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stratagemma acuminato del calcolo. Piuttosto, vi è nel suo codice genetico,
depositatosi naturalmente attraverso lo stillicidio di una, insieme geologica e
meteorica, genealogia cittadina, locale ed epocale a un tempo, di una Parigi vissuta
non come ideale approdo cosmopolita di emigranti inquieti d’ambizione, ma come
habitat atavico e domestico, come Kindergarden e fabbrica di ennui e di spleen
distillati come latte materno, un allure, una cadenza, una metrica d’ombra e luce di
baudeleriana, ma biologica più che letteraria, ascendenza, dove l’esibizionismo del
dandy e la sprezzatura del flâneur sono le facce di una stessa moneta indemoniata. Se
di posa si tratta non è una posa trovata, ma una posa in cui ci si è trovati fin da prima,
e Parigi, che di questa posa è lo stampo, non è il chimerico centro mondano del
pianeta, ma la stanza che ha plasmato i propri visceri offesi. In questo senso, Cocteau
è una creatura dei Passagenwerk eletti a filosofema da Benjamin: forse, se il suo
astro non tramonterà, ciò sarà perché egli incarna al massimo grado questa creatura
nel XX secolo, la incarna “naturalmente”, al punto da divenirne l’antonomasia, da
sacrificare la sua persona a una personificazione.
Ma a preservare Cocteau dal rischio incombente di essere un pezzo da museo, un
uomo-reperto, il rimasuglio di una tradizione scaturita un secolo prima, è proprio la
sua naturalezza, grazie a cui qualcosa di già così consunto ed estenuato com’è il
ruolo stesso del dandy, si riattualizza insperatamente e si salva dall’artificiosità,
rilanciandosi spericolatamente proprio nel terreno che sembrerebbe essergli più
alieno, come “figura etica”. Il dandy nella declinazione coctoiana non scandalizza
con l’eccesso, ma con la misura. In una Parigi in cui l’eccesso già diviene patrimonio
di massa, il che vuol dire che si comincia a poter essere trasgressivi senza pagarne il
prezzo, perché quello di accedere a taluni eccessi comincia ad essere riconosciuto
come un diritto, Cocteau fende la folla coi suoi completi da travet e storce il naso
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dinanzi alle prime avvisaglie della creatività “prêt-à-porter”. A questi baccanali della
“creatività - dovunque” egli reagisce riesumando - ma anche ricreandoli col loro
stesso stridere nel decontestualizzarsi – valori estrapolati da un etica aristocratica,
quali la fedeltà e la disciplina, con una torsione brusca verso un culto della forma
intesa non idealisticamente come “cosa in sé”, ma funzionalmente come ancoraggio
provvisorio nella tempesta fenomenica, come esperienza e sentimento tragico del
limite; quel limite che a lui pare essere il tabù di una società che si impernia
psicologicamente e ritualmente intorno al dogma del progresso come il limite. In
quanto dandysmo, il suo è un dandysmo asciutto, il cui esibizionismo è
paradossalmente introverso perché di volta in volta immediatamente, puntualmente
espiato da un contromovimento in levare, da un adombramento, da un tacere che
rende eloquente la reticenza. Nei momenti peggiori il meccanismo è scoperto,
addirittura smaccato, nel qual caso una nota di ingenuità lo rende stucchevole
vanificandone l’efficacia allusiva, ma il retrogusto d’avarizia di un tale esibizionismo
balza agli occhi se giustapposto a quello dannunziano: quanto coperto, tormentato,
aguzzo, asciutto e sottile, reticente il primo, tanto più scoperto, sbraccato, morbido,
pingue, grossolano ed incontinente il secondo; l’uno ipercinetico, abitato dalla
nervosa rapidità del cosmopolita, votato a un zigzagare di farfalla accerchiata di
polline, ossessivo l’altro, rallentato dalla morbosità, frustrato dalla localizzazione che
lo condanna a stare sempre sopra le righe, ad asfissiare nella megalomania e a
giocare a guardie e ladri con la sua impotenza. L’uno sdegna nell’abbondanza, l’altro
tutto ingoia nell’indigenza: se Cocteau è uno scrematore, d’Annunzio è un rigattiere.
