene ampiamente trattato come punto focale nella
vita della persona avanti con gli anni, quale appiglio spirituale di fronte alla
depressione, stagnazione emotiva e disperazione che la condizione senile con le sue
difficoltà può determinare.
All’interno del primo capitolo viene inoltre presa in considerazione la
condizione psicologica dell’anziano, analizzando i fattori che determinano in positivo o
in negativo il livello di soddisfazione del soggetto nei confronti della propria vita. Si
puntualizza che la vecchiaia non ha inizio per tutti all’ingresso di una certa soglia
anagrafica, quanto invece dipende da come l’individuo si relaziona, agisce, si mantiene
e pensa in maniera attiva nei confronti della società e del proprio futuro. Una riflessione
viene anche fatta nei confronti delle conseguenze che l’istituzionalizzazione in una Casa
di Riposo può determinare negli anziani da un punto di vista psicologico.
La senilità è molto legata alla patologia, in quanto è sapere comune che con
l’avanzare dell’età il corpo si deteriora e va incontro ad inefficienze e malattie. Vengono
esposte le principali patologie che l’anziano può incontrare durante la sua esistenza, tra
le quali: le demenze ed in principal modo il morbo di Alzheimer, i disturbi dell’umore
con le conseguenze suicidiarie che frequentemente vengono denunciate, i problemi
circolatori con le patologie che da essi dipendono.
Risulta quindi fondamentale fornire aiuti agli anziani: aiuti mirati, consapevoli,
programmati. Una delle figure che lavora con tale intento è quella dell’educatore
professionale. E’ infatti nel secondo capitolo che si introduce l’esistenza ed i compiti di
questo operatore sociale.
Inizialmente viene spiegato il concetto di educazione ed i vari modelli educativi
proposti nella storia, sui quali poggia tutto il lavoro dell’educatore che spesso viene
assimilato a quello del pedagogista. E’ importante tenere presente che la vecchiaia,
come tutti gli altri periodi della vita dell’uomo, è educabile sia perché sussistono i
requisiti cognitivi necessari per apprendere sia perché, se ben stimolate, possono essere
messe in azione le adeguate motivazioni nei soggetti.
Successivamente vengono esposte le funzioni che l’educatore professionale ha
nei riguardi delle persone in difficoltà, verso le quali è chiamato ad agire.
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Si puntualizza che il lavoro di questa figura deve puntare a determinare
un’evoluzione del soggetto da aiutare, operando a livello educativo, formativo e
preventivo. Molta importanza viene data alla programmazione e progettazione degli
interventi, facendo però attenzione a non agire in maniera rigida e precostituita con
l’attuazione di modelli standard per ogni caso trattato. Caratteristiche fondamentali di
un educatore sono infatti: osservazione, analisi, empatia, comprensione, ascolto, dialogo
e malleabilità, che permettono di intervenire in maniera puntuale e progettabile in
itinere.
Per far sì che la persona anziana si senta motivata nell’attuare il programma
propostole dall’educatore, è necessario che si crei un certo tipo di rapporto tra
l’operatore - chiamato, nel capitolo in questione, helper per puntualizzare l’atto di
aiutare da esso ricoperto - e l’helpee, ossia colui a cui viene rivolta tale forma di
assistenza. Vengono ampiamente esposte le qualità e le modalità relazionali e
comportamentali che l’educatore professionale deve avere per poter ricoprire il proprio
ruolo educativo, che vanno dalla genuinità ed autenticità alla capacità di aprirsi all’altro
e condividere le sue esperienze personali, dalla concretezza nel risolvere i problemi e
realizzare progetti adeguati alle esigenze alla capacità di insight, dall’empatia al rispetto
dell’altro, autoapertura, confronto, immediatezza, ecc. Tutte queste qualità sono
necessarie per realizzare il colloquio tra le due figure, tappa fondamentale per generare
fiducia reciproca, presupposto essenziale per instaurare il lavoro educativo. Il colloquio,
infatti, unito alle osservazioni ed alla comprensione dei bisogni espliciti e latenti
dell’anziano, permette all’educatore di progettare e riprogettare nella maniera migliore
l’azione di recupero del soggetto debole. Vengono quindi esposti vari modelli e tecniche
utili da seguire per l’educatore professionale, che possono fornire aiuti nella
progettazione del lavoro.
