2
strutturale, portando all’involuzione di alcuni distretti industriali ed alla conseguente
perdita di competenze produttive e tecnologiche spesso uniche.
Lo scopo della tesi è capire come i distretti industriali italiani possano tentare di
superare l’attuale stato di sofferenza. Questo lavoro si concentra sia sul distretto nel suo
complesso, considerandolo come una realtà che necessita di elaborare o di consolidare
una cooperazione per lo sviluppo di lungo periodo, sia sulle strategie competitive delle
singole imprese. Le due cose sono strettamente connesse: da una parte l’impresa
distrettuale deve essere analizzata tenendo conto del contesto nel quale è inserita e delle
relazioni che con esso instaura, dato che esistono molti fattori esterni all’impresa che ne
influenzano la capacità competitiva; d’altra parte un’approfondita analisi delle
caratteristiche strutturali delle imprese, dei loro elementi di forza e di debolezza nonché
delle loro strategie competitive è di fondamentale importanza per la comprensione della
dinamica evolutiva dei distretti industriali.
Il lavoro di ricerca è stato articolato in sei capitoli.
Nel primo capitolo viene introdotto il modello distrettuale, la sua evoluzione storica e
le sue caratteristiche distintive, e si presentano alcune teorie riguardanti la formazione e
l’evoluzione dei distretti industriali e dei clusters d’impresa. Vedremo quali sono gli
elementi peculiari che hanno consentito il successo di questi modelli di organizzazione
produttiva ma che al contempo possono limitare la capacità delle singole imprese di
costruire relazioni stabili con l’ambiente esterno.
Il secondo capitolo si sofferma sui fattori che hanno determinato una fase di crisi nel
sistema economico italiano nei primi anni del Duemila, mettendo in evidenza le
performance occupazionali ed esportative dell’industria manifatturiera. Alcuni shock
tecnologici ed economico-politici negli anni Novanta hanno causato serie difficoltà ai
sistemi produttivi locali. Molte piccole imprese hanno subito passivamente la maggiore
integrazione dell’economia mondiale e sono state costrette a ridimensionare o a
chiudere le proprie attività; altre realtà hanno invece saputo evolvere verso nuove
configurazioni più adatte al nuovo contesto competitivo, aprendo le proprie reti di
fornitura anche fuori del distretto di appartenenza.
L’apertura internazionale delle imprese è richiamata nel terzo capitolo, dove viene
fornita una teoria sulle catene globali del valore, evidenziando le modalità che possono
assumere le catene ed i relativi sistemi di governance. Come caso esemplificativo si
3
analizza il cluster calzaturiero brasiliano di Sinos Valley, la sua nascita, evoluzione ed
appartenenza allo stesso tempo a diverse catene globali del valore.
Il quarto capitolo verte sull’apertura internazionale dei distretti industriali come
risposta alla crescente integrazione delle economie mondiali. Dopo aver visto in che
modo stanno modificandosi i vantaggi comparati italiani, viene introdotto il concetto di
impresa leader ed illustrate alcune tra le possibili modalità di internazionalizzazione
delle imprese distrettuali. Data la dimensione media delle imprese, le modalità
maggiormente utilizzate per attivare relazioni con partner esterni al contesto di
riferimento risulteranno essere forme di internazionalizzazione “leggere”, basate per la
maggiore su accordi di tipo commerciale e produttivo piuttosto che su investimenti
propri diretti all’estero.
Il quinto capitolo focalizza l’attenzione su un caso studio, l’internazionalizzazione
produttiva nel distretto marchigiano delle calzature, i motivi che hanno spinto le
imprese a delocalizzare parte della produzione all’estero e gli effetti sul sistema e
sull’occupazione distrettuale di queste scelte strategiche.
Il sesto capitolo fornisce una riflessione sulle possibili politiche di sostegno
all’innovazione ed all’internazionalizzazione per le piccole e medie imprese distrettuali.
Si vuole mostrare quali dovrebbero essere i caratteri di una buona politica industriale ai
vari livelli di governo, in modo da fare emergere le potenzialità di un territorio
valorizzandone le risorse esclusive ed avviando un processo di sviluppo sia in ambito
locale sia nel contesto di insediamento estero.
