2
intangibili, cioè nella formazione delle risorse umane e nella ricerca,
indispensabili per velocizzare l’innovazione e innalzare la produttività dei
fattori impiegati. La sostanziale stazionarietà del PIL italiano sarebbe quindi,
per molti studiosi, causata dalla crisi di produttività indotta dalla prevalente
piccola dimensione. Se lo stallo della nostra economia traesse origine
unicamente dalla bassa produttività, e se la crisi di produttività fosse
riconducibile unicamente al fattore dimensionale, occorrerebbe chiedersi come
mai la crisi competitiva abbia colpito in misura maggiore le grandi imprese, e
come riescano a sopravvivere tante piccole imprese. L’enfasi sulla produttività,
richiamando le economie di scala tanto apprezzate in epoca fordista, appare
difficile da accettare come unica causa della stazionarietà del PIL in tempi,
come quelli correnti, in cui la quantità ha da tempo ceduto il passo alla qualità.
Forse lo svantaggio competitivo delle imprese italiane deriva non tanto
dall’inefficienza, espressa in termini di prodotto per unità lavorativa, quanto
dall’insufficiente valore aggiunto per addetto delle nostre produzioni. Il
contributo dell’industria italiana al progresso scientifico-tecnologico è ben al di
sotto della media europea e di quella giapponese
6
, anche a causa della spesa
(rapporto tra fatturato da esportazioni e fatturato totale) è stata pari al 25,8%, ma per le imprese con
meno di 20 dipendenti si scende all’11,8% del fatturato. Nel corso del 2003, anno a cui si riferisce
l’indagine, le imprese italiane dell’industria e dei servizi sono oltre 4,16 milioni di unità; occupano
15,7 milioni di addetti, realizzando un valore aggiunto di 575 miliardi di euro. L’analisi dei principali
aggregati economici conferma la presenza rilevante di imprese di piccole dimensioni e la relativa
scarsità di grandi imprese: la dimensione media delle imprese italiane è di circa 3,8 addetti. Le
microimprese (fino a 9 addetti) rappresentano il 94,9% del totale. In esse si concentra il 48% degli
addetti, il 24,9% dei dipendenti, il 29,6% del fatturato ed il 32,9% del valore aggiunto. All’opposto, le
imprese di maggiori dimensioni (con almeno 250 addetti) sono appena 3.140; assorbono il 18% del
totale degli addetti, con il 27,3% dei dipendenti, e realizzano il 28,9% del valore aggiunto
complessivo. Il valore aggiunto per addetto, pari in media a 36,5 mila euro, è in calo rispetto al 2002
(era 37,3 mila euro). Nelle imprese con meno di 10 addetti il valore di questo indicatore è circa il 43%
di quello delle imprese con almeno 250 addetti.
6
Nel 2004, solo il 36% del fatturato italiano proveniva da tecnologie alte e medio alte, contro il 47%
dell’Europa e l’86% del Giappone. Fonte: Coltorti, F., (2006), Tra governatori e cardinali: ricette
antiche per l’industria e nouvelle époque per le banche, in “Economia e politica industriale”, n. 3,
Franco Angeli, Milano, pp. 5- 24.