Molta importanza viene data alle dinamiche gruppali, che l’educatore per primo
è chiamato a dover gestire e coordinare diventandone egli stesso parte attiva. Quanto
detto riguarda il gruppo dei soggetti con difficoltà, nei confronti dei quali è diretto il
progetto riabilitativo, che deve essere ben organizzato in modo da evitare contrasti
all’interno e motivi di abbandono e demotivazione di alcuni soggetti. Ma lo stesso tipo
di atteggiamento collaborativo e coordinativo deve essere attuato nei confronti dei
familiari, soprattutto di coloro che hanno parenti affetti da demenza e che hanno
difficoltà nell’accettare tale patologia fortemente invalidante nel proprio caro.
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Nella parte finale del capitolo viene presa in considerazione la possibilità per
l’educatore professionale di cadere nel Burn-Out, ossia di rimanere eccessivamente
coinvolto nelle problematiche dei propri assistiti. Per evitare questa eventualità, sempre
alle porte per coloro che convivono quotidianamente con persone in difficoltà, è
necessaria una adeguata formazione e consapevolezza di tale possibile patologia e il
giusto tipo di rapporto con gli altri, né eccessivamente distaccato, né eccessivamente
coinvolgente.
Nel terzo capitolo viene trattata la parte normativa inerente le strutture
residenziali e la figura dell’educatore. Più precisamente il capitolo inizia prendendo in
considerazione le leggi riguardanti i servizi sanitari sia pubblici che privati, in
riferimento al tema dell’invecchiamento e dell’assistenza all’anziano malato. Viene
fatto un excursus storico, partendo dalla prima conferenza tenuta in sede ONU nel
lontano 1948 sui problemi derivanti dall’invecchiare, fino a giungere ai giorni nostri con
il Piano Sanitario 2005-2007 della regione Toscana, contenente gli obiettivi prioritari da
realizzare per rendere la vita degli anziani più dignitosa possibile.
Per quanto riguarda nello specifico i luoghi di assistenza agli anziani, vengono
prese in considerazione le RSA. Vengono citate nel capitolo le definizioni e le
caratteristiche peculiari conferite a tali strutture nelle diverse leggi, che nel tempo si
sono evolute e modificate.
In riferimento invece al ruolo dell’educatore professionale, che opera all’interno
delle suddette strutture residenziali, viene fatta un’analisi della normativa nazionale e
regionale, con specifico riferimento ai Piani Sanitari Regionali, ai Piani Socio-
Assistenziali e ai Progetti Obiettivo Anziani. Il tutto partendo dalla legge del 23
dicembre 1978, n. 833, che ha determinato una svolta a livello sanitario, e che da un
punto di vista legislativo risulta il primo atto che fa riferimento in maniera completa ed
efficiente alla figura dell’educatore professionale nell’ambito dei servizi socio-
assistenziali.
Nel capitolo quarto si va maggiormente ad indagare il tipo di lavoro svolto
all’interno delle RSA dall’educatore professionale. Inizialmente vengono indicati i tipi
di utenti che accedono e vivono nelle Residenze Sanitarie Assistite, quali sono le loro
principali patologie ed esigenze e conseguentemente quali devono essere i servizi che le
RSA sono tenute a fornire loro. Tenendo comunque sempre presente che
l’ospedalizzazione e l’istituzionalizzazione della persona anziana determina una serie di
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traumi, in aggiunta a quelli già presenti in precedenza, che vengono ampiamente trattati
nel capitolo in questione.
Nel capitolo quattro vengono esposte quelle che sono in concreto le attività
proposte dall’educatore professionale agli anziani ricoverati in RSA, indicando per
ciascuna gli obiettivi, le tecniche e le modalità di realizzo. Tra le più importanti attività
attuate, vengono ampiamente esposte: la musicoterapia, che stimola le emozioni, la
memoria e la comunicatività; il racconto autobiografico, attraverso il quale ogni anziano
può rendere partecipe gli altri delle proprie esperienze passate e può condividere gioie e
dolori vissuti anche dai suoi coetanei; la visione cinematografica, anch’essa in grado di
stimolare le emozioni attraverso i ricordi, l’attività teatrale che rende il soggetto
protagonista della storia sviluppando la sua creatività; l’attività ludica, in grado di
stimolare il rispetto di regole comuni, la gratificazione nel raggiungere le mete poste e
la possibilità di scaricare la propria aggressività; l’utilizzo del computer, sia come
protesi per coloro che hanno deficit fisici, sia per stimolare le capacità cognitive dei
soggetti.