4
Capitolo 1
Lo sviluppo dei distretti industriali in Italia
1.1
Cenni storici
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale e fino agli anni Settanta, l’Italia vide
un’espansione economica quasi ininterrotta in particolar modo in un determinato
intervallo – dal 1958 al 1963 – che viene definito “miracolo economico”. È il periodo
della diffusione della grande industria ad alta intensità di capitale, della
standardizzazione dei consumi, dell’espansione del commercio internazionale, della
produttività crescente e dell’introduzione di metodi manageriali nella gestione
d’impresa. Ma alcuni settori (più “tradizionali”) seguono la continuità dello sviluppo
anteguerra, senza snodi di rilievo nella qualità e nella forma delle relazioni industriali,
dei rapporti interni di fabbrica e dei modelli organizzativi impiegati.
Tra i motivi che spiegano la forte crescita di un paese fondamentalmente basato
sull’agricoltura e sulla piccola impresa artigianale, e nel quale esistevano poche
industrie, vi sono l’abbondanza di offerta di lavoro a basso costo, dovuta a milioni di
disoccupati dell’immediato dopoguerra ed alla sottoccupazione agricola, ma anche una
sorta di “esplosione di imprenditorialità”, cioè la liberazione di un potenziale
d’iniziativa individuale proprio dei lavoratori dipendenti più qualificati, che percepirono
come le loro capacità non fossero impiegate appieno. Nel ventennio 1950-1970 si
assistette ad una ingente diffusione dell’imprenditoria piccola e media, in larga parte
composta da operai specializzati che si mettevano in proprio, da imprese familiari che
diventavano società per azioni, da artigiani che si allargavano e creavano piccole
imprese manifatturiere. Sorsero concentrazioni produttive territoriali di imprese che
successivamente prenderanno il nome di distretti industriali, diffondendosi in particolar
modo nel Nord Est e nel Centro Italia (Veneto, Emilia - Romagna, Toscana e Marche
soprattutto) e raggruppandosi in zone ristrette poco attraenti per gli investimenti (la
5
cosiddetta “Terza Italia”, intermedia tra le regioni dello sviluppo capitalistico classico e
quelle del depresso Meridione), in settori maturi e senza prospettive (produzione di beni
a tecnologia intermedia, come vestiti, arredo per la casa, beni strumentali, …), nonché
con forme organizzative famigliari e/o di piccola impresa (viste dalla teoria dominante
senza alcuna possibilità di successo).
Il modello di sviluppo caratterizzato dal ruolo prevalente della grande impresa di tipo
fordista
1
, principalmente localizzata nel Nord-Ovest del nostro paese, venne messo in
discussione da una serie di cambiamenti di tipo strutturale, che fecero venire meno tutta
una serie di condizioni di contesto favorevoli ad essa: tensioni sui mercati degli input e
degli output, inflazione, shock energetici e monetari nel mondo, clima politico
turbolento, inadeguatezza del sistema finanziario, emergere di nuovi bisogni e di ostici
concorrenti internazionali, fallimenti di imprese del boom economico, in particolar
modo quelle ad alta intensità di capitale.
Negli anni del “miracolo economico” l’Italia ebbe a disposizione almeno due sentieri
di industrializzazione possibile, e la politica economica nazionale incentivò la crescita
dei settori più tecnologici, con la produzione di beni standard, da parte di grosse aziende
localizzate soprattutto nel Nord Ovest, ritenendo i settori “tradizionali” marginali e
senza alcun futuro. Tuttavia l’Italia ha ereditato una storia particolare, fatta di tante
divisioni e poco sentimento di unità nazionale, e mal sopportò l’idea di rompere i
legami socio territoriali che si erano instaurati in tanti secoli di avvenimenti comuni. In
parallelo all’esplosione del PIL ed all’innalzamento dei redditi, le genti richiedevano lo
sviluppo di nuove reti di protezione contro le incertezze della congiuntura economica e
contro gli eventi inattesi, che aggiornassero le vecchie reti di solidarietà costruite nel
tempo da ogni città o paese. L’industrializzazione classica sostituiva quelle reti con uno
stato sociale lontano e burocratizzato, accantonando il sapere pratico ereditato da secoli
di sviluppo continuato e senza fratture, mentre i sistemi produttivi locali rivalutavano la
1
Il successo del paradigma fordista (che si rifaceva all’organizzazione scientifica del lavoro di Taylor)
era basato sulla parcellizzazione delle lavorazioni e nel successivo reintegro di esse mediante un
programma centralizzato che ne specificava l’esatta sequenza; ciò creava però un ambiente artificiale
strettamente controllato dove tutti i comportamenti, le azioni e le relazioni tra gli individui erano
rigorosamente determinati a priori. E lo stesso dicasi per i processi produttivi e quelli di consumo, rigidi e
precostituiti, con beni standardizzati e di scarsa qualità.
