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Attraverso l'attenzione alle cose presenti essa è poi in grado di misurare il
presente che di per sè privo di durata poichè diventa continuamente passato, e
attraverso l'attesa delle cose future essa può misurare il tempo futuro, che non
sarebbe giudicabile perchè non c'è ancora. (Abbagnano Fornero 1992). Per
quanto riguarda invece le concezioni del tempo provenienti dall'ambito scientifico,
nal1609 Galileo introduce il principio di relatività (detto appunto galileiano), in
base al quale si attesta che se due osservatori sono in moto relativo tra loro e
ognuno di loro si sposta con uniformità, in modo che la velocità relativa di
entrambi sia costante, gli spazi percorsi da ognuno saranno diversi, ma la forma
matematica delle loro osservazioni avrà la stessa veste, e quindi il concetto di
tempo sarà uguale per i due osservatori a prescindere dai sistemi di riferimento
nei quali si trovano. Questa concezione del tempo confluì nella teoria di Newton
secondo il quale il tempo, al pari dello spazio, è "sensorium Dei" (senso di Dio) e
scorre immutabile, sempre uguale a se stesso. Tale impostazione rimase in
vigore per un paio di secoli finchè il fisico Albert Einstein (la sua teoria della
relatività generale fu pubblicata nel 1915; Einstein 1915), asserì che il tempo non
è una dimensione assoluta, come suggerivano le precedenti teorie galileiana e
newtoniana, ma varia in relazione al sistema di riferimento nel quale si trova
l'osservatore, dal momento che l'unico valore di riferimento assoluto è quello
della velocità della luce, che viaggia a 300'000 Km al secondo in qualsiasi sistema
di riferimento, mentre i valori del tempo e dello spazio, nelle equazioni di Einstein
diventano, perla prima volta nella storia, valori variabili. Per illustrare gli effetti
pratici di questa teoria si può far ricorso al famoso paradosso dei gemelli:
ipotizzando che sia possibile viaggiare nello spazio a velocità prossime a quelle
della luce infatti, un periodo breve trascorso dall'ipotetico viaggiatore a bordo
dell’astronave spaziale corrisponderebbe a un periodo molto più lungo per il
gemello rimasto sulla terra, poichè viaggiando a velocità così elevate in base alla
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teoria di Einstein il tempo scorre in modo più lento. Ritornando sulla terra il
gemello che era partito troverebbe infatti l'altro gemello molto più invecchiato
rispetto a lui.
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1.2 Che cos’è la percezione del tempo e qual è il suo valore adattivo
Nonostante che il concetto di tempo sia stato variamente interpretato da filosofi e
scienziati di varie epoche, lo scorrere del tempo è un’esperienza che tutti
facciamo quotidianamente. In ogni attimo della nostra vita ci troviamo infatti,
consapevolmente o inconsapevolmente, a percepire il passaggio del tempo, come
ad esempio quando attendiamo la luce verde ad un semaforo, quando ascoltiamo
una conversazione, camminiamo o giochiamo a tennis. Praticamente tutto ciò che
facciamo quotidianamente infatti presuppone l'analisi dei rapporti temporali che
sono alla base sia di ogni azione. Colpire la pallina nel tennis risulterebbe
impossibile se non sapessimo quando colpirla, e camminare per strada
risulterebbe assolutamente disagevole se non fossimo in grado di modulare i
nostri movimenti in modo da evitare un ostacolo che ci si frappone in un dato
momento. Per ogni essere vivente la percezione del tempo è un compito di
fondamentale importanza per adattarsi all’ambiente in cui vive, essendo spesso
la stessa sopravvivenza inestricabilmente legata a determinanti temporali. Infatti
l'esistenza di ogni organismo è permeata a tutti i livelli dal concetto di causalità,
che permette ad ogni forma di vita di entrare in relazione in modo consapevole
con l'ambiente e con gli altri esseri viventi, fornendole una capacità predittiva nei
confronti degli eventi che sarebbe impensabile in un mondo nel quale ad ogni
azione potesse corrispondere una reazione qualsiasi. La detezione della causalità
si basa evidentemente sulla percezione del tempo, poiché senza la conoscenza
dei precisi rapporti temporali che intercorrono ad esempio tra l'inizio della corsa
di una leonessa verso una gazzella durante la caccia e il momento in cui essa la
raggiunge e la uccide, essa sarebbe destinata alla morte per inedia. Se la
