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La nostra ipotesi di lavoro è che i sindacati non siano completamente
responsabili dell’incremento e della persistenza dei tassi di disoccupazione.
Ciò, tradotto nei termini della nostra ricerca, significa una mancanza di
relazione tra salari reali contrattuali e tassi di disoccupazione e un’assenza
di relazione anche tra gli stessi tassi di disoccupazione e i tassi di
sindacalizzazione. Se ciò fosse provato, sarebbe smentito il fatto che la
disoccupazione nel nostro paese è di origine neoclassica, rilevando una
forte componente keynesiana.
Prima di formulare l’ipotesi di lavoro si è analizzata la letteratura
esistente, soffermandoci soprattutto sui più recenti sviluppi della teoria
economica del sindacato. In particolare si sono analizzate, nel primo
capitolo, la forma e la posizione che la curva di indifferenza del sindacato
può assumere a seconda della funzione obiettivo che le organizzazioni di
rappresentanza dei lavoratori intendono massimizzare (si è, cioè, analizzato
il sindacato da un punto di vista microeconomico).
La variabile più importante nella funzione obiettivo del sindacato è il
salario, che viene massimizzato a scapito dell’occupazione. Gli iscritti al
sindacato sono, infatti, solo i lavoratori occupati, i quali spingono il proprio
salario al livello più elevato possibile compatibilmente con la sicurezza di
mantenere il proprio posto di lavoro. Esistono particolari condizioni che
attribuiscono al sindacato una forza contrattuale elevatissima nella
determinazione del salario (nella teoria insider - outsider queste condizioni
si chiamano costi di assunzione, licenziamento e formazione). Su questa
realistica premessa si fondano le teorie economiche che abbiamo analizzato
nel secondo capitolo.
La forza contrattuale del sindacato nella determinazione del salario si
basa anche sul grado di concentrazione della contrattazione collettiva.
Maggiore è tale forza, maggiore è il salario contrattato a parità di
condizione economica e finanziaria dell’impresa presso la quale avviene la
contrattazione (se è decentrata) o del paese nel quale si contratta (se la
contrattazione è accentrata). Questo argomento è affrontato nel terzo
capitolo, nel quale si pone particolare attenzione su due teorie per certi versi
analoghe e per altri opposte (le teorie in oggetto sono quella di Calmfors e
Driffil da una parta e quella di Ezio Tarantelli dall’altra).
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Per verificare l’ipotesi del nostro lavoro si è osservata, nel quarto
capitolo, la relazione presente nel nostro paese tra gli anni ottanta e novanta
tra salari reali contrattuali e tassi di disoccupazione, attingendo a dati
ISTAT. Si è inoltre costruita la curva di Phillips per l’Italia relativamente
allo stesso periodo.
Nel quinto capitolo ci si è concentrati sulla relazione tra la forza del
sindacato (espressa sia come numero di iscritti che come tassi di
sindacalizzazione) e tassi di disoccupazione, relativamente agli stessi anni
considerati nel capitolo precedente. I dati sull’andamento delle iscrizioni al
sindacato ci hanno anche permesso di esprimere un giudizio sulla
composizione delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori.
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Parte prima: Analisi teorica
CAPITOLO 1
Il comportamento del sindacato
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1.1. Il sindacato come colpevole della disoccupazione
nella teoria economica.
Risolvere il problema della disoccupazione (fenomeno che non ha
risvolti soltanto economici, ma che comporta soprattutto gravi conseguenze
sociali) è sempre stato uno degli obiettivi principali di politica economica
degli economisti di tutte le correnti di pensiero. Alcune di queste teorie
pongono poi attenzione sul ruolo che le organizzazioni rappresentative dei
lavoratori hanno, soprattutto in riferimento alla fissazione del salario
nominale in sede di contrattazione collettiva, sul problema in oggetto; sono
questi i punti di vista che a noi interessano principalmente. L’evento che ha
poi maggiormente modificato il modo di interpretare e affrontare il
problema della disoccupazione è stato La Grande Depressione degli anni
’30.