6
cooperazione, la solidarietà del luogo ed il sapere contestuale, mescolandolo con saperi
codificati e con capacità ed abilità peculiari (quali il gusto ed il design).
Alla crisi della corporation fordista segue, dunque, una nuova fase di sviluppo
caratterizzata dal ruolo della piccola e media impresa distrettuale, alla quale
contribuirono fattori di tipo esogeno, come l’urgenza di confrontarsi con un mercato del
lavoro più flessibile ed il cambiamento dei gusti dei consumatori e tutta una serie di
condizioni endogene, proprie del “nuovo” modello organizzativo, quali un’elevata
divisione del lavoro e la cooperazione tra le imprese, una specializzazione produttiva
che facilita l’introduzione di nuove tecnologie (anche grazie al know how industrial-
artigianale accumulatosi nel territorio), la diffusa professionalità dei lavoratori,
comunicazioni facili, informali ed a poco costo.
In particolare, successo e sviluppo del modello distrettuale sono stati causati dal
consistente e continuo aumento delle possibilità di collocare certi tipi di prodotto
2
(beni
intermedi e specializzati per specifiche esigenze dei clienti, beni per la casa e per la
persona) sui mercati dei paesi industrializzati (Italia inclusa) nei quali, dopo aver
soddisfatto le esigenze di base, larghe masse di consumatori cominciarono ad esprimere
una domanda nuova, frammentata e mutevole. Il superamento dello standard of
comfort, con la creazione di nuovi bisogni di merci personalizzate e differenziate ad alto
contenuto qualitativo, rimise in gioco piccole realtà legate al territorio ed alle
caratteristiche della popolazione, dedite ognuna a poche fasi del processo produttivo;
l’offerta di prodotto cominciò ad avvalersi di macchinari più flessibili (basati più tardi
sulle tecnologie digitali) che resero possibile il soddisfacimento di una domanda
variabile che richiedeva prodotti ad alto contenuto di differenziazione estetica e
funzionale, e riuscì a farlo a costi non proibitivi, erodendo l’importanza delle economie
di scala tecniche, proprie delle grandi concentrazioni manifatturiere.
L’incapacità di soddisfare pienamente quel particolare tipo di bisogni, sia da parte
dei paesi che avevano sperimentato un’industrializzazione classica, sia da parte dei
paesi industrialmente arretrati, vide affermarsi come protagonista il nostro paese, il
2
Sono prodotti per i quali devono esistere condizioni tecniche tali da consentire la scomposizione in fasi
spazialmente e temporalmente separabili, cosicché è possibile la formazione di una rete locale di
transazioni specializzate sui prodotti di fase; beni di questo tipo sono i tipici prodotti di punta dei distretti
e del Made in Italy.
7
quale ancora conservava in alcune sue zone le organizzazioni produttive tipiche della
fase storica antecedente alla rivoluzione industriale, come la piccola fabbrica, il
laboratorio artigiano, il lavoro a domicilio. Al posto delle grandi serie standardizzate si
iniziarono così a ricercare le piccole serie, caratterizzate da buona qualità ed alta
personalizzazione.
Le piccole e medie imprese distrettuali ottennero buoni risultati poiché erano
immerse in un contesto nel quale potevano sfruttare le economie esterne presenti e per il
tipo di produzione che si effettuava: i distretti si sovrappongono ai comparti leggeri,
cioè quelli con produzioni a ciclo frazionabile e non continuo, in cui l’abilità specifica,
il lavoro manuale e l’impiego di macchine dedicate divengono fattori strategici e di
successo.