Tali attività possono essere attuate solo con la programmazione e la
progettazione realizzata da un’èquipe multidisciplinare all’interno della RSA. Tale
gruppo, composto da diverse figure professionali, assolve all’importante compito di
osservare e valutare l’anziano da punti di vista diversi, determinati dalle differenti
scuole di formazione che gli operatori posseggono. Nel capitolo vengono indicati i
compiti di ciascun membro dell’èquipe, in particolare riguardo alla Valutazione
Multidimensionale ed al Piano Assistenziale Individualizzato, e l’importante ruolo di
coordinatore che l’educatore è chiamato a ricoprire. Si parla inoltre del tipo di
interazione che deve crearsi tra l’educatore ed i suoi committenti, ognuno di essi
interessato a raggiungere obiettivi diversi e qualche volta, a prima vista, contrastanti.
Nel quinto ed ultimo capitolo viene presa in considerazione una RSA in
particolare, all’interno della quale io ho condotto un’indagine sottoforma di intervista.
La residenza per anziani in questione è la RSA “Frate Sole” di Figline Valdarno, una
struttura privata, dove io lavoro da dieci anni ricoprendo il ruolo di animatrice. Dopo
una breve presentazione dell’istituto, delle sue caratteristiche e dei servizi che esso offre
agli utenti, vengono riportate le risposte date dai dieci anziani intervistati che risiedono
all’interno della struttura. L’indagine serve per saggiare quali sono le situazioni fisiche,
psichiche, familiari e di soddisfazione della condizione attuale di vita degli anziani
ricoverati all’interno della RSA.
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Le prime domande permettono agli intervistati di presentare la loro situazione e
di raccontarsi, invitandoli a rievocare eventi salienti del loro passato. In seguito viene
chiesto ai soggetti come si presenta la loro vita allo stato attuale e quali sono le attività
che prediligono all’interno della struttura. Successivamente vengono fatte domande
circa il grado di soddisfacimento percepito dagli ospiti della RSA “Frate Sole”,
considerando il tipo e la gestione dei servizi offerti. Nella parte finale del capitolo viene
infine saggiata la sfera emotiva degli anziani indagando sulle speranze, progetti,
rimpianti, sentimenti che li accompagnano durante le loro giornate in struttura.
La griglia di interviste e le risposte sono integralmente riportate nell’Appendice
di questa tesi.
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Capitolo 1
L’anziano oggi
1.1 Concetto di anzianità
Nella nostra epoca l’anziano è considerato un soggetto deviante, un “malato
d’improduttività”, una persona marginale, al quale non sono riconosciute la parità e la
pienezza dei diritti validi per gli altri cittadini. «Stare al margine vuol dire non far parte
di quel centro, che in senso sociale e storico, è un centro culturale che ogni epoca ha
avuto ed ha determinando uno specifico modello comportamentale» (Izzo- Mannucci-
Mancaniello, 2004, 15). E’ al centro culturale che ogni individuo guarda, è cioè il punto
di riferimento per il comportamento di ciascuno ed indica il modo di vedere le cose. «La
centralità detta le sue regole e crea le sue gerarchie, in termini etici, sociali, pedagogici»
(Izzo- Mannucci- Mancaniello, 2004, 17) e attraverso rapporti di forza di tipo
ideologico (con l’intolleranza) o fisico (con l’eliminazione), attraverso la somma dei
pregiudizi, si aumenta la distanza tra la maggioranza dominante e i soggetti che vivono
ai margini.
«La diversità è insana, perciò pericolosa e dunque, attraverso la tolleranza
dobbiamo normalizzare l’anormale: questi sono i paradossi sociali, politici, educativi
con cui dobbiamo confrontarci, analizzando il percorso circolare che determina la
sclerotizzazione di situazioni che, apparentemente transitorie e contingenti, diventano
stratificate e difficilmente eliminabili» (Izzo- Mannucci- Mancaniello, 2004, 19). La
devianza è un fenomeno complesso di indubbia mobilità e varietà e presenta valori in
continua trasformazione perché sottoposti a giudizi in continuo divenire, dovuti a
reciproche interferenze tra fattori soggettivi e oggettivi.