Prima di questo grave evento, la teoria economica che prevaleva era
quella classica: il mercato del lavoro veniva considerato come un qualsiasi
altro mercato, e come tale niente o nessuno sarebbe dovuto intervenire per
alterare il libero e naturale fluttuare di domanda e offerta. Il prezzo
formatosi in questo mercato era quindi un segnale flessibile di come offerta
e domanda di lavoro variassero nel tempo secondo le circostanze che
potevano influenzarle. In un contesto di questo tipo, un’organizzazione che
avesse esercitato il proprio potere di mercato fissando quasi esogenamente
il saggio di salario (nominale) non poteva che essere vista come elemento di
squilibrio del mercato stesso. Un sindacato, alterando la determinazione
spontanea del livello di salario, sarebbe quindi stato un sicuro responsabile
della disoccupazione. Un esempio di quanto i classici credessero nel potere
di autoregolamentazione dei mercati (e quindi anche di quello del lavoro) è
fornito dalla comune posizione di Ricardo e Malthus circa le leggi sui
poveri in Inghilterra: essi credevano che tali leggi avrebbero dovuto essere
abolite in quanto, innalzando artificialmente il reddito dei lavoratori,
avrebbero creato un aumento della popolazione con relative conseguenze
anche nel mercato del lavoro (un aumento della popolazione avrebbe, cioè,
comportato un incremento dell’offerta di lavoro, quindi o una diminuzione
del saggio di salario, o una crescita della disoccupazione).
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Ma è nello schema neoclassico che la disoccupazione viene affrontata
più compiutamente, in quanto sintomo dell’imperfetto funzionamento del
mercato del lavoro e quindi come possibile campo in cui l’intervento dello
stato avrebbe potuto essere indispensabile. Secondo i neoclassici, infatti, i
sindacati impediscono al salario monetario di avere quella flessibilità
necessaria a garantire il pieno impiego della forza lavoro. Essendovi una
presunzione che tale salario sia fissato dagli stessi sindacati ad un livello
troppo elevato, ecco che la presenza delle organizzazioni sindacali diventa,
insieme con le inevitabili fluttuazioni cicliche, la causa primaria della
disoccupazione. Per risolvere il problema, o si ripristina una sana
concorrenza tra i lavoratori, o sarà lo stato ad intervenire (ed è uno dei
pochi interventi statali concessi dalla politica economica neoclassica)
offrendo un sussidio alle imprese costrette a pagare salari troppo elevati.
Resta comunque il fatto che per i neoclassici, in un mercato dove domanda
e offerta sono lasciate agire liberamente, non possa esistere il fenomeno
della disoccupazione involontaria. Una perfetta flessibilità dei salari
basterebbe ad assicurare il pieno impiego; il principio della cosiddetta
“legge di Say”, confermerebbe che, non esistendo limiti alla vendita della
produzione sul mercato, il pieno impiego dei fattori produttivi sarebbe
sicuro. Il mercato avrebbe già naturalmente al suo interno forze
riequilibratrici, e pertanto, nel lungo periodo, solo un livello dei salari
monetari troppo elevato e rigido impedirebbe il riaggiustamento di
eventuali squilibri nel mercato del lavoro, non consentendo di tornare alla
piena occupazione dei fattori produttivi. L’uso del condizionale è però, fin
qui, d’obbligo: i fatti smentirono i principi formulati dalla teoria
neoclassica. La Grande Depressione pose in luce la necessità di una
qualche forma di intervento sui mercati, che consentisse il riequilibrio di
disfunzioni soprattutto nel breve periodo, fino allora trascurato dai
neoclassici.
E’ la teoria keynesiana a determinare la svolta (Keynes, Teoria
generale). Nello schema keynesiano, la causa della disoccupazione
involontaria non può essere un salario monetario troppo elevato, perché
quest’ultimo ha solo la funzione di determinare il livello dei prezzi. La
causa della disoccupazione è invece un livello di domanda effettiva troppo
basso. Il rimedio contro la disoccupazione non può quindi essere
semplicemente una riduzione del salario, a meno che tale riduzione non
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provochi uno stimolo all’aumento della domanda effettiva: solo con
provvedimenti atti ad aumentare la domanda si può sconfiggere la
disoccupazione. Una crescita di domanda aggregata, a parità di salario,
provoca un aumento del livello generale dei prezzi e questo fa abbassare il
salario reale. I lavoratori sono però disposti a subire una perdita di potere
d’acquisto delle proprie remunerazioni, se questo comporta un incremento
dell’occupazione. E’ ad una riduzione dei salari nominali che i lavoratori (e
in particolare le loro associazioni di rappresentanza) si oppongono, per
paura di vedere modificate le remunerazioni relative, dal momento che la
contrattazione non è simultanea per tutte le occupazioni.