Ricordiamo che concettualmente le economie esterne (esternalità) sono elementi di
vantaggio che non dipendono da come vengono utilizzate le risorse, bensì derivano
dall’agglomerazione di unità specializzate nella produzione di alcune componenti o fasi
di un processo produttivo completo. Le esternalità sono collegate ad una certa
localizzazione dell’impresa che consente alla stessa di essere influenzata dalle economie
o meno: questo perché i fattori produttivi non sono perfettamente mobili né
omogeneamente diffusi su tutto il territorio, e la singola impresa riesce ad acquisirli ad
un prezzo inferiore al loro effettivo valore. Esistono due tipi di economie esterne, quelle
pecuniarie (prezzi dei fattori e dei servizi più bassi) e quelle tecnologiche (processi di
condivisione delle conoscenze che superano i tradizionali rapporti di mercato tra
imprese, come ad esempio le ricerche universitarie).
Da ultimo, nell’analisi dei distretti industriali italiani, è necessario considerare anche
il concetto di Made in Italy: con esso si fa riferimento ad una serie di prodotti che
vengono strettamente associati all’immagine del nostro paese e che si sono affermati sui
mercati mondiali. Gli elementi che caratterizzano queste attività sono il collegamento
delle relative produzioni industriali con specializzazioni di tipo artigianale, la scelta dei
materiali e la capacità di lavorare certe materie prime, la cura del design, le prestazioni
ed il servizio. L’associazione tra distretti industriali e Made in Italy consiste nel fatto
che i beni in cui l’Italia si è conquistata un vantaggio competitivo vengono prodotti
soprattutto nei distretti industriali, ossia la maggior parte delle produzioni tipiche dei
distretti appartiene al Made in Italy.
8
1.2
Il modello classico di sviluppo distrettuale italiano
La genesi storica del concetto di distretto industriale può essere fatta risalire agli
scritti di Alfred Marshall (specificatamente ad Industry and Trade e a Principles of
Economy, testi risalenti alla fine del XIX secolo), nei quali l’economista inglese
contestava la teoria secondo la quale il sistema di fabbrica (factory system
3
) sarebbe
stato sistematicamente superiore ai modelli organizzativi dispersi sul territorio e quindi
meno integrati. In realtà è possibile produrre in maniera efficiente anche senza utilizzare
la fabbrica integrata, bensì sfruttando una concentrazione di molte piccole imprese
specializzate nelle diverse fasi lavorative di un unico processo produttivo in un territorio
ristretto, supportate da manodopera specializzata nelle lavorazioni e da un insieme di
imprese sussidiare che forniscano tutto quello che le imprese manifatturiere non
riescono a procurarsi autonomamente (macchinari, distribuzione dei prodotti e/o dei
semilavorati, …). Il pensiero di Marshall rimase qualcosa di “teoricamente anomalo”
per diversi decenni, principalmente perché il modello fordista riscuoteva successi,
creando ricchezza e benessere ovunque questo paradigma si diffondesse, ma i
cambiamenti di contesto che seguirono e le performance che i distretti furono capaci di
ottenere (specialmente riguardo produzione, occupazione ed export) fecero recuperare
interesse e valore a queste teorie. In Italia fu soprattutto Giacomo Becattini a riprendere
il pensiero di Marshall, determinando le caratteristiche di fondo che hanno permesso la
nascita e lo sviluppo di questa particolare forma organizzativa di produzione.
Un distretto industriale (Becattini 2000) prende forma quando in un determinato
luogo si addensa un numero consistente di imprese, appartenenti alla stessa filiera
produttiva od a filiere collegate, che sfruttano la contiguità territoriale come mezzo di
relazione e di scambio. Dunque un distretto nasce e si sviluppa in un’area
geograficamente delimitata, le cui caratteristiche di insieme sono spesso uniche (a
livello di conformazione del territorio, di origine etnica della popolazione, e così via),
differenziandosi rispetto ad altre aree anche vicine nelle quali certe caratteristiche
peculiari non trovano fondamento. “Per mezzo del territorio” è così possibile interagire
3
Il sistema di fabbrica teorizza la concentrazione di tutte le attività produttive in un medesimo impianto
ad alta integrazione verticale, come soluzione ottimale per la produzione manifatturiera.
9
e scambiare idee con migliaia di intelligenze decentrate ed interdipendenti (formanti la
cosiddetta impresa diffusa) e con esse dare avvio ad un sistema organizzato, efficiente
ed innovativo.