Non è un caso che il metropolitano abbia spiccato il senso del limite e il provinciale
ne sia carente. Nell’illimitato della metropoli dare e darsi limiti è una conditio sine
qua non di estrarsi dall’informe e quindi esistere, di adempiere alla necessità vitale di
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sortire contorni soggettivi e oggettivi. Nella limitatezza intrinseca della provincia
dove i contorni sono spessi si esiste eludendoli con l’immaginazione. E nella
iperlocalizzazione della provincia l’eccesso di soggettività, resa vacua dalla scarsità
dell’oggetto, grida; nella paradossale dislocazione del centro, la soggettività ridotta
all’osso perché costipata d’oggetto, vagisce sussurrando. Se un d’Annunzio si cura
dalla sterilità di un silenzio autoreferenziale che gira a vuoto, Cocteau invoca e
ricerca, spesso invano, il silenzio come il lapis col quale intercalare, e così censire e
classificare, il continuum di una datità pletorica: il silenzio come le cesoie del
potatore, ecco cosa vuol forgiarsi Cocteau quando affila febbrilmente il suo stile.
Così a un Cocteau maggiore solo perché più frequentato e talora abusato, il Cocteau
delle poesie ipnotiche, il romanziere di best-sellers come Les enfants terribles,
l’autore di pièce originali come La voix humaine o di riattualizzazioni “neoclassiche”
del mito greco, il cineasta che, come più tardi Pasolini, sfrutterà magistralmente i
vantaggi dell’outsider, vi è un altro Cocteau: quello che si occupa d’altro. È il
Cocteau capace di generose ed emozionanti ammirazioni, quello che mette i frutti,
sempre precari e perciò tanto più coinvolgenti, della propria esperienza artistica al
servizio di autori per lo più di medium artistici diversi dalla letteratura – pittori,
musicisti, cineasti - , mosso dall’ambizione divorante di evocarne la ragione poetica
più intima. È un Cocteau che arde “lentamente” al fuoco dei suoi idoli. Lentamente –
perché lungo l’intero arco di una vita e di una parabola creativa – al fuoco di Picasso,
ancora più lentamente, perché nell’arco breve ma estenuato ed estenuante di due
brevi scritti dedicati al pittore definito “metafisico”, al fuoco di de Chirico. È un
Cocteau non meno umile che presuntuoso, a tratti arrogante: ancora una
contraddizione simultanea. Presuntuoso nel sottintendere il proprio possesso dei
requisiti carismatici e quasi medianici atti a tentare l’impresa interpretativa, a metà
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tra la critica e la rabdomanzia se non perfino la mantica; umile nella sua indubbia
disponibilità a lasciarsi raggelare e quasi annullare in una postura rattratta
nell’ascolto, come lasciandosi pietrificare da una Gorgone. Tutto parrebbe
sospingerci a liquidare l’approccio coctoiano all’altrui opera come romantico,
alludendo, con l’uso riduttivo di questo termine, a un disinvolto coacervo di
intuitività ed empatia datato perché prenovecentesco. E vi è indubbiamente una
dichiarata ripulsa, in Cocteau, nei confronti dei progetti sistematici di vasto respiro
che sembrano votare il XX secolo, alle sue fonti, ad una reazione antiromantica,
imperniata sulle sintesi astratte e su un sospetto conseguente rivolto verso la
soggettività: celeberrimo, a questo proposito, il disarmante esordio del saggio su
Picasso, dove si deludono a priori le aspettative del lettore che si disponesse a sentir
risuonare, in righe che hanno come oggetto il cofondatore del cubismo, i nomi di
Bergson, Freud ed Einstein. Ma a distoglierci per tempo dalla tentazione di fare
oggetto a sua volta Cocteau di una pregiudiziale di segno opposto a quella di cui lui
si rende responsabile, è proprio l’attenzione reclamata da quell’ avverbio di tempo,
“lentamente”, che abbiamo testé sottolineato ed iterato. Pur alle temperature
incandescenti del suo imprudente avvicinarsi agli oggetti della sua attenzione di
interprete, fino a sottrarsi al contatto e rischiare d’esserne risucchiato come l’Atteone
di bruniana memoria, stupisce che Cocteau riesca a serbare un cuore freddo, e nella
verbosità un nucleo di silenzio. Quella costellazione di contraddizioni simultanee che
prima evocavamo e che qui possiamo riassumere nella concomitanza enigmatica di
presenza e assenza, si prolunga ora in un paesaggio di ulteriori concomitanze che
rinnovano l’enigma, chissà se infittendone la matassa o cominciando a sdipanarla
paradossalmente: l’annodarsi di freddezza e incandescenza, la contiguità di
imprudenza e vigilanza, l’intrinsecarsi di distacco ed identificazione. Fino al punto di
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avere la sensazione che a tratti Cocteau riesca a mettere a nudo l’enigma stesso della
lettura e della fruizione, tra transfert e resistenza, tra proiezione e difesa, abbandono
ed autoconservazione. Quasi che anche ponendosi nella posizione di interprete, egli
in ultima istanza raccontasse: questa volta non la storia di cui è il deus ex machina,
ma quella di cui è il destinatario; la storia, meglio, del suo ascoltare e recepire, la
storia del suo essere affabulato. Di più: si è tentati a più riprese di pensare – e qui
siamo noi a raccontare la storia del nostro leggere Cocteau critico - che i saggi di
Cocteau raccontino in modo più essenziale qualcosa, della vita, di più essenziale.