3
irrisoria in R&D
7
. A ben vedere, quindi, se l’economia italiana stenta a crescere,
il problema è da ricercarsi, innanzi tutto, nello scarso dinamismo delle grandi
imprese, piuttosto che nel diffuso nanismo aziendale. Questa tesi trova riscontro
nella performance positiva registrata, soprattutto a partire dal 1997 ed evidente
ancora oggi, di un nutrito gruppo di medie imprese che, ponendosi ad un livello
intermedio tra le piccole unità aziendali e le imprese multinazionali,
propendono per un posizionamento di nicchia, intercettando quella parte della
domanda complessiva che risulta non attrattiva per le imprese più grandi, poiché
la ristrettezza del mercato non consente rendimenti di scala, né si presta ad
essere soddisfatta dalle imprese più piccole, trattandosi di consumatori di fascia
medio-alta, che chiedono prodotti differenziati e di qualità. Certamente, un
limite delle nostre imprese è l’eccessiva specializzazione in attività tradizionali,
a bassa competitività sul mercato domestico e, ancor più oltreconfine e, se si
vuole che l’economia nazionale cresca ad un tasso più sostenuto, occorre che le
imprese italiane recuperino competitività sui mercati internazionali. Ma non
giova, in tal senso, produrre in maggiore quantità gli stessi beni realizzati dai
competitors: bisogna adottare un modello di specializzazione basato su un più
alto valore intrinseco dell’offerta. La specializzazione che si immagina, deve
interessare sia le PMI, organizzate in rete, sia le grandi imprese. Il vantaggio
competitivo potrà derivare, rispettivamente, da una superiore capacità di lettura
delle attese dei consumatori che si collocano nella fascia medio-alta del
mercato, o da produzioni ad alta intensità di ricerca
8
.
Nella piccola dimensione si individua, spesso
9
, anche la causa del basso livello
di internazionalizzazione produttiva delle imprese italiane. Se l’Italia può
vantare una buona vocazione all’export, la delocalizzazione produttiva è ancora
7
Sempre nel 2004, le multinazionali italiane destinavano il 2,9% del fatturato alla ricerca, contro il
4,6% del Giappone e della Germania, o il 6,4% della Svizzera, solo per citare alcuni esempi. Fonte:
ibidem.
8
In realtà la competitività delle grandi imprese potrebbe derivare, viziosamente, dal potere
oligopolistico sul mercato nazionale, che assicura rendite di posizione.
9
Si veda: Chiarvesio, M., Di Maria, E., Micelli, S., (2006), Strategie e modelli di
internazionalizzazione delle imprese distrettuali italiane, Economia e Politica industriale, n. 3, Franco
Angeli, Milano, pp. 99-126.
4
molto contenuta. Ciò potrebbe essere spiegato, in parte, dalle ingenti risorse
umane e materiali richieste per realizzare un investimento diretto estero, di cui
le imprese di piccola e media dimensione non dispongono. La crescita
dimensionale sarebbe, allora, precondizione per l’accesso ai vantaggi derivanti
dall’estensione dei mercati di riferimento e dalla distribuzione del processo
produttivo su scala globale. Tuttavia, le PMI italiane operano principalmente
all’interno dei distretti industriali: il basso livello di internazionalizzazione
produttiva delle imprese di piccola e media dimensione potrebbe, allora,
ricondursi alle modalità produttive e competitive tipiche dei distretti. Se il
modello distrettuale si pone come alternativa alla grande impresa, bisogna
attendersi dinamiche di crescita e di sviluppo diverse nei due casi. L’impresa
multinazionale è, per definizione, vocata all’internazionalizzazione
commerciale e produttiva, né potrebbe sopravvivere senza aprirsi a monte e a
valle rispetto ai mercati esteri. Le imprese distrettuali, al contrario, fanno del
forte radicamento territoriale la fonte del loro vantaggio competitivo, sul
mercato domestico come nelle nicchie globali. Le modalità e l’intensità del
processo di internazionalizzazione da esse attuato, non può che tener conto della
specificità del luogo che ne ha decretato il successo, e che crea la percezione di
inimitabilità delle loro produzioni. E’ evidente, allora, la preferenza accordata
all’internazionalizzazione di tipo commerciale e lo scarso ricorso agli
Investimenti Diretti Esteri (IDE), che restano prerogativa dell’impresa
«globale».