Tuttavia, non è sufficiente la sola presenza di tante piccole imprese in uno spazio
limitato per costituire un distretto, anzi deve essere presente prima di tutto una
complessità “culturale” fatta di valori, di conoscenze, di rapporti di fiducia e di
comportamenti emarginati altrove da una cultura industriale massificante. La comunità
di persone di un determinato luogo può giovarsi di un sistema omogeneo di valori
condiviso, tradizione e cultura, come base per formare e sviluppare un distretto di
successo; nondimeno, ruolo determinante ha la formazione graduale e regolare di una
pluralità d’istituzioni locali, come la famiglia, la comunità anche religiosa, le
associazioni imprenditoriali e non, le scuole tecniche, i consorzi di acquisto e di vendita,
e così via, che da un lato sviluppano le istituzioni e i valori del luogo e dall’altro
garantiscono e diffondono i valori peculiari del sistema locale, trasmettendone l’identità
di generazione in generazione e permettendo al distretto di crescere e rigenerare i suoi
tratti caratteristici. In questa visione, il distretto è innanzitutto una comunità chiusa,
dove esistono vincoli all’acquisizione di valori e persone
4
da realtà diverse, e l’apertura
verso il mondo esterno avviene di rado, sovente limitata alla vendita di prodotti sui
mercati esterni attraverso intermediari specializzati.
Ciò che contraddistingue il distretto rispetto agli agglomerati di piccole e medie
imprese è il meccanismo di competizione e collaborazione: dalla pura e semplice
concorrenza tra piccole imprese di un semplice agglomerato produttivo locale che
producono beni simili (se non uguali), si passa a forme sempre più complesse di
competizione-cooperazione tra imprese ed allora si ha la comparsa del sistema
distrettuale. I distretti offrono un esempio concreto di come sia possibile realizzare una
ragionevole sintesi tra organizzazione e complessità. Quest’ultima viene metabolizzata
4
I problemi di assimilazione, almeno nel dopoguerra, si risolsero con forestieri a breve raggio e con forte
capacità di assimilazione dell’identità caratteristica del sistema locale. In generale, poi, nel distretto vi è
una tendenza incorporata a ridistribuire continuamente le risorse umane: le imprese accedono ad un
mercato del lavoro in cui esiste una professionalità diffusa e qualificata, offerta dai continui movimenti
delle persone (elevata mobilità all’interno del sistema distrettuale, per cercare il lavoro più adatto alle
proprie capacità e far crescere imprese e distretto) e dagli spin off di dipendenti che si mettono in proprio
e tentano l’avventura imprenditoriale.
10
attraverso l’apprendimento distribuito delle intelligenze dei molti attori presenti nel
sistema locale e capaci di comunicare ed interagire tra di loro. Nessuno dei partecipanti
al processo innovativo ha troppo potere, quindi si impara attraverso prove ripetute,
esplorando autonomamente e intelligentemente una parte di complessità ed assumendosi
il rischio (ed il beneficio) imprenditoriale sui risultati esplorativi fatti. Chi non innova
direttamente è viceversa capace di imparare imitando l’esperienza fatta dagli altri,
poiché i circuiti della comunicazione locale (integrazione clienti-fornitori, copia dei
prodotti dei concorrenti, spin off per costituire nuove imprese, turnover lavoratore in
diverse imprese, famiglie che lavorano per imprese diverse) consentono che il successo
realizzato da un singolo soggetto possa essere emulato (e magari migliorato) da altri.
Questa cooperazione involontaria, con novità introdotte da alcuni soggetti che
vengono sfruttate da un numero maggiore di essi, è un apprendimento peculiare dei
sistemi locali e permette di produrre conoscenza ed innovazione in un modo del tutto
particolare: attraverso la condivisione del contesto di esperienza ed attraverso un
metodo “prova ed errore” (apprendimento evolutivo), senza orientamenti preventivi,
mettendo in conto tanti errori da parte di tanti soggetti, ma anche qualche buona
soluzione, cosicché l’investimento ed il rischio connessi a ciascun esperimento sono
limitati e si potranno fare molti tentativi basati su decisioni rapide ed intuitive, dato che
l’errore costa poco e si è incentivati a provare.
