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diverso da un semplice aggregato di individui e anche le caratteristi-
che che il singolo attribuisce al gruppo in questione…le persone che
formano un “gruppo”…”.
E’ evidente come il termine venga utilizzato per indicare l’esperienza
dell’individuo entro le organizzazioni di appartenenza, e come indica-
tore di una fantasia che genera una forma di regressione determinata
dalle difficoltà che si sperimentano nella relazione sociale e che si
manifesta con la negazione della realtà sociale come insieme di indi-
vidui e la comparsa di una entità o nozione mentale chiamata gruppo.
Ma che tipo di strumento rappresenta il gruppo e in quali casi esso può
divenire uno strumento per la prassi psicologico-clinica?
Per rispondere a tali quesiti, è necessario introdurre il concetto di “pa-
radigma del gruppo autoreferente”.
Tale concezione si fonda su due assunti fondamentali. Il primo si basa
sul concetto delle invarianti fenomenologiche che consentono di de-
finire il gruppo una situazione di rapporto sociale indipendentemente
dal contesto in cui si manifesta; il secondo assunto fa riferimento ai
modelli teorici di possibile utilizzo e puntualizza il fatto che indipen-
dentemente dal modello teorico utilizzato, le pratiche di gruppo ten-
dono a riprodursi in modo invariante rispetto ai contesti.
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Di conseguenza, poiché tali assunti puntualizzano il concetto di inva-
rianza del gruppo e variabilità delle teorie utilizzabili, danno al gruppo
la valenza di strumento-oggetto al pari degli strumenti-oggetti delle
tecnologie di trasformazione, cioè pensabile e definibile indipenden-
temente dal suo uso.
Ma probabilmente sarebbe più corretto definire il gruppo nell’ambito
degli strumenti-relazione in quanto le caratteristiche del gruppo e la
sua struttura relazionale variano in funzione del suo operare e quando
si pensa al gruppo, come quando si pensa a un colloquio, si pensa
sempre e comunque a quello che si fa in un contesto.
Quindi i gruppi altro non sono che la sintesi dei modi in cui viene vis-
suta e pensata la relazione sociale che, a sua volta, si definisce in base
a modelli organizzativi i quali regolano la struttura dei rapporti socia-
li definendo ruoli, funzioni e obiettivi secondo categorizzazioni del ti-
po vero-falso e corretto-errato, e modelli istituzionali che regolano la
gestione delle dinamiche motivazionali utilizzando simbolizzazioni af-
fettive secondo la logica del pensiero inconscio.
Ciò che avviene nei gruppi è il derivato di come gli attori sociali agi-
scono e gestiscono le loro relazioni organizzative e istituzionali.
Un fenomeno interessante è quello che Anzieu definisce “illusione
gruppale”.
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Egli sostiene che i membri del gruppo, spaventati dalle loro differenze
come risposta all’angoscia derivante da esse, strutturerebbero una
“funzione rinarcisizzante” che si esplicherebbe attraverso affermazioni
del tipo: "Stiamo bene assieme; il nostro è un buon gruppo ecc.”.
Nell’ambito del processo istituente che riconduce all’analisi della do-
manda, agli obiettivi e metodi di lavoro, il fenomeno dell’illusione
gruppale può assumere vari significati. Ad esempio può rappresentare
una manovra seduttiva attuata dai partecipanti in relazione ad una ipo-
tesi di lavoro proposta dallo psicologo oppure può essere una modalità
attuata dallo psicologo stesso per creare dei rapporti positivi tra i
membri del gruppo. Esso quindi rappresenta il momento in cui si strut-
turano le modalità per la gestione delle dinamiche organizzative e isti-
tuzionali e, considerando che la configurazione dello strumento-
gruppo varia in base al processo istituente la funzione che assume lo
psicologo clinico non è quella di “condurre gruppi”, ma di costituirli
in base all’analisi della domanda e all’interpretazione della stessa.
Inoltre il processo istituente è definito da quattro fattori fondamenta-
li:
1. la storia del soggetto che formula la domanda;
2. il contesto culturale dal quale derivano le modalità della rela-
zione clinica (modelli organizzativi e istituzionali);
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3. la configurazione sociale dell’operatore (singolo professionista
o rappresentante della struttura);
4. metodo di lavoro utilizzato per trattare la domanda.