Anche se le indicazione di politica economica formulate da Keynes
non sono mai state pienamente e direttamente applicate, il pensiero
keynesiano ha influenzato ed è stato punto di riferimento per tutta la
letteratura economica a lui successiva. Ad esempio, tra le critiche di
ispirazione keynesiana alla nuova macroeconomia classica, un ruolo
dominante è stato giocato dal pensiero di Tobin. Egli sosteneva che il tasso
naturale di disoccupazione di origine neoclassica, andasse in realtà
interpretato come NAIRU, ossia tasso naturale di disoccupazione che non
accelera l’inflazione, più elevato del tasso naturale stesso. Si può, quindi,
adottare una politica che, sopportando un tasso di inflazione positivo,
riporti l’occupazione al vero pieno impiego. Mentre però si potrebbe far
diminuire la disoccupazione al di sotto del NAIRU attraverso politiche di
controllo della domanda, politiche attive del lavoro potrebbero far
diminuire il NAIRU stesso, provocando uno spostamento della curva di
Phillips verso il basso. Un risultato di questo tipo potrebbe essere ottenuto
facendo partecipare alla contrattazione salariale non solo i rappresentanti
degli occupati, ma anche quelli dei disoccupati, permettendo di far valere
anche a questi ultimi le proprie rivendicazioni (si tratta di una intuizione di
grande attualità, proposta anche ultimamente da molti esperti del mercato
del lavoro per superare il divario nelle posizioni di insider e outsider).
La complessità della situazione del mercato del lavoro è poi
sottolineata anche dal modello proposto da Malinvaud, che, nell’ambito
degli schemi di disequilibrio (o equilibrio con razionamento), individua una
coesistenza tra disoccupazione di tipo classico e di tipo keynesiano. Se la
disoccupazione è del primo tipo è chiaro che la causa sarà da ricercare in
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livelli di salario reale troppo elevati, con relative responsabilità da attribuire
al sindacato; se è del secondo tipo, la causa sarà una domanda effettiva
troppo bassa.
Esiste poi, tutta una serie di recenti contributi, risalenti soprattutto alla
prima metà degli anni ottanta, volti a dare spiegazioni sull’esistenza della
disoccupazione involontaria, e sugli strumenti di politica economica adatti a
superarla, che si propongono l’obiettivo di essere maggiormente aderenti
alle nuove situazioni che si sono verificate nel mercato del lavoro. Questa
serie di contributi può essere distinta in due filoni, a seconda che si
riferiscano ad un mercato che agisce in condizione di libera concorrenza,
oppure in una condizione di concorrenza non perfetta. Sono i contributi
della seconda specie ad interessarci principalmente, in quanto sono questi
ultimi a porre maggior attenzione sul ruolo che il sindacato, attraverso la
contrattazione collettiva, ha avuto nel creare rigidità salariale nel mercato
del lavoro.
1.2. Il sindacato monopolista.
Prima di analizzare come e perché il sindacato possa essere
responsabile del problema della disoccupazione involontaria, è necessario
puntualizzare gli obiettivi del sindacato stesso, vale a dire affrontare il
comportamento sindacale da un punto di vista microeconomico. Sono
molte, però, le interpretazioni relative a questo argomento e ciò ci fa
immediatamente capire come controverso sia il ruolo del sindacato nella
teoria economica. Esiste innanzitutto un approccio, utilizzato da molti
economisti, che adotta la forma funzionale di Stone - Gary, e che può essere
scritto in questo modo:
U = (w - γ )
θ
(n - δ )
1-θ
dove γ e δ possono essere pensate come livelli minimi rispettivamente
del salario e dell’occupazione. Il parametro θ cattura l’importanza relativa
attribuita dal sindacato a salari e occupazione. Questo modello, oltre ad
essere molto semplice, spiega anche alcuni casi particolari che si possono
verificare. Se θ = ½ e γ = δ = 0, abbiamo la “wage bill utility function”,
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cioè, è attribuita la stessa importanza agli obiettivi dell’occupazione e del
salario, e non esistono livelli minimi al di sotto dei quali le due variabili
non possono scendere. Se, invece, θ = ½, δ = 0 e γ è uguale al saggio di
salario competitivo, allora ha luogo la “rent utility function ”, cioè, viene
attribuita la medesima importanza alle due variabili ma solo il salario ha un
livello minimo e tale livello è dato dal saggio di salario presente sul
mercato del lavoro non sindacalizzato o comunque concorrente. Questo tipo
di approccio comporta però anche un limite: non è esplicitamente derivato
dalle preferenze dei lavoratori. Non esiste, ad esempio, la possibilità di
vedere come tale funzione possa essere massimizzata rispetto agli obiettivi
posti. E’ quindi necessario adottare altri approcci.