Nei distretti si innova contando sulle capacità di tante teste decentrate, e quando la
soluzione vincente emerge tutti gli attori del sistema locale saranno in grado di sapere,
in poco tempo ed a basso costo, quale è la risposta efficiente al problema, adeguandosi
di conseguenza. In altre parole, le conoscenze e le innovazioni si autogenerano
emergendo da processi spontanei e progressivi di apprendimento, collettivo e non
predeterminato, accessibile attraverso la condivisione del contesto locale. L’impresa
specializzata distrettuale ha nel tempo imparato a lavorare in rete, “acquisendo” le
competenze specialistiche di cui non dispone da altri soggetti specializzati, il più delle
volte territorialmente vicini. Dunque, l’impresa è più povera di funzioni ed intelligenze
interne (come l’ufficio tecnico o quello di marketing) rispetto alle imprese non radicate
in un determinato contesto territoriale, ma tanto la struttura interna è semplice, quanto
invece le relazioni con l’ambiente distrettuale sono complesse.
11
Il collegamento tra l’apparato produttivo e la comunità non si limita alle istituzioni
formali classiche, il distretto è anche un sistema al cui interno raggruppa tante altre
diverse istituzioni che garantiscono la riproduzione del sistema socioeconomico. Oltre
agli scambi tra imprese specializzate di fase e quelle di supporto, esistono vari mercati
secondari, come quello degli scarti di produzione oppure quello dei macchinari usati,
compratori specializzati di materie prime, listini di prezzi (tariffe) che normalizzano i
costi delle operazioni in modo da garantire agli operatori locali un importante punto di
riferimento per i calcoli economici e per le decisioni produttive, di investimento e di
specializzazione, garantendo stabilità sui redditi e costi di produzione certi.
Per quanto concerne il processo produttivo, all’interno dei distretti non si crea solo
output partendo da degli input, ma si rigenerano i fattori umani e materiali da cui prende
avvio il processo produttivo stesso. La riproduzione, cioè, non riguarda solo macchine e
professionalità, ma si spinge al contesto sociale, alle regole istituzionali, ai valori, agli
atteggiamenti, cioè unisce il lato economico-produttivo a quello socio-culturale. La
produzione delle merci e la riproduzione dell’organismo produttivo caratterizza il
cosiddetto processo produttivo completo, un fenomeno spiraliforme che relaziona e
rigenera gli aspetti tecnico-economici e quelli socioculturali.
Il distretto ha dentro di sé il nucleo essenziale delle condizioni sociali, economiche e
culturali della propria riproduzione e del proprio sviluppo. Non tutte le condizioni
5
, ad
esempio la domanda esterna assorbe il surplus di produzioni manifatturiere e vi sono
influenze dall’esterno, ora sempre più intense
6
, come le conoscenze che circolano nelle
reti globali. Per collocare la propria produzione e reagire alle modifiche ed alle insidie
dell’ambiente competitivo, il distretto deve quindi mutare di continuo la propria
struttura interna mantenendo stabile un nucleo specifico di entità, appartenenti all’area
dei valori, delle conoscenze e delle istituzioni.
La riproduzione implica, quindi, l’evoluzione del sistema, ma non una rivoluzione
dello stesso: per adattarsi, le strutture devono essere sì flessibili ma allo stesso è
necessario conservare l’identità collettiva. Cambiano velocemente i processi, i prodotti
ed i mercati, ma le caratteristiche di fondo del distretto si modificano molto lentamente.
5
Per questo motivo si parla piuttosto di processo produttivo quasi-completo.
6
Come si avrà modo di vedere meglio nei prossimi capitoli dedicati all’internazionalizzazione ed alle reti
globali di divisione del lavoro.
12
In questa accezione, il sistema locale, o meglio il territorio, può venir considerato
una ecologia (Rullani 2004), ossia un sistema che è il risultato di un lento
apprendimento evolutivo attraverso selezioni e riproduzioni, realizzate da un intreccio
complesso di interdipendenze (organizzazioni, persone, idee e culture) che sono riuscite
a rendere coerente ed ordinata la costruzione economica e sociale: anche il distretto
industriale ha un proprio ordine interno, frutto di un apprendimento evolutivo compiuto
nel tempo, e quando avvengono dei turbamenti esterni è intrinsecamente capace di
ricostituire e modificare sé stesso.