La crescita economica richiede stabilità finanziaria, per cui non può prescindere
dall’efficienza nelle scelte e nelle modalità di allocazione del credito. Questa
considerazione porta a riflettere sulle debolezze nel funzionamento dei servizi
finanziari, che dovrebbero facilitare l’accesso alle opportunità di crescita e alle
innovazioni da parte delle imprese industriali. L’inefficienza e l’inadeguatezza
dei servizi alle imprese, che sono, dal canto loro, già indebolite dalla forte
esposizione alla concorrenza internazionale, si traducono in esternalità negative
per il sistema economico italiano. La «cultura della rendita», nei servizi di
pubblica utilità come nei servizi finanziari, ha per lungo tempo ostacolato la
crescita competitiva delle imprese italiane, soprattutto di quelle più piccole. A
5
partire dagli anni Novanta, grazie al progresso scientifico-tecnologico, alla
globalizzazione dei mercati, nonché alla volontà espressa dalla Comunità
Europea di accrescere l’integrazione dei Paesi membri, si è attivato in tutte le
economie continentali, e quindi anche in Italia, anche se in ritardo rispetto ad
altri Paesi continentali, un intenso processo di revisione degli standard
competitivi. Un importante cambiamento è quello che ha interessato il mercato
del credito, divenuto più concentrato a seguito delle numerose operazioni di
fusione e acquisizione che si sono succedute. In Italia, l’integrazione tra istituti
bancari è iniziata nei primi anni Novanta, a seguito del processo di
liberalizzazione che ha interessato il settore. La Banca d’Italia, in realtà, ha
sollecitato tali operazioni di aggregazione, ritenendo che, attraverso la crescita
dimensionale, si potesse migliorare l’efficienza delle banche nazionali, incapaci
di competere sui mercati esteri a causa degli ingenti costi operativi, della
marcata incidenza delle sofferenze sugli impieghi e della scarsa redditività della
gestione. Anche se gli obiettivi di efficienza e competitività dell’Autorità di
Vigilanza risultano, ancora oggi, non pienamente conseguiti. Alcuni studiosi
10
sostengono, tuttavia, che la concentrazione tra banche può indurre effetti pro-
concorrenziali, nel momento in cui interrompe quei meccanismi collusivi che, in
passato, hanno consentito a istituti inefficienti, costretti a sopportare costi molto
elevati perchè incapaci di conseguire economie di scala e di diversificazione, di
rimanere sul mercato. La liberalizzazione, conducendo alla riduzione del
numero di banche e al contestuale aumento delle dimensioni medie degli
operatori del settore, avrebbe impedito il protrarsi di pericolose connivenze,
modificando la struttura industriale, promuovendo l’incorporazione, da parte di
grandi gruppi, delle banche meno efficienti, altrimenti costrette al fallimento, e
avrebbe in tal modo evitato la dissipazione del capitale informativo delle banche
minori. Uno svantaggio certamente riconducibile al processo di integrazione
bancaria è il drastico ridimensionamento del «localismo bancario», quella forma
di intermediazione del credito fatta di piccole banche, fortemente radicate nel
territorio e vicine alla comunità locale, che molta importanza hanno avuto in
10
Si veda, ad esempio, l’articolo di Grillo “Politica della concorrenza e altre priorità” dell’11/01/2005,
disponibile sul sito: www.lavoce.info.it.
6
passato, soprattutto nel Mezzogiorno, per la nascita e la crescita delle piccole
imprese, e per il finanziamento di imprenditori con tante idee e pochi mezzi per
realizzarle. Le condizioni strutturali, organizzative e di operatività di tali
banche, le rendono perdenti nel confronto competitivo con i grandi gruppi
bancari, e ne fanno facile obiettivo nelle iniziative di espansione territoriale.
La stabilità finanziaria, di cui le imprese italiane necessitano per crescere nel
mercato globale, è legata anche alla dimensione patrimoniale delle banche.
Come tutte le imprese, anche le banche sono soggette al rischio di default;
l’eventuale fallimento di un istituto bancario, però, comporta conseguenze ben
più gravi rispetto al fallimento di un’impresa non finanziaria, con effetti
devastanti sul sistema imprenditoriale, ed economico in generale. Per questo
motivo, tanta importanza assume il capitale che la banca pone a presidio del
rischio. Entra di diritto nel nostro ragionamento, a questo punto, la nuova
disciplina interbancaria sui requisiti patrimoniali, contenuta negli accordi di
Basilea. Basilea 2 nasce per migliorare la coerenza tra la dotazione patrimoniale
delle banche e il rischio (operativo, di credito e di mercato) atteso dall’attività
posta in essere.