Possiamo iniziare ad analizzare un modello semplificato, esaminando
il modo in cui il sindacato fissa il salario ottimale per i suoi membri. N è il
numero totale degli iscritti al sindacato, e all’interno di esso, chi è occupato,
lavora per un unico datore di lavoro che agisce in un mercato
monopolistico. Il lavoro è l’unico fattore della produzione e il sindacato
può impedire l’assunzione dei non iscritti. I membri del sindacato occupati
ricevono un salario w ottenendo un’utilità U(w); chi non è invece occupato
riceve un’indennità di disoccupazione b ottenendo un’utilità pari a U(b). La
frazione θ degli N membri occupati diminuisce con il grado di utilizzo e
aumenta all’aumentare del prezzo p del prodotto dell’impresa. L’obiettivo
del sindacato è quindi il seguente:
Max
w
N{θ U(w)+(1-θ )U(b)} .
U(b)/ U(w) = e/η
rappresenta il rapporto tra l’elasticità dell’utilità del lavoratore
occupato rispetto al salario (e) e l’elasticità sempre rispetto al salario della
domanda di lavoro dell’impresa (η ). Questo rapporto esprime il fatto che il
beneficio relativo in termini di utilità, derivante da un salario superiore al
sussidio di disoccupazione, deve essere bilanciato con il costo relativo
dovuto al fatto che un maggior salario determina l’insorgere di un trade-off
tra l’utilità degli occupati e il livello complessivo dell’occupazione.
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Fig. 1.1: Il salario ottimo per il sindacato e le sue implicazioni sull’occupazione.
In figura 1.1 è indicato come il sindacato determina il salario e quali
sono le conseguenze di tale scelta sull’occupazione. Le curve II e GG sono
le curve di indifferenza del sindacato, che esprimono l’alternativa tra saggio
di salario e livello di occupazione. Esse sono inclinate negativamente fino a
che il saggio di salario supera il sussidio di disoccupazione (cioè fintanto
che l’utilità che deriva dallo stato di occupazione supera quella derivante
dallo stato di disoccupazione). Quando w e b si uguagliano, le curve
diventano orizzontali. La curva DD rappresenta la domanda di lavoro
dell’impresa. Questa curva è costruita unendo tutti i punti di tangenza fra le
linee orizzontali del salario e le curve di isoprofitto dell’impresa. L’impresa
è caratterizzata da una funzione dei ricavi R(L) che fa dipendere i proventi
delle vendite dal fattore lavoro. I profitti per l’impresa saranno dunque dati
da R(L) - wL. Se l’impresa massimizza i profitti, sarà indifferente fra tutte
le combinazioni (w, L) che lasciano inalterato il suo guadagno. Le curve di
isoprofitto sono quindi le curve di indifferenza per l’impresa pensando che
l’obiettivo dell’imprenditore sia la massimizzazione dei profitti. Per ogni
livello di occupazione le curve di isoprofitto sono inclinate positivamente
fino a che w non uguaglia il prodotto marginale del lavoro, poi sono
discendenti. Per ogni dato valore di L i profitti dell’impresa sono più elevati
per livelli di w più piccoli: la situazione migliore per l’impresa è quindi
quella corrispondente alla curva di isoprofitto più bassa.
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Fig. 1.2: Curve di isoprofitto dell’impresa e costruzione della domanda di lavoro.
Torniamo ora alla figura 1.1. Il punto d’equilibrio, indicato dalla
lettera E, corrisponde al punto d’incontro tra la curva di domanda di lavoro
e la curva di indifferenza più esterna del sindacato. Al saggio di salario w
1
,
solo una frazione θ degli iscritti al sindacato è occupata, mentre il segmento
θ N-N rappresenta la disoccupazione involontaria. Questa è la situazione che
si viene a creare in presenza di un sindacato monopolista che fissa
unilateralmente il saggio di salario e lascia che sia l’impresa, come
conseguenza, a fissare il livello di occupazione. Il sindacato massimizza
quindi il proprio benessere nel punto in cui la sua curva di indifferenza più
esterna ha lo stesso coefficiente angolare della curva di domanda di lavoro
dell’impresa.