La marginalità può essere studiata come fenomeno opposto all’integrazione,
anche se pensandoci bene questi due concetti non sono totalmente escludenti l’uno
dell’altro. «L’assenza di integrazione è assenza di uguaglianza, in quanto comporta una
stratificazione sociale immobile e immodificabile: ai ceti subordinati vengono sottratte
le opportunità e le condizioni di vita riconosciute invece ai ceti sovraordinari» (Izzo-
Mannucci- Mancaniello, 2004, 23), da questo consegue l’assenza di integrazione negli
scambi interpersonali, che impedisce l’inserimento nel mondo delle scelte e delle
decisioni.
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«Integrazione sociale è uno stato della società in cui tutte le sue parti sono
saldamente collegate tra loro e formano una totalità delimitata rispetto all’esterno»
(Izzo- Mannucci- Mancaniello, 2004, 137). Quindi un sistema sociale integrato presenta
un reciproco adattamento di tutti i gruppi e sottosistemi che lo compongono, dove ogni
istituzione è funzionale all’altra e dove regna l’equilibrio tra tutti i poteri. Questa è però
un’immagine idealtipica e paradigmatica della società, in quanto all’interno di essa le
persone, i sottosistemi, le istituzioni, i gruppi, nutrono sempre scopi settoriali e interessi
ristretti che possono contrastare tra loro. «Come qualsiasi organismo, anche un sistema
sociale può essere affetto da patologie, di conseguenza, coloro che presiedono alla sua
totalità e integrità devono premunirlo contro casi di conflittualità e di disgregazione»
(Izzo- Mannucci- Mancaniello, 2004, 138).
«Non esiste, comunque, una marginalità in sé, così come non esiste la devianza
in sé. Si è marginali o devianti rispetto a qualche cosa: marginali rispetto ad un
determinato contesto sociale o devianti rispetto ad un codice di comportamento» (Izzo-
Mannucci- Mancaniello, 2004, 23). Si evince quindi che la marginalità non è un
concetto assoluto, ma relativo ad un dato sistema sociale di riferimento, quindi
l’individuo o il gruppo rimane sempre sottoposto e collegato al sistema che
paradossalmente lo esclude.
L’anziano fa parte di un gruppo indistinto e anonimo, non emarginato del tutto,
ma di fatto escluso da quei processi decisionali e produttivi che responsabilizzano e
creano l’identità nelle persone. «Un crescente numero di persone non si sente inserito
nei processi integrativi della società e perde la visione della propria collocazione. Non si
tratta di devianza né di esplicita emarginazione dal contesto sociale, quanto di
un’oggettiva esclusione dai processi considerati rilevanti nell’economia della vita
quotidiana, dalle mete di successo proposte dalla cultura contemporanea e dalle
garanzie offerte ai soggetti integrati in modo pieno» (Izzo- Mannucci- Mancaniello,
2004, 33).
«A seconda dell’ottica nella quale si studia l’invecchiamento, cambiano i criteri
con i quali si definisce una persona anziana o vecchia. Possiamo riferirci a un’età
cronologica, a un’età biologica, a un’età psicologica e a un’età sociale, che non sempre
coincidono. L’inizio della vecchiaia può variare a seconda della prospettiva nella quale
ci si pone e in base all’età media raggiungibile dagli individui e alla loro speranza di
vita alla nascita, variabili che mutano a seconda del periodo storico» (Amoretti- Ratti,
1995, 79).
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«Il concetto di vecchiaia è un concetto esteso e molto difficile da circoscrivere.
A livello individuale è possibile definire l’anziano in termini biologici, psicologici,
demografici, previdenziali; a livello collettivo si può parlare d'invecchiamento della
popolazione dal basso (per effetto della riduzione della fecondità e quindi della sempre
minor misura in cui è alimentato il sistema popolazione) e dall’alto (riduzione della
mortalità in età avanzata e quindi della sempre maggior permanenza degli effettivi
anziani e vecchi nel sistema)» (Sottoprogetto 2). La soglia convenzionalmente fissata
per l’ingresso nella vecchiaia è di 60 o 65 anni, ossia in corrispondenza dell’uscita dal
mondo del lavoro e dell'inizio del periodo di pensionamento.
Per identificare in modo più opportuno il concetto di senilità occorre osservare i
mutamenti che influenzano direttamente questo periodo della vita umana. «I progressi
della scienza medica, i miglioramenti della situazione igienica, alimentare e lavorativa
hanno prolungato la vita e sembrano aver spostato in avanti l’età della decadenza fisica
e della vecchiaia. Contemporaneamente le variazioni delle durate e dei ritmi di lavoro,
così come dell’esistenza quotidiana, e l’instaurarsi di una scala di valori diversa ne
hanno trasformato la concezione tradizionale, il senso e il valore sociale e culturale.