Tramite la domanda rivolta allo psicologo il soggetto, esprimendo un
disagio, una sofferenza richiede un trattamento che sia funzionale ad
un cambiamento di stato e non dei modelli che supportano la doman-
da. L’ obiettivo che invece si propone lo psicologo clinico è quello di
intervenire tramite un trattamento che, intervenendo sulla relazione tra
problema e domanda, vada ad agire proprio sul cambiamento dei mo-
delli di adattamento in funzione di un’appropriata considerazione e
percezione-interpretazione dei propri problemi.
In riferimento al concetto di gruppo Fornari ne dà una definizione di
realtà psichica che nasce da un’esperienza di accomunamento (coino-
nia) spazio-temporale (storico) di più individui tra loro comunicanti,
in vista degli scopi più diversi. Egli parla dunque di anima comune
indicando con questa espressione l’insieme di fantasie inconsce con-
divise derivanti dai processi di identificazione proiettiva e/o introietti-
va. Il gruppo rappresenta per Fornari una realtà fantasmatica derivante
da processi di simbolizzazione affettiva, ma è anche un altro livello di
realtà, costituito da individui che interagiscono in specifici contesti
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spazio-temporali. Secondo tale teoria questa realtà si presenta come
una scena manifesta (realtà storica), che attiva la rappresentazione in-
conscia di una scena nascosta che, a sua volta, essendo costituita da
coinemi-significati generatori di significanti, produce la scena manife-
sta.
I gruppi quindi mettono in scena copioni familiari e la storia è prodot-
ta da tranfert familiari di codici affettivi. Fornari sostiene che la di-
stinzione tra buona e cattiva famiglia interna sia fondamentale per ca-
pire la genesi della patologia e, in particolar modo, di fondamentale
importanza è il modo in cui i genitori reali elaborano le angosce deri-
vanti da eventi relativi alla nascita e all’accudimento del bambino.
Se la famiglia esterna ha una buona capacità di contenimento di tali
angosce, questo atteggiamento produrrà una buona famiglia interna.
Fornari quindi attribuisce al gruppo una funzione pedagogica, in quan-
to esso si traduce come strumento avente la funzione di far rappresen-
tare nel gruppo un simulacro di buona famiglia esterna nell’intento di
far sorgere una buona famiglia interna
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2.1 Il gruppo in ambito psicosociale
In riferimento al gruppo considerato in ambito psicosociale è impor-
tante considerare le problematiche relative ai modi e metodi
d’intervento partendo da due considerazioni.
La prima si riferisce alla mancanza di una teoria della prassi vista co-
me un desiderio di intervento sul cambiamento sociale, la seconda è
relativa al fatto che la ricerca della prassi ha significato teorizzare sul
gruppo.
In tale contesto si inserisce l’attività di due istituzioni operanti in am-
bito psicosociale: l’Arip (associazione per la ricerca e l’intervento in
ambito psicosociale) di Parigi e il Tavistock Institute of human rela-
tions di Londra.
Il primo ha pubblicato sulla rivista “CONNEXIONS” , fondata nel
1972, i risultati delle sue ricerche, evidenziando problematiche quali
la prevalenza della prassi sulla teorizzazione; la difficile ma necessaria
concettualizzazione; l’inadeguatezza delle scienze umane relativa-
mente alla comprensione della realtà sociale; il rifiuto di una determi-
nata disciplina come riferimento e, infine, la centralità del cambia-
mento.
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Il problema del cambiamento ha riguardato prevalentemente gruppi -
organizzazioni-istituzioni e tale formula ritornerà insistentemente nel-
la produzione scientifica francese sul tema, la quale contiene
un’evidente eredità storica di matrice Lewiniana, tenendo conto pro-
prio dell’affermazione sostenuta da Lewin dell’esistenza di forme re-
lazionali tra persone regolate secondo modalità indipendenti dalle cir-
costanze storiche, economiche, metodologiche, che hanno istituito i
modi di relazione stessi.
Il gruppo viene considerato come unità base, realtà fenomenologia
data dalla relazione sociale e come strumento di ricerca e apprendi-
mento.
Lèvy, rappresentante significativo dell’ Arip, muove delle critiche sui
metodi e le pratiche della psicosociologia attuati fino a quel momento
attaccando la funzione che svolgevano i seminari i quali, in quel pe-
riodo, sembravano costituire più che un momento formativo, un pas-
saggio obbligato che non perseguiva alcuno scopo di acquisizione di
competenze e i cui partecipanti rappresentavano piuttosto una sorta di
massoneria.