Ma in certi casi, la determinazione del punto E può risultare alquanto
problematica. E’ il caso della non unicità del punto di tangenza, in cui la
curva di domanda di lavoro si presenta alternativamente concava e
convessa, determinando l’uguaglianza del coefficiente angolare con le
curve di indifferenza in più punti. Oppure il caso della non ottimalità del
punto di tangenza, in cui la curva di domanda presenta una convessità
rispetto all’origine maggiore di quella delle curve di indifferenza. Ma il
caso più interessante è quello della non raggiungibilità del punto di
tangenza, cioè il caso in cui il punto di incontro tra domanda e curva di
indifferenza si trova a destra della retta NN.
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Fig. 1.3: Non raggiungibilità del punto di tangenza.
Nel caso illustrato in figura 1.3 il punto di massimizzazione del
benessere sindacale sarebbe indicato dal punto G, ma poiché i membri del
sindacato sono soltanto ON, ci si deve accontentare del punto H che
assicura, peraltro, la piena occupazione degli ON associati.
1.3. La soluzione Pareto - efficiente.
Il modello di comportamento semplificato descritto finora implica che
il datore di lavoro fissi il livello di occupazione prendendo come dato il
salario fissato dal sindacato, il quale fissa il livello retributivo trattando
come parametro dato la domanda di lavoro dell’impresa. La soluzione che si
viene a delineare in questo modo non è però efficiente in senso paretiano,
ma soprattutto, la funzione monopolistica degli obiettivi sindacali sembra
troppo riduttiva. Il sindacato non fissa soltanto il salario (è testimoniato
dalle numerose iniziative pro - occupazionali che il sindacato ha a cuore
anche questo problema). Inoltre il sindacato non fissa il salario, ma lo
contratta con le imprese. Accettando che la funzione monopolistica sia
realista, le parti non riescono, comunque, a causa dei reciproci vincoli
imposti, a rendere massima la propria utilità. Esiste un’area nella regione a
sud - est del punto E di figura 1.1, nella quale sia l’impresa che il sindacato
potrebbero aumentare la propria utilità. I contratti efficienti nel senso di
Pareto possono essere rappresentati nel diagramma a scatola di Edgeworth
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unendo tutti i punti di incontro tra le diverse curve di isoprofitto
dell’impresa e le curve di indifferenza del sindacato. La curva che si
configura in questo modo (curva dei contratti) unisce i punti in cui la
rappresentazione grafica dell’utilità di impresa e sindacati hanno lo stesso
coefficiente angolare.
Fig. 1.4: I contratti Pareto - efficienti relativi a salario e occupazione.
Una volta che le parti si sono portate lungo la curva ZZ riconosceranno
che i loro interessi sono opposti: i profitti dell’impresa aumentano
spostandosi lungo la curva verso destra, mentre l’utilità del sindacato
aumenta spostandosi verso sinistra. La rappresentazione di figura 1.4 è però
fortemente semplificata; le curve di isoprofitto dell’impresa, ad esempio,
sono rappresentate solo nella loro parte discendente. Poiché la curva dei
contratti è inclinata positivamente, si nota che tanto più forte è il sindacato,
tanto maggiori sono i salari e l’occupazione (rispettando il vincolo del
minimo profitto per l’impresa), venendo meno il trade - off tra salari e
occupazione.
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Fig. 1.5: Curva dei contratti.
La figura 1.5 ci offre invece una rappresentazione più completa della
contrattazione efficiente. La grande differenza esistente tra modello
monopolistico e contrattazione efficiente è che nel primo caso
l’occupazione non rientra tra gli obiettivi del sindacato, come visto
dall’espressione matematica che si intende massimizzare. E’
un’esagerazione affermare che l’occupazione non rientra affatto negli
obiettivi sindacali, risultando quindi più accettabile il discorso
dell’efficienza paretiana. E’ chiaro che per giungere ad una situazione di
efficienza sono necessari assetti istituzionali più complessi. E’ necessario
ad esempio che il sindacato possa, in qualche modo, influenzare il livello di
occupazione (e non soltanto il saggio di salario come nella situazione di
monopolio vista precedentemente). Notiamo subito che la curva di
domanda di lavoro interseca la curva dei contratti nel punto P, che
rappresenta la soluzione di concorrenza perfetta relativa a questo modello.