Mentre un tempo la vecchiaia era la fase della saggezza e dell’equilibrio morale, e
l’anziano era la memoria storica della società, il custode della tradizione e il detentore di
un patrimonio di esperienza professionale tramandabile alle generazioni future, oggi la
cultura dominante è quella» (Lori- Golini- Canalini, 1995b, 9) dell’aggiornamento
continuo, di un progresso che sembra rinnegare e dimenticare le sue origini.
Per la società «l’anziano inoltre può perdere una condizione di salute ottimale e
l’autosufficienza con il graduale subentro di malattie croniche invalidanti, di processi di
deterioramento cognitivo, con l’insorgenza di handicap più o meno gravi; alle volte
tutto ciò può interagire in modo conflittuale con il contesto sociale e diventare ancor più
grave» (Sottoprogetto 2). Risulta più opportuno calcolare la soglia della vecchiaia in
funzione degli anni che ancora il soggetto si aspetta di vivere: da rilevamenti statistici si
ha che tale soglia è di circa 73,6 anni per gli uomini e 80,2 per le donne.
Il fenomeno dell’invecchiamento non può però essere riferito esclusivamente al
rischio di morire, ma inserire il soggetto in un contesto di qualità di vita più ampio:
considerando la sua efficienza fisica e mentale, le sue condizioni di autosufficienza,
ossia considerare l’individuo anziano in funzione degli anni che ha ancora da vivere in
buona salute. Il progressivo invecchiamento della popolazione pone nuovi problemi
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all’attenzione della società e richiede modalità diverse di affrontare quotidianamente i
bisogni di questa fase di vita dell’individuo.
«Nel ciclo vitale della famiglia il pensionamento è considerato oggi l’evento
critico che sancisce lo status di anziano, status che di per sé può comportare come
primo effetto l’isolamento e l’emarginazione sia familiare che sociale dell’individuo, in
una realtà che dà spazio e priorità alla vita produttiva. Altri eventi critici che
caratterizzano la vita dell’anziano sono da attribuirsi al progressivo e irreversibile
deterioramento di molte funzioni fisiologiche e di alcune funzioni mentali; al mutare
degli aspetti legati alla sessualità; al convivere con l’idea di malattia, di invalidità e di
morte» (Miodini- Zini, 1992, 44). Nonostante il susseguirsi di tanti momenti
problematici è importante pensare alla vecchiaia come ad un periodo di tipo evolutivo e
superare la resistenza a ritenere che in questa fase gli interventi riabilitativi e gli
interventi pedagogici e psicologici siano utili.
E’ fondamentale creare l’idea del vecchio come una persona che può ancora
evolvere e non solo diminuire le proprie capacità, in grado di produrre ancora
cambiamenti positivi, anche se ciò non corrisponde all’immagine che la società ha
dell’anziano.
Il problema riguarda quindi il mancato adattamento della società alle modifiche
che comportano l’allungamento della vita media della popolazione. L’invecchiamento
viene considerato attraverso stereotipi e luoghi comuni, che individuano l’anziano come
un soggetto debole, da assistere, bisognoso, che assorbe esclusivamente risorse alla
società. «In effetti l’anziano che rispecchia questi stereotipi non è certo il 60enne: tali
tratti riguardano in maggiore misura le persone oltre i 75-80 anni, cioè la quarta età,
oltre la quale cominciano a manifestarsi in tutta la loro intensità le patologie più
debilitanti e invalidanti, sia fisiche che psichiche, tali da rendere l’anziano davvero un
soggetto debole. Ma prima, nella terza età, l’anziano è un soggetto ancora pieno di
energie e spesso desideroso di usarle. Una recente indagine del Censis mostra come la
condizione anziana sia tutt’altro che una condizione spenta e passiva, e che di fatto il
sentirsi anziano non coincide con il superamento di una soglia anagrafica, quanto
piuttosto con l’imbattersi in circostanze quali l’entrare in istituzioni o essere debilitati
fisicamente. Non a caso queste due condizioni, prime nella graduatoria dei motivi del
sentirsi anziano, hanno fortemente a che fare più con una senescenza psicologica che
con una senescenza fisiologica» (Lori- Golini- Canalini, 1995e, 28): perché entrare in
istituzioni cambia radicalmente il proprio contesto di vita ed i propri riferimenti
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relazionali, mentre un handicap fisico cambia la percezione di sé e modifica il proprio
livello di indipendenza. Nella terza età si può avere una buona percezione di sé, anche
se di fatto non si vive appieno la propria potenzialità. Questo può costituire uno dei
motivi che alimenta lo stereotipo dell’anziano quale soggetto debole, in assenza di
progettualità esterna alla vita lavorativa.