leonessa infatti sovrastimasse o sottostimasse quell'intervallo temporale che,
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sulla base del suo sforzo muscolare nella rincorsa e di quello della gazzella nel
tentativo di fuga, la porta a raggiungere la preda e a ferirla a morte, essa
mancherebbe sistematicamente l'obbiettivo. La leonessa invece è in grado, sin
dalla tenera età, di formarsi una precisa rappresentazione di quel lasso
temporale, basata sulla conoscenza dei rapporti tra gli elementi in gioco (la
propria velocità di corsa, la velocità di corsa della preda, il fatto che i cuccioli e gli
elementi più anziani del branco sono più lenti e quindi più vulnerabili ecc.),
poiché senza quella conoscenza essa morirebbe rapidamente. In essa risiede
quindi un fondamentale valore adattivo, determinante per la sopravvivenza della
specie a cui essa appartiene. Questo tipo di conoscenze é talmente fondamentale
e pervasivo per quanto riguardo la biologia, che in ogni essere vivente, dalle
forme di vita più semplici come il mollusco Aplysia a quelle più complesse come
l'uomo, si ritrovano le stesse basi neurofisiologiche di quel fenomeno che Pavlov
(Pavlov 1927) ha descritto come riflesso condizionato. Esso costituisce la
manifestazione più semplice dell’apprendimento e mostra come la percezione del
tempo e il principio di causalità possano associarsi in senso adattivo. Durante un
riflesso condizionato si assiste all’emissione di una risposta riflessa non nel suo
contesto naturale (ad esempio un cane che saliva quando sente l'odore della
polvere di carne), ma in risposta ad uno stimolo neutro (ad esempio un suono),
che sia stato presentato per un certo numero di sessioni precedenti associato allo
stimolo che normalmente elicita la risposta riflessa in un contesto naturale
(nell'esempio la polvere di carne). Il risultato è quindi che il cane saliva anche in
risposta allo stimolo neutro, e non in un momento qualsiasi ma esattamente
quando nelle presentazioni precedenti veniva somministrata la polvere di carne.
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1.3 L'approccio sperimentale alla percezione del tempo
Lo studio sperimentale della percezione del tempo può essere fatto risalire al
1795. A quei tempi era in uso in ambito astronomico la procedura denominata
occhio-orecchio, introdotta da Bradley per la misurazione del passaggio delle
stelle. Essa richiedeva il confronto tra un segnale di natura visiva (il passaggio
della stella) e uno acustico (il suono di un orologio) per effettuare la misurazione,
ed era ritenuta particolarmente affidabile in quanto garantiva una precisione
nell'ambito delle centinaia di millisecondi. Emerse però ad un certo punto una
complicazione destinata ad inficiare l’affidabilità di questo metodo. Furono
riscontrate infatti delle sostanziali differenze nelle misurazioni, anche tra
astronomi ritenuti molto esperti e per questo non sospettabili di errore, questione
conosciuta come “il problema dell'osservatorio di Greenwich” (Leviting et alt.
2003). Bessel nel 1829 ipotizzò che fosse possibile calcolare per ogni astronomo
una “differenza personale” costante che garantisse la comparabilità dei risultati
tra astronomi diversi, trasformando le percezioni temporali soggettive in
percezioni temporali oggettive. Ma gli astronomi delle generazioni successive gli
dettero torto. Nel 1830 l'astronomo Nicolai sostenne che la differenza soggettiva
delle misurazioni effettuate con il metodo “occhio-orecchio” risiedesse nella
differenza trai “riflessi mentali” dell'occhio e quelli dell'orecchio tra individui
diversi, chiamando in causa quindi variabili fisiologiche. Fin da subito il dibattito
all'interno dello studio sperimentale si caratterizzò per la presenza di una
dicotomia tra coloro che imputavano la percezione delle relazioni temporali tra
stimoli visivi ed acustici a processi fisiologici come le latenze neurali e i processi
di trasduzione e coloro che invece proponevano una spiegazione in termini di
processi psicologici “centrali” come l'attenzione. Più tardi, con la nascita della
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vera e propria psicologia sperimentale con Wundt nel 1879, furono sviluppate le
seguenti tecniche per l'indagine della percezione del tempo. Il pendolo di
complicazione, ideato da Wundt, i tempi di reazione, introdotti dal fisiologo
olandese Donders, e la tecnica dei giudici di ordine temporale, usata da Exner.