Nel secondo decennio il fenomeno “gruppo” attraversa una crisi ri-
guardo al suo utilizzo. Esso viene considerato pericoloso, destabiliz-
zante e traumatizzante poiché causa di crisi emotive e, inoltre, si ritie-
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ne che l’esperienza di gruppo sia difficilmente trasferibile in altri con-
testi.
Per quanto riguarda la prima affermazione è possibile constatare co-
me, essendo l’emozione una caratteristica del pensiero, essa non possa
essere più o meno presente, e che la destabilizzazione non avvenga
quando le emozioni vengono agite, bensì quando vengono pensate.
Di conseguenza gli affetti possono essere considerati tanto una dimen-
sione spontanea e creativa, quanto temuti perché destabilizzanti, se
non addirittura eliminati, poiché ritenuti inessenziali nell’ambito della
“realtà vera”.
Relativamente alla seconda affermazione invece, bisogna sottolineare
come non sia possibile ripetere comportamenti corretti appresi “qui”
in un “altrove”, ma piuttosto ci siano esperienze da pensare che pos-
sono essere fatte anche in gruppo.
Un’ulteriore critica mossa da Levy riguarda la mancanza di innova-
zione nel gruppo di evoluzione il quale si è rivelato elemento conser-
vatore piuttosto che strumento innovatore.
Ci si scontra dunque, nuovamente, con la tematica del cambiamento
che rivela la necessità di legittimare la propria prassi; con la difficoltà
di teorizzare la tecnica e con il bisogno di una legittimazione sociale.
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Nel suo articolo del 1972 Levy fa riferimento al fatto che la domanda
sociale, pur essendo costitutiva dell’esperienza, è negata e messa tra
parentesi fin dall’iscrizione dei partecipanti e che non può essere né
evocata né trattata, in quanto tale, nel gruppo.
La tematica del cambiamento viene ripresa in maniera ancora più sen-
tita nel Settantotto. In tale periodo, mentre passa sullo sfondo la dina-
mica di gruppo e acquistano centralità i gruppi terapeutici, accanto
all’Arip sorgono movimenti che utilizzano metodi d’intervento forte-
mente politicizzanti.
Tali movimenti by-passano la psicosociologia sul piano dell’azione al
pari della sociopsicanalisi, basata sul fondamento ideologico secondo
cui il gruppo rappresenta una situazione di relazione che consente agli
appartenenti ad un gruppo omogeneo per competenze e gerarchie di
riconoscere la propria posizione di potere all’interno di una struttura.
I gruppi omogenei avrebbero una “pulsione collettiva spontanea” a
riappropriarsi del proprio potere alienato, ed ogni deviazione da que-
sto intento rappresenterebbe una regressione. Tale regressione, ad e-
sempio, si potrebbe verificare attraverso l’evocazione di vissuti proiet-
tivi, come il rivivere nel rapporto con “l’Autorità” il rapporto “bambi-
no-genitore”.
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L’inconscio rappresenta quindi il risultato della storia personale
dell’individuo, e quando la realtà di tale inconscio si manifesta nella
relazione sociale si parla di regressione fuorviante.
In questo senso, nel sociale non resta che agire.
Il problema della scissione tra individuo e relazione sociale viene ri-
preso nel 1983 da Enriquez, il quale sottolinea la contrapposizione tra
“desiderio dell’individuo” e “desiderio dell’organizzazione”, tentando
un’ipotesi del “creatore di storia”, secondo cui ci sarebbero persone
totalmente inserite nel tessuto sociale e persone che tentano di tra-
sformare il mondo parlando nel nome della verità, così come la pensa-
no. Rouchy, anch’egli esponente dell’Arip, parla dell’interiorizzazione
da parte dell’individuo dei valori della società.
L’individuo sembrerebbe incorporare idee e desideri non propri, ma
appartenenti al gruppo dominante e sottolinea che la maggiore pro-
blematica che si incontra nella consulenza corrisponde, paradossal-
mente, proprio alla paura di perdere idee non proprie che rappresenta-
no per l’individuo una fonte di sicurezza.
Il Tavistock, sempre in riferimento al rapporto committente-
consulente, pone l’attenzione sull’importanza di stabilire delle allean-
ze con interlocutori che abbiano autorità sufficiente e siano appoggiati
dal consenso, al fine di evitare il conflitto.