Seneca esprime la senilità come una malattia, e come tale tutt’oggi la vecchiaia è
esorcizzata e rimossa dalla cultura contemporanea, la quale rigetta la morte e tutto ciò
che in qualche modo la presagisce. E’ necessaria una revisione di tale tendenza, che
porti a considerare la condizione senile alla stregua di una nuova possibilità di vita,
nella quale lo scopo da raggiungere è rappresentato dalla qualità della vita che resta.
«Da una certezza si può pur partire: la vecchiaia di ogni persona è la sua propria
vittoria sulle insidie dell’ambiente che con i mezzi più diversi cerca di impedirgli di
raggiungere il limite fissato dalla natura. Considerare la vecchiaia una malattia, o
persino un’aggregazione di più patologie, conduce inevitabilmente verso un
pessimismo, o ancor più un nichilismo di principio nei confronti della persona in
condizione senile, che viene accantonata in quanto non sarebbe più in grado di produrre
o addirittura di vivere in pienezza all’interno della rete di rapporti sociali» (Franchini,
1999a, 63-64). L’abuso di termini sottovalutanti dell’anziano porta l’anziano stesso ad
autoconvincersi della sua situazione di inferiorità, e lo porta verso un progressivo
deterioramento.
«Riguardo alla vecchiaia, sinora hanno prevalso visioni stereotipate e pregiudizi,
con la preoccupazione di scoprire pozioni magiche per aumentare la quantità degli anni,
più che la qualità, e la fissazione di vivere a lungo più che di vivere bene, possibilmente
a lungo» (Cesa-Bianchi, 2000, 5). Secondo un censimento recente, le persone con oltre
100 anni sono in Italia più di 6000, cioè una ogni 10.000 abitanti. Il loro numero è
centuplicato in meno di un secolo e secondo certe previsioni subirà un ulteriore
aumento.
Nelle epoche passate, denutrizione e malattie infettive decimavano il gruppo di
coloro che avevano le caratteristiche per vivere a lungo. «Oggi si assiste semmai alla
creazione di una nuova categoria, di un nuovo gruppo sociale, gli anziani per forza.
Sono i 50enni o ultra65enni che escono dal mercato del lavoro, con non si sa quali
probabilità di farvi ritorno e, purtroppo, con conseguenze psicologiche prevedibili a
lungo termine» (Cesa-Bianchi, 2000, 7). E’ giusto sì, aggiungere anni alla vita, ma
soprattutto vita agli anni, come dice uno slogan dell’American Geriatric Association.
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Infinite discussioni hanno avuto come tema il dibattito se considerare il vecchio
un saggio o semplicemente qualcuno che non è più quello di prima, ossia se gli anni
aggiungono o tolgono qualcosa. Che aggiungano lo pensano i popoli gerontocratici
dell’Australia centrale, dell’Africa centrale, dell’Ecuador o della Patagonia, che
considerano capo il vecchio più venerabile. Che gli anni sottraggano potenzialità agli
individui era invece la convinzione di Isidoro da Siviglia e di sant’Agostino. «Per
Platone, soltanto alla fine della vita l’uomo acquista la saggezza e la conoscenza delle
cose, mentre Aristotele vedeva i 50 anni come un Rubicone dell’esistenza: chi lo
superava era avviato verso un’inesorabile decadenza. Allo stesso modo, se Carl Gustav
Jung sosteneva che solo nell’ultima fase della vita l’uomo si avvicina di più alla propria
realizzazione, Sigmund Freud vedeva nella vecchiaia soprattutto l’età dell’impotenza e
della sterilità» (Cesa-Bianchi, 2000, 18).