Wundt affermò che i soli processi fisiologici non bastavano a spiegare i risultati
sperimentali che dimostravano come fossero possibili fenomeni di dislocazione
temporale anche all'interno di una sola modalità sensoriale, il che non poteva
certo essere imputato ad una differenza di “prontezza” degli organi di senso. Il
“pendolo di complicazione” da lui ideato era costituito da un quadrante sul quale
si muoveva una lancetta mossa da un pendolo e da un campanello che poteva
emettere un suono in corrispondenza del passaggio della lancetta su un
determinato punto del quadrante. Il compito del soggetto era indicare su quale
punto del quadrante si trovava la lancetta quando lo stimolo sonoro era udito.
Wundt quindi ritenne che le illusioni temporali fossero provocate dalle diverse
condizioni nelle qual si attivava l'attenzione, suscettibili di variare a seconda di
molti fattori, come ad esempio la velocità di traslazione della lancetta sul
quadrante o il numero di stimoli acustici che contemporaneamente vengono
presentati al soggetto al momento di risolvere la posizione spaziale della lancetta
in traslazione. Donders invece si propose di stabilire la complessità dei processi
mentali misurando i tempi di reazione che erano necessari per la loro
elaborazione, egli stabilì che fossero di 140 ms per gli stimoli visivi e di 180 ms
per quelli acustici. Exner invece, nel 1885 introdusse il metodo dei giudizi di
ordine temporale, che consisteva nel presentare al soggetto una coppia di stimoli
eterogenei in stretta successione e di determinare quali fossero le relazioni
temporali oggettive tra di esse che provocavanano la percezione di sincronia
soggettiva tra gli stimoli presentati. Venendo ai nostri giorni, esperimenti condotti
in laboratorio hanno mostrato (Buonomano , Karmakar 2002) che gli animali
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sono in grado di registrare il tempo su scale che variano dai microsecondi ai
giorni, all'interno di 10 ordini di grandezza. Tale range spazia infatti dagli
intervalli temporali brevissimi e non avvertibili a livello cosciente usati per
discriminare un suono che ad esempio provenga da destra rispetto ad un altro
proviene da sinistra, in base a differenze di attivazione dei due orecchi nell’ordine
di 600-700 microsecondi (1 microsecondo = 1/1000000 secondi), fino ai ritmi
circadiani, che durano circa 24 ore, (Y.Bhattacharjee 2006). Vi sono
essenzialmente quattro scale temporali che sono state ipotizzate essere rilevanti
per i comportamenti umani (Buonomano, Karmakar2002): i microsecondi, i
millisecondi, i secondi e i ritmi circadiani. Molto fruttuosa si è rivelata in passato
l'indagine su questi ultimi, con la scoperta della sede neurale dell' "orologio"
circadiano nel nucleo soprachiasmatico dell'ipotalamo, una struttura in grado di
regolare i ritmi circadiani, e ciò ha comprensibilmente stimolato l'ottimismo verso
l'individuazione di una struttura localizzata da qualche parte del cervello che
fosse da sola responsabile per gli intervalli temporali più brevi, come ad esempio
quelli intorno al secondo (Y.Bhattacharjee 2006). Ma tale speranza è stata poi
quasi del tutto vanificata da studi successivi, tanto che oggi i ricercatori sono
sempre più convinti che non sia possibile rintracciare un tale meccanismo in una
singola regione cerebrale. Infatti si ritiene oggi che il cervello misuri gli intervalli
di tempo più brevi del secondo con una rete distribuita di neuroni, come è
emerso soprattutto da studi che hanno confrontato la prestazione di soggetti con
deficit versus pazienti sani (ad esempio Koch et alt. 2002; Harrington, Haaland et
alt 1998, Harrington e Haaland 2006). Nonostante infatti che dagli anni 70' ad
oggi siano stati indicati a turno l'ippocampo, il cervelletto e i gangli della base
come unica fonte del timing per le durate brevi, recentemente uno studio
italiano ha messo in evidenza il ruolo della corteccia prefrontale (Koch et al.
2002), prendendo in considerazione un paziente che in seguito ad una lesione
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dell’area prefrontale dorsolaterale sottostimava intervalli temporali di secondi.
Sempre nel 2002 uno studio tedesco diretto da Marc Wittmann (Witmann et alt.