Come se i romanzi, per esempio, diluissero e così indebolissero, pur ruotandovi
ostinatamente intorno, un’esperienza basale che le prove saggistiche isolassero e
condensassero sul loro fuoco: l’affabulazione subita tanto più in quanto contratta
nell’istantaneità del momento ipnotico, della perdita di controllo tanto vertiginosa
quanto subliminale, incredibilmente impercepita.
I saggi critici di Cocteau sembrano eleggere a loro tema, prima che l’opera di questo
o quell’autore, il meccanismo che fa sì che questi istanti ipnotici di furibonda
contrazione spazio-temporale, che sono asfissianti di fascinazione, incontrollabili
dalla coscienza, ipotechino vasti spezzoni di esistenza. L’interrogazione coctoiana
dell’altrui opera è quindi in primis il racconto di una fascinazione, i momenti in cui
essa si consuma, estrovertiti e messi a nudo nel caso della fascinazione artistica,
nondimeno essendo gli stessi che agiscono invisibilmente nell’esistenza,
determinando destini individuali. Se è così, l’opera critica di Cocteau consiste di
affabulazioni, quelle di Cocteau saggista ed ermeneuta, che hanno come tema le
affabulazioni di cui il Cocteau fruitore e spettatore è l’astante. Nel caso delle due
macchine affabulatorie dalle quali Cocteau è coinvolto maggiormente,
l’affabulazione picassiana e quella dechirichiana, esse contraggono il loro racconto
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avvalendosi del potere quanto mai ipnotico dell’immagine: l’una, l’immagine
picassiana, nervosa e feconda, ; l’altra, quella dechirichiana, assorta e silente. Ed è
proprio questa costante centralità dell’evento fascinatorio, sia pure lambito nei vari
generi di scrittura da punti di vista diversamente dislocati, a indurre Cocteau, con una
intuizione – questa si – modernissima, a considerare i propri interventi critici come
parti di un unico continuum poetico. Egli definisce pertanto il proprio lavorio
ermeneutico “poesia critica”, affinché non vi siano dubbi che anche nella saggistica
critica ad essere rispecchiate, in ultima analisi, sono esperienze esistenziali, e che,
non essendo possibile, se non con un atto di finzione, escludervi l’apporto della
soggettività più sdrucciolevole, tanto vale inglobarla all’interno del discorso non
come un intruso sgradito ma come un ospite della cui complice compagnia sapersi
avvalere. Questa preventiva onestà filosofica preserva Cocteau dal demone di voler
dimostrare, ed è proprio questo suo porsi come unico obiettivo la testimonianza,
rispecchiando minuziosamente, esperienze di fascinazione artistica subita, il segreto
della ricchezza di spunti euristici inestimabili che il suo lascito critico è in grado di
elargire. Questa dovizia di scoperte è strettamente connessa all’impiego da parte del
critico di una tavolozza di registri incredibilmente ampia: avendo ricusato
polemicamente la gradualità dimostrativa, ritenendola lesiva della dignità dell’opera
d’arte, ecco che egli non si perita di rimpiazzarla con la discontinuità discorsiva,
l’ellissi spiazzante più brusca, la frammentarietà più eccentrica, in un continuo
cangiarsi del ritmo in frenate e accelerazioni, progressioni e soprasalti, indugi
snervanti ed irritanti strappi. Ma dietro questa cinetica verbale mai viene meno la
presenza ipnotica di uno stesso bersaglio, cui avvicinarsi fino al rasentare la fusione e
da cui allontanarsi per rilanciare un nuovo assalto, ricominciando sempre tutto
daccapo. Ed è proprio questa la qualità più originale, e degna di essere meditata, di
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questa zona dell’opera di Cocteau: nei suoi sopralluoghi critici non vi è progresso, il
loro andamento è esasperatamente ciclico, per giunta i cicli non si sommano, paiono
quasi smemorarsi l’uno dell’altro, non sfociano in alcun esito che ne giustifichi
l’andirivieni, finchè non muoiono che là donde presero le mosse: forse non cessano
affatto con l’ultima parola che le consegna al tipografo, cessano con la eco a ritroso
del loro continuare a vorticare nella mente di Cocteau. Nella sua scrittura può
leggersi il sovrapporsi dei livelli di una stratigrafia: nel breve termine delle frasi, il
susseguirsi accidentato delle accelerazioni, degli sbalzi, non è meno brusco delle
ripartite; ma tali soprassalti si rivelano poi, a livello delle pagine, inscritti in cicli, in
orbite di pianeti che perpetuano il loro corso ad andatura regolare, chiudendosi su se
stesse; infine lo strato esterno, che coincide col periplo dell’intero scritto, dà luogo ad
un nulla di fatto, nel senso che non allude che a un quid implicito che aleggiava già
all’inizio del saggio, e che il saggio ha soltanto rivissuto e ricreato molteplicemente.