Nell’arco del tempo è aumentata molto la durata della vita delle persone, ma più
precisamente si è allontanata la morte per un periodo più lungo. La durata della vita
degli esseri umani è infatti una caratteristica biologica relativamente stabile, ciò che è
aumentata molto è, al contrario, la vita media, che oscilla molto al variare delle
condizioni ambientali (per esempio a seconda che la persona mangi il necessario, faccia
un certo tipo di lavoro, viva in città o in campagna, etc). Studi rilevano infatti, che
l’allungamento della sopravvivenza è legato principalmente ad un alto tenore di vita ed
a buone condizioni igieniche e alimentari.
«Ci sono molti miti sugli anziani che influenzano il loro modo di vedere sé stessi
e il mondo in cui gli altri membri della società vivono. In molte società gli anziani
vengono visti come una categoria debole, con poco potere e scarsa produttività
economica. Gli stereotipi benigni di questo tipo sono espressi in frasi come «vecchietta»
o «vecchio mio» e molti miti che sottolineano queste frasi mostrano il trionfo della
gioventù sulla vecchiaia» (Viney, 1997, 40). Tuttora «noi accettiamo uno stereotipo
basato su un’immagine di passività della vecchiaia, ossia di minore domanda di cibo, di
sesso, di potere, di status. Lo stereotipo ha un effetto di deprezzamento: “vecchiaccia”,
“vecchia gallina”, “rimbambito”, e così via. Lo stereotipo suggerisce un minor grado di
competenza, sia fisica che intellettuale. Questo stereotipo non è intaccato minimamente
dal fatto che esistano persone che lo contraddicono in maniera cospicua. Queste
eccezioni si considerano come delle conferme alla regola: lo stereotipo corrente della
vecchiaia in questo modo si rafforza» (Marshall, 1988, 90).
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E’ necessario che gli anziani diventino sempre più consapevoli della mitologia
che li riguarda in modo da capire come questa li condizioni nel protrarsi della loro vita.
E’ radicata, nella nostra società, la convinzione che più si diventa vecchi e meno
si è efficienti. Da ricerche condotte si evince la falsità di tali pregiudizi, in quanto si
ricava che gli anziani sono perfettamente in grado di apprendere intellettualmente e
praticare sport in maniera del tutto proficua ed efficace. Inoltre, una grande quantità di
anziani guarda con ottimismo ed entusiasmo al proprio futuro. Gli stereotipi negativi
sulla condizione senile sussistono prima di tutto nella mente dell’anziano, minando in
radice le sue naturali potenzialità di adattamento e di progettazione. E’ vero che la
persona anziana assiste per lo più ad un declino delle sue capacità, ma vi sono anche
potenzialità adattive e di riprogrammazione che questi può attuare per aggiustare la vita
verso una nuova realtà esistenziale.
Non con questo si vuole negare la rilevanza di alcuni problemi legati alla
condizione di senilità, ma è necessario riaffermare il valore dell’ottimismo e della
prudenza nel catalogare certe categorie di individui. «Alcuni soggetti mantengono
infatti le abilità sociali integre, benchè la memoria recente sia andata perduta; questi
aspetti, che sono cruciali per l’autosufficienza in senso lato, possono essere colti solo
con una definizione funzionale, e non con una frettolosità di una diagnosi meramente
descrittiva. E’ pur vero che l’incidenza delle psicoinvoluzioni sulla popolazione anziana
sta, almeno a dar credito alle statistiche, aumentando in misura quasi esponenziale.
Tuttavia anche dinanzi ad un anziano con un deterioramento mentale l’arrestarsi alla
semplicistica affermazione di “senilità”, quasi ad indicare la malattia, rappresenta grave
negligenza. Si rende invece indispensabile la definizione da un lato della reale
condizione dello stato mentale e dall’altro della causa del deterioramento stesso, e
quindi dei reali processi di differenziazione che possono avere origine non solo da una
patologia, ma per esempio da una deprivazione ambientale, psicologica o sociale»
(Franchini, 1999a, 64). La salute fisica dell’anziano è in rapporto diretto con i fattori di
supporto sociale: un appoggio emozionale, un aiuto concreto in caso di necessità, un
consiglio, il livello di integrazione sociale portano il soggetto a valutare la propria salute
fisica con una visione molto più ottimistica.
«Non è possibile, in definitiva, oggettivare la condizione senile entro i confini
protocollati della malattia, né tanto meno risulta operazione corretta fissarne i limiti
attraverso operazioni anagrafiche. Fissare un’età di inizio della vecchiaia è una
convenzione che può risultare utile ai fini statistici, assistenziali, fiscali, pensionistici,
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organizzativi ma certamente molto meno ai fini antropologici, o clinici, o psicologici.