C’è una precisazione da fare: nonostante si recuperino forme artigianali di
professione e di impresa e si richiamino consumi esistenti ante rivoluzione industriale, i
distretti hanno costituito nel tempo una modernità industriale che utilizza intensamente
le capacità e le intelligenze dell’individuo. Essi non avrebbero avuto successo in campi
dove la tradizione si ripete in forme costanti ed a-problematiche, terreno fertile per le
grandi imprese e le loro grandi serie standardizzate, ma divengono “vincenti” dove
bisogna saper adattarsi rapidamente e creativamente ai cambiamenti non controllabili, e
sono “vincenti” perché questo non viene realizzato da una master mind bensì esiste una
intelligenza diffusa che attraverso tentativi, imitazioni e adattamenti reciproci crea
apprendimento, innovazione, successo.
È pur vero che i migliori risultati si sono avuti nei settori “tradizionali”, quali il
tessile e l’arredamento, ma di “tradizionale” nel vero senso della parola rimaneva ben
poco, in quanto i settori erano e sono innovativi e complessi per tecnologie e soluzioni
adottate. La forma distrettuale si è sviluppata anche in versione high tech, come nel
sistema produttivo biomedicale di Mirandola, in provincia di Modena, e al di fuori del
nostro paese esistono agglomerazioni produttive in molte parti del mondo, esempio più
famoso la Silicon Valley (Saxenian 1994). Allora, più che riferirsi a settori tradizionali,
il distretto costituisce una forma efficiente per organizzare produzioni caratterizzate da
mercati in cui la domanda richiede qualità, sofisticazione e differenziazione, e di
conseguenza l’offerta deve presentare capacità di adattamento continuo e integrazione
versatile.
13
1.3
Conoscenza ed innovazioni
L’economia dei nostri tempi sta divenendo sempre più cognitiva e la conoscenza è
divenuta il fattore chiave cui si ricorre per spiegare le differenze tra imprese, territori e
paesi, nonché lo strumento attraverso il quale far crescere produttività ed innovatività.
In realtà tutta la produzione moderna
7
è stata caratterizzata da forme di generazione e
diffusione della conoscenza, sia nel capitalismo liberale dell’Ottocento (conoscenza
incorporata e diffusa attraverso i macchinari) che nel paradigma fordista (conoscenze
autoprodotte firm specific). Oggi è più evidente del passato che la crescita economica ed
il posizionamento competitivo dipendono dalla partecipazione a processi di
apprendimento per la produzione di nuovi saperi e dall’accesso alle conoscenze
distribuite nelle reti locali e globali. Lo sviluppo avviene, perciò, non tanto attraverso
l’accumulazione di capitale fisico/materiale, ma per mezzo di investimenti in
conoscenza ed innovazione.
Esistono essenzialmente due grandi forme di conoscenza utili alla produzione, quelle
di tipo tacito-contestuale e quelle codificate-astratte (saperi tecnico-scientifici). Il primo
è un tipo di conoscenza latente ed informale (tipico è il know how), legato alla memoria
e all’interpretazione dell’esperienza personale e collettiva, difficilmente esplicabile a
parole e che per essere appreso presuppone la condivisione di un contesto di interazione.
Le esperienze di apprendimento ed innovazione non producono solo saperi
perfettamente codificabili (come i dati e le informazioni) ma anche qualcosa di
complesso, acquisibile attraverso la pratica diretta o dal “vedere all’opera”: tutti i
processi produttivi reali comportano l’utilizzo di una mescolanza di saperi, cioè un
“regime tecnologico” che integra informazioni, nozioni e pratica, chi più una cosa
(come i processi automatizzati) chi più l’altra (ad esempio l’artigianato).
Secondo Nonaka e Takeuchi
8
(1995), l’innovazione deriva dalla conversione fra
diverse forme di conoscenza, sia attraverso la capacita di assorbimento di saperi astratti
sia diventa importante lo sviluppo di competenze pratiche, come le conoscenze peculiari
7
Per una trattazione completa si veda ancora Rullani (2004).
8
Nonaka e Takeuchi hanno proposto un percorso a spirale che spiega come creare e propagare il sapere
attraverso la continua conversione della conoscenza tacita in esplicita e viceversa.
14
generate nei distretti. Ad esempio, il territorio è dotato di agglomerazioni produttive che
favoriscono l’investimento in conoscenza ed in pratiche innovative, potendo contare su
un intreccio di cultura imprenditoriale, competenze professionali, mercati del lavoro
qualificati e forti esternalità economiche.