Se il sindacato, cioè, non esistesse, allora w* sarebbe il salario pagato e L*
il livello di occupazione. Per questo la curva dei contratti è verticale fino a
w* e diventa successivamente inclinata positivamente, scomparendo una
volta raggiunta la piena occupazione. In ogni punto lungo la curva dei
contratti, ad eccezione di (w*, L*), il salario è maggiore del prodotto
marginale del lavoro. La curva dei contratti tende a spostarsi verso destra in
seguito ad un miglioramento della situazione dell’output dell'impresa sul
mercato dei beni, mentre si sposta verso sinistra se w aumenta, cioè se si
verifica un miglioramento delle possibilità alternative aperte ai lavoratori in
tutta l’economia. Nel primo caso (dobbiamo però presupporre che i ricavi
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dipendano non solo dal fattore lavoro, ma anche da un parametro che
indichi la situazione del prodotto dell’impresa sul mercato dei beni), il
livello di occupazione contrattato sarà maggiore per ogni dato livello di
salario, mentre nel secondo si avrà un salario maggiore per ogni livello di
occupazione. Di fatto, quindi, modificazioni contemporanee del mercato dei
beni e del mercato del lavoro si compensano. La contrattazione efficiente dà
luogo ad un livello di occupazione sicuramente più elevato di quello del
sindacato monopolista e forse anche rispetto al caso della concorrenza
perfetta. Poiché, però, il livello di salario contrattato è al di sopra della
curva di offerta di lavoro, ci sarà anche disoccupazione involontaria, anche
se più contenuta rispetto agli altri casi. Risulta necessario sottolineare
come la soluzione di efficienza nella contrattazione non sia unanimemente
accettata. Secondo alcuni autori, infatti, la contrattazione riguarderebbe
solamente il salario e non il livello di occupazione, fissato, invece
unilateralmente dall’impresa. Questa conclusione deriva dall’osservazione
del comportamento di molte impresa che cambiano continuamente il
numero delle proprie forze lavoro, senza ulteriori contrattazioni col
sindacato, eccetto i casi più eclatanti di sovrabbondanza di manodopera
(quando, cioè, si fa ricorso a strumenti quali i licenziamenti collettivi o la
cassa - integrazione). Torniamo comunque alla Pareto - efficienza.
1.4. Vincolo delle vendite e contrattazione
incrementale.
Una situazione particolare si viene a creare quando l’impresa (con
prezzi fissi) si trova ad affrontare una fase di recessione. Il momento di crisi
si manifesta soprattutto attraverso un vincolo progressivamente sempre più
stringente dal lato delle vendite. Poiché abbiamo fatto dipendere i ricavi
dell’impresa dal fattore lavoro L, tale parametro finirà per avere un livello
massimo, al di là del quale la contrattazione efficiente non potrà più essere
valida. Il vincolo si farà tanto stringente da costringere le parti a stipulare
un nuovo contratto salario - occupazione (fig. 1.6): il livello di occupazione
sarà in corrispondenza di L massimo, mentre il salario sarà fissato lungo il
segmento compreso tra la curva di indifferenza del sindacato e la curva di
isoprofitto dell’impresa (segmento BC) il cui punto di tangenza (punto A)
aveva precedentemente costituito l’equilibrio della contrattazione efficiente.
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Con la nuova contrattazione, ad un livello di occupazione più basso del
precedente, corrisponde un salario più elevato. Anche se questa ipotesi può
essere considerata esagerata, ci aiuta a capire perché il salario possa avere
in fasi recessive, un andamento anticiclico.
Fig. 1.6: Contrattazione incrementale.
1.5. L’andamento anticiclico del salario.
Il fatto che il salario abbia un andamento anticiclico non emerge solo
nel caso della contrattazione efficiente, ma, in generale, quando il mercato
del lavoro è sindacalizzato. Rispetto al mercato competitivo, nel quale il
salario aumenta nelle fasi di boom e diminuisce in quelle recessive, nel
mercato sindacalizzato succede l’esatto contrario.