Troppe sono le modificazioni nel tempo e quelle da luogo a luogo, e da cultura a
cultura, di questo concetto» (Franchini, 1999a, 65). L’anziano deve mantenere per tutta
la sua esistenza un criterio di progettualità, in modo da superare la concezione che la
vecchiaia corrisponda ad un’involuzione, aprendosi al futuro.
«Uno dei compiti della società, e uno dei contenuti delle possibili strategie di
intervento potrebbe essere quello di educare alla vecchiaia, soprattutto durante la vita
attiva. Ed è importante che la società e ogni individuo pensino all’anziano non come ad
un soggetto incolore, ma a un soggetto in positivo; che si discuta delle sue capacità
propositive e delle sue potenzialità derivanti dal suo vissuto e dalla sua voglia di vivere
e di fare» (Lori- Golini- Canalini, 1995e, 29). E’ necessario che vengano fatti dibattiti a
livello internazionale, per individuare strategie di intervento univoche che assicurino
maggiore equità territoriale nelle condizioni di vita e di trattamento della popolazione
anziana.
E’ utile predisporre progetti e strategie di intervento che educhino alla vecchiaia,
cominciando durante la vita attiva del soggetto, ed in questo compito l’istruzione e i
media giocano un ruolo fondamentale. «Fino ad oggi sono state in genere le famiglie, e
le donne al loro interno, a prendersi cura degli anziani. Ma le famiglie erano più stabili,
le donne lavoravano per lo più a casa, i figli erano in maggior numero, gli anziani meno
numerosi e meno longevi. Oggi il modello di assistenza familiare integrata va cedendo
perché la struttura e la vita delle famiglie vanno cambiando rapidamente»
(Sottoprogetto 2). Occorrono politiche lungimiranti che tengano presente la dinamica
demografica, che sostengano le famiglie nella cura dei propri familiari in là con gli anni
fin quando il loro stato di salute lo renda possibile (con assegni familiari, congedi dal
lavoro per malattia di un anziano a casa, contributi per le cure dell’anziano), e la
promozione di strutture adeguate per le prestazioni ai bisogni degli anziani
(finanziamenti per l’edilizia residenziale, costituzione di reti integrate di sostegno
informale e professionale).
«Perché le aspettative si realizzino è necessario che i problemi oltre ad essere
recepiti dalla classe politica lo siano anche dai media e dall’intera opinione pubblica:
senza la partecipazione attiva di tutta la popolazione le politiche per gli anziani non
potrebbero realizzarsi» (Sottoprogetto 2). Ciascuno deve modificare infatti il proprio
modo di agire, diventando sensibile all’importanza del problema e al valore che gli
anziani hanno nella nostra società, promovendo la solidarietà tra le generazioni
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attraverso una convinta riflessione da parte di ogni singolo individuo e di tutta la
collettività.
L’educazione all’anzianità aggiunge dunque una risorsa insostituibile al
tradizionale approccio sanitario verso la condizione senile: alla prevenzione dei danni
strutturali a livello cerebrale, aggiunge la promozione di programmi e di progetti che
siano utili alla situazione esistenziale della vecchiaia e la arricchiscano di vitalità
creativa. «A questo scopo non sono sufficienti iniziative isolate di comunicazione e
animazione dell’anziano, se ad esse non corrisponde a livello politico e sociale la
volontà di restituire al vecchio un possibile ruolo all’interno dell’assetto della
convivenza civile» (Franchini, 1999a, 66).
La perdita del ruolo essenziale di depositaria delle esperienze fa si che la
vecchiaia, non più utile, rischi di essere costretta ad affidare la sua sopravvivenza alla
misericordia sociale che tutela i deboli e i malati. E’ bene ricercare le dimensioni e gli
scopi del periodo finale della vita dell’uomo, in modo da ottenere il contributo da ogni
generazione per decidere sull’assetto societario.
Il vecchio deve essere considerato come un saggio, depositario di un patrimonio
etico e affettivo che si traduce in modalità di equilibrio, di ponderazione, di prudenza, di
dolcezza. «Per vincere la battaglia su questa nuova frontiera e perché la vecchiaia sia
non solo tutelata da considerazioni e spinte umanitarie, ma anche premiata nel suo
significato evolutivo, è allora necessaria una promozione dei valori sopra ricordati ed
una educazione del singolo e della società in questa direzione» (Franchini, 1999a, 68).