Questo quid non è, per Cocteau, che l’indicibile ragione poetica dell’opera che la
parola saggistica può solo “spostare”, traghettare indefinitamente di equivalente in
equivalente. Ci pare impossibile resistere alla tentazione di richiamare qui la
coincidenza col movimento psichico denotato dalla nozione freudiana di
“spostamento”
1
, la quale ci scaraventa subitaneamente nella giurisdizione del sogno.
In fin dei conti cos’è la fascinatone se non un inopinato trovarsi a sognare a occhi
aperti? E nella volitiva, caparbia fuga con cui prendiamo le distanze dalla nostra
infanzia, dalle icone amorali della nostra psiche che la aiutarono ad abituarsi al
mondo e che ora fanno da tappo alla nostra crescita, esse possono riafferrarci solo
mutando apparenza, dissimulando la loro presenza col traslocare altrove; un altrove
che, tuttavia, cospiri con loro nel rinnovare l’efficacia del loro carisma. Questa
1Sigmund Freud, L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino 1992 pp.286-290.
10
dipendenza del soggetto dalle immagini fondanti, le anima. Cocteau spia nell’arte
questa vita: nessun museo potrà interromperla. Ma non lasciarsi museificare
comporta che si eluda il pericolo apparentemente opposto di appiattirsi al livello del
senso comune della vita, agli automatismi dell’esistenza che Heidegger definisce in
autentica proprio perché troppo “immediatamente” condivisa
2
. Quest’altro avverbio
di tempo ora evidenziato richiama per opposizione l’altro avverbio di tempo in
precedenza corsivato.
Se la fascinazione intercorre nell’ “obscur” dell’esistenza in modo immediato e
prende alla sprovvista la vittima della sua pietrificazione, l’arte nel supportare e
veicolare “una” fascinazione, per il fatto che in tal modo le dà risalto e un
supplemento artificiale di luce, con essa addita “la” fascinazione. L’arte è dunque al
contempo un fenomeno fascinatorio e una messa a nudo della fascinazione nel suo
effettuarsi, e un’esperienza estetica non è completa se non è anche un’esperienza
etica. Tale messa a nudo della fascinazione, e dell’affabulazione di cui essa è la
“condensazione” (l’altro “artefice”, con il precedentemente menzionato
“spostamento” “ alla cui attività possiamo principalmente attribuire la configurazione
del sogno”
3
, secondo il Freud della Traumdeutung), l’arte effettua sottoponendola a
un rallentamento. Ogni grande opera d’arte è tale in quanto latrice di un suo peculiare
modo, di un ritmo, una metrica non confondibili con cui è da essa perpetrato questo
rallentamento che dilaziona la pietrificazione che nella vita si compie tra due battiti
di ciglia. Ecco che il Cocteau che, come dicevamo, arde lentamente al ceppo
infiammato dei suoi autori prediletti in una sorta di sacrificale lasciarsi sostituire da
essi, e anche il Cocteau assorto e quasi “bigotto” nel ripercorrere passo passo e nel
suggere goccia a goccia lo stillicidio snervante e sincopato con cui maturano i loro
2
Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1991.
3
L’interpretazione dei sogni, cit. pp263-286.