2002) ha invece descritto pazienti con lesioni ad altre aree corticali che
sottostimavano le durate maggiori di 3.5 secondi. I risultati di entrambi questi
studi pregiudicano seriamente di per sé la possibilità che esista un unico
meccanismo di timing per tutti gli ordini di durata temporale che interessano
l’uomo. Un importante contributo nella comprensione dei meccanismi sottostanti
alla percezione del tempo si è avuto anche dagli studi di neuroimaging, ad
esempio uno studio francese (Coull 2004b) ha paragonato l'attività corticale
coinvolta in un compito di stima del tempo con uno nel quale i soggetti
prestavano semplicemente attenzione al colore dello stimolo. In questo studio ai
soggetti venivano presentati dei cerchi colorati in 3 diverse sfumature di viola,
che apparivano in sequenza e rimanevano visibili per tre possibili durate: 0.5, 1
o 1.6 secondi. In una condizione sperimentale ai soggetti veniva chiesto di
svolgere un task circa il tempo di presentazione degli stimoli, mentre nell’altra il
parametro che essi dovevano considerare riguardava le differenze di colore degli
stimoli. Analizzando con la risonanza magnetica funzionale l'attività corticale dei
soggetti mentre svolgevano i due diversi compiti, è stata riportata l'attivazione di
una estesa rete di aree cerebrali nel caso della stima del tempo (corteccia
prefrontale, parietale e gangli della base), contro l'attivazione della sola area V4
nel giudizio sul colore.
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1.4 Modelli delle dinamiche neuronali sottostanti alla percezione del tempo
Per quanto riguarda i modelli sviluppati per descrivere le varie architetture
neurali per l’elaborazione del timing, essi si dividono essenzialmente in 3 gruppi:
“Labeled lines”, “Population clocks” e “Clock models” (Buonomano, Karmakar
2002). Nei modelli “Labeled lines” i differenti intervalli temporali sono codificati
dall'attività di popolazioni di neuroni formate da molte cellule e la percezione del
tempo è il risultato di una interazione dinamica tra di essi. Si pensa che questi
sistemi siano con maggior probabilità coinvolti nella percezione di intervalli
temporali nel range compreso fra le decine e le centinaia di millisecondi, mentre
si dimostrano inefficienti per compiti più complessi come ad esempio l’analisi del
linguaggio parlato. I Labeled Lines Models sono caratterizzati dalla presenza di un
ampio insieme di neuroni, ognuno dei quali risponde selettivamente per uno
specifico intervallo, e richiedono per ogni unità propietà temporali diversificate in
base al range temporale su cui esse sono sintonizzate. Esempi di tali proprietà
temporali sono gli oscillatori, le reazioni biochimiche lente come ad esempio il
recettore metabotropico per il glutammato, i potenziali inibitori lenti combinati
con eccitazione di rimbalzo, soglie variabili della cellula combinate con un livello
costante di integrazione sinaptica. Una conseguenza logica derivante da questo
tipo di modelli è che sia possibile agire sulla percezione temporale di un
determinato range di durate lasciando inalterati gli altri.
I “Population models” invece computano il tempo attraverso una rete neurale il
cui stato è variabile nel tempo, con la conseguenza che l'informazione temporale
è distribuita su tutte le unità senza che vi siano neuroni selettivi per range
temporali specifici nè le relative costanti di tempo previste dai Labeled Lines
Models.
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A causa del coinvolgimento di tutte le unità nell'elaborazione di tutti gli intervalli
questi modelli prevedono che non sia possibile alterare il giudizio in un dato
range temporale a prescindere dagli altri. Questi modelli possono essere
implementati a partire da proprietà neurali tempo dipendenti come la plasticità
sinaptica a breve termine o feed-back inibitori inseriti nella circuiteria locale
(Mauk-Buonomano 1994), che possono spostare la sintonizzazione dei neuroni
per intervalli diversi. Modelli di questo tipo sono stati proposti per simulare il
ruolo della corteccia cerebellare nella regolazione del timing che accompagna il
condizionamento di ammiccamento dell'occhio (l'ammiccamento condizionato
compare esattamente in corrispondenza del momento in cui è stato
somministrato lo stimolo condizionante).
Il terzo tipo di modelli, i “Clock Models”, si basano sulla presenza di orologi
interni in grado di effettuare il timing in maniera centralizzata. Un esempio di ciò
è il modello proposto da Meck alla metà degli anni 90 che indicava nei gangli
della base la sede della funzione del timing attraverso i neuroni “pacemaker”
dopaminergici situati nella substantia nigra, che rilasciavano impulsi a intervalli
periodici, e quelli ”accumulatori” nello striato che avevano la funzione di integrare
le afferenze ricevute, in modo analogo ad una “tazza posta sotto un rubinetto che
gocciola e accumula gocce d'acqua”(Bhattacherye).