Ogni conoscenza viene dunque prodotta in un determinato contesto, il quale
comprende un insieme di variabili personali, aziendali e culturali che tende a farla
rimanere ancorata al contesto di produzione, mantenendo il valore creato solo fino a
quando essa rimane localizzata nel luogo di produzione. Alcuni saperi possono essere
astratti e codificati, e quindi essere diffusi fuori dal sistema in cui sono stati creati,
mentre altre conoscenze sono e restano tacite (embedded), radicandosi nelle abilità
personali, nei contesti territoriali e nelle routines aziendali.
La progressiva accumulazione di conoscenze e di competenze tecniche a livello
locale comporta l’emergere di economie esterne all’impresa, ma interne all’area, da
considerare come dei veri e propri “beni pubblici” che rendono più efficienti e
competitive le imprese locali in quanto l’accessibilità a queste risorse è loro garantita.
Questo tipo di economie viene prodotto principalmente dalle relazioni socioeconomiche
tra i diversi soggetti, determinando vantaggi specifici e competitività grazie al basso
costo di appropriazione (di solito tendente a zero) e grazie all’utilizzo possibile
esclusivamente agli attori del distretto industriale: la conoscenza contestuale causa
allora forti barriere all’accesso da parte di chi non ha modo di avere pratica con un
determinato contesto, dato che essa perde di validità più ci si allontana dal luogo di
produzione. E per questa stessa ragione essa può essere condivisa da coloro che operano
e vivono in quel contesto, come nei distretti dove persone ed imprese sanno più di
quanto riescono ad esplicitare. Visto che gran parte dei saperi e delle competenze
utilizzati in ambito economico si creano e si trasmettono attraverso un’esperienza
specifica di produzione, la conoscenza in questo modo può considerarsi un
sottoprodotto dell’attività produttiva, ossia una relazione endogena fra cosa un sistema
locale produce e la specificità della conoscenza (sotto)prodotta attraverso l’esperienza
(Corò e Micelli 2006).
Nel periodo di massima espansione e di successo, la crescita del distretto era
alimentata dalle innovazioni fatte da alcune imprese, soprattutto da parte delle più
grandi e principalmente di carattere incrementale, mentre un numero molto maggiore di
15
imprese adottavano strategie imitative, economicamente più vantaggiose, spesso
migliorando l’innovazione realizzata da altri. Le conoscenze e le innovazioni
permettevano di sviluppare il distretto a condizione che fossero allo stesso tempo
inclusive verso l’interno ed esclusive verso l’esterno. Vi sono tipi di innovazioni che
non danno vantaggi al distretto (come i marchi proprietari e/o le nuove tecnologie
codificabili) in quanto facilmente diffondibili fuori dal luogo di generazione: gli
investimenti in tecnologia, meccanizzazione e commercializzazione non permettono di
alimentare le economie esterne alle imprese, poiché si focalizzano su conoscenza
prettamente codificabile e/o proprietaria. Di conseguenza, le innovazioni più adatte a
promuovere la crescita del sapere sedimentato nel distretto sono state quelle relative al
prodotto ed ai processi di produzione, fondate su un sapere di tipo tacito difficilmente
trasferibile fuori dal contesto, inclusivo verso l’interno (facile imitazione ed
appropriabilità della conoscenze e dell’innovazione) ed esclusivo verso l’esterno
(tagliando fuori chi non poteva avere esperienze o, come avrebbe detto Marshall, non
era immerso “nell’atmosfera industriale” del sistema locale).
Grazie alla condivisione del contesto di esperienza, l’organizzazione distrettuale
riuscì a meglio governare la complessità della produzione industriale moderna,
trasformando il problema e la semplificazione fordista (incertezza, variabilità,
rischio,…) in una fondamentale risorsa competitiva. Rispetto alla logica organizzativa
della grande impresa, il distretto presenta una maggiore varietà di situazioni ed
esperienze. Operando in mercati variabili per gusti e domanda di beni, i distretti
industriali sono riusciti a sviluppare tecnologie versatili che lasciano margini di
adattamento alla variabilità delle situazioni, grazie all’esistenza di un sistema ad
intelligenza distribuita, nel quale la capacità di apprendimento è condivisa dal maggior
numero possibile di attori e organizzazioni.