11
incantesimi. Un’arte che non intraprenda questa anatomia dell’incantesimo e si
proponga solo di sedurre, è un’intrapresa mutila, abortita, che si arresta allo stadio
del “pittoresque”
4
. Ciò che è pittoresco non contraddice non contraddice la
percezione abituale del tempo e dello spazio, si limita ad “estetizzarli”, e così si
guarda bene dall’inquietare: lascia al fascino il tempo abituale con cui esso va a
segno. E così lo spettatore che percepisce l’arte “pittorescamente”, subisce al più da
parte di essa una fascinazione indistinguibile dalle altre di cui è oggetto nella sua
esistenza, non accede a un’esperienza etica di essa.
L’arte autentica, al contrario, e lo spettatore che autenticamente la esperisce
rendendosi complice del suo disegno, invitano le abituali percezioni del tempo e
dello spazio in una vera e propria ginnastica di chiasmi, dove intellettualità, creatività
e intensità sono tutt’altro che incompatibili, ma funzioni che si potenziano l’una
grazie all’apporto delle altre: ciò che è più lento diviene più veloce e viceversa;
profondità e superficialità, tridimensionalità e piattezza si scambiano le parti. Ma
anche la sospensione diventa vortice, il turbinio si ribalta in bonaccia: se il pittoresco
conferma la percezione abituale e le sue gerarchie facendone il “trompe-l’œil”, l’arte
esercita e invita ad attivare “le sens du merveilleux.”
5
È grazie ad esso che è
possibile compiere “ le passage brutal d’un état à un autre”,
6
far si che la velocità sia
“surprise par l’immobilité”,
7
ma senza che una premeditazione estetica le abbia dato
“le temps de faire ses préparatifs.”
8
È nel cono d’ombra di questa disposizione a
dislocare le relazioni spazio-temporali, cristallizzate in schemi stereotipati ai fini
della sopravvivenza sociale, che “un homme qui s’éloigne est un homme qui tombe
4
Le secret professionnel, in Jean Cocteau, Romans, poésies. œuvres diverses. Présentation et notes de
Bernard Benech. Librairie Générale Française, Paris 1995 p.506. L’espressione ricorrerà in maniera
frequente nell’opera di Cocteau. Questo pare essere il primo accenno.
5
Le Mystère laïc, in Romans, poésies,…, cit., p. 698.
6
Ibid. p. 693.
7
Ibid. p. 692.
8
Ibid.p. 693.
12
avec douceur”,
9
rendendo catastrofico l’innocuo, e, per converso, sdrammatizzando
radicalmente l’evento catastrofico se ne viene percepito il decorso come “vitesses qui
arrivent à l’immobilité”,
10
con una torsione verso il “tragico” ricondotto alla sua
essenza antidrammatica. Ecco così che le prospettive rinascimentali scandiscono, nel
ventesimo secolo, la fascinazione, la sua struttura temporale normalmente compressa
ed ora invece spazializzata; dipanano il grumo imploso dell’incantesimo
disarmandolo della sua lama affilata, l’istantaneità, e trasformano lo stupore, stipato
in un attimo di abbagliamento fugace, in memoria che srotolandosi ingombra lo
spazio rendendolo asfissiante, facendo della meraviglia più sfuggente un viaggio
articolato, che mappa lo spazio innocuo di una piazza con i suoi rendez-vous
fosforescenti. È che lo scorcio triviale delle arcate di un portico, tutt’altro che il
profilarsi di una stoà ateniese, sono “l’ orthopédie, l’anatomie”
11
che de Chirico con
un “signe”,
12
convoca nei suoi quadri onde far sospettare in un istante d’ipnosi
apparentemente impregiudicato il riepilogo di un intero destino: le “coulisses de la
Renaissance”
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sono così divenute la microscopia con cui ingigantire attimi incinti di
abnormi passati.
Ma sarà nel laboratorio costituito dall’avvento di una nuova Musa, il cinematografo,
che Cocteau sottoporrà alla più dura e maliziosa verifica la sua concezione dell’arte
non come bruta fascinazione, ma come sofisticata ed eloquente cartina di tornasole
della fascinazione. Nel suo approccio al cinema come vero e proprio evento epocale,
e quindi catastrofico, della storia della cultura, l’arte che più di tutte e più
bruscamente evidenzia lo stare in bilico dell’arte tra struttura e sovrastruttura,
Cocteau preciserà finalmente a se stesso quella che può dirsi una vera e propria
9
Ibid.p. 692.
10
Opium, in Romans, poésies,.., cit., p. 604.
11
Le Mystère laïc, in Romans, poèsies,.., cit., p. 694.
12
Ibid. p. 694.
13
Ibid. p. 694.