Ora, malgrado le rassicurazioni che provengono dal mondo bancario, le
preoccupazioni sollevate da molti esponenti del sistema imprenditoriale italiano
non appaiono del tutto prive di fondamento. Le condizioni di affidamento alle
imprese dipendono dall’entità dell’accantonamento prudenziale richiesto alla
banca per ogni singolo impiego. Fin qui nulla di nuovo. Ciò che Basilea 2 ha
rivisto è la modalità di determinazione del rischio di credito, da cui dipende
quella parte del coefficiente di solvibilità della banca che incide direttamente
sulle condizioni del prestito. Il Nuovo Accordo prevede che la qualità dei
clienti, quindi la loro capacità di rispettare le obbligazioni contratte nei
confronti della banca, sia sintetizzata in un rating, elaborato da agenzie esterne
o direttamente dalle banche. Della valutazione esterna, dati i costi, potranno
beneficiare, al più, le grandi imprese multinazionali. Il rischio, in tal caso, è che
si ripetano gli errori del passato, che ci sia ancora spazio per comportamenti
collusivi tra banche, imprenditori e società di rating che, in tempi non lontani,
hanno condotto a crack finanziari di enorme portata, dalle conseguenze
7
drammatiche per la collettività (si pensi al caso Cirio o al più recente caso
Parmalat). Il rating interno dipenderà, invece, dalla capacità di analisi e sintesi
degli operatori di banca addetti alla valutazione dei clienti, che si avvarranno di
sistemi e modelli elaborati internamente e accreditati dalla Banca d’Italia. Ci si
chiede, a questo punto, se le banche italiane abbiano acquisito le competenze
richieste per stimare in maniera adeguata ed efficace il merito di credito, se il
rating interno possa interpretare correttamente la qualità della clientela, se i
software predisposti per stimare il rischio siano adeguati, dovendo restituire un
numero che sintetizza tutte le dimensioni aziendali coinvolte nel processo di
valutazione. Ma, al di là dei dubbi sull’efficienza delle banche e sull’efficacia
dei sistemi di valutazione adottati, gli effetti di Basilea 2 sul rapporto banca-
impresa dipenderanno, in larga misura, dall’orientamento che le banche
vorranno adottare, improntato a maggiore o minore prudenza rispetto al passato.
Infatti, la banca che voglia accrescere la propria solidità patrimoniale,
coerentemente con i dettami dell’Accordo, adotterà una politica più
intransigente e restrittiva e, a parità di rischio, accrescerà l’accantonamento, con
conseguente riduzione del credito all’impresa. Viceversa, la banca più elastica,
che propenda per una politica più permissiva, tenderà a sovrastimare il merito
del cliente, a parità di rischio rispetto al passato, e accantonerà minori risorse a
fini prudenziali. Il rischio, in tale ipotesi, è che ci si allontani ulteriormente
dagli obiettivi di solidità e stabilità posti alla base dell’Accordo. Basilea 2 è
un’importante occasione per riflettere sulla centralità del rapporto tra il sistema
bancario e il sistema imprenditoriale, e sul peso di questa relazione per lo
sviluppo del Paese. Oggi le nostre imprese, le grandi come le piccole, vivono in
un ambiente in continua evoluzione. Il mercato globale impone di stare
incessantemente al passo della modernizzazione. Ciò significa che si devono
avviare, espandere, rilanciare le attività imprenditoriali, si deve innovare,
rischiare, senza indugiare sull’opportunità di rinviare gli investimenti richiesti,
ma perché ciò sia possibile è necessario disporre di adeguate fonti di
finanziamento. In questa fase, le imprese hanno bisogno di un sistema
finanziario moderno, in grado di affiancarle e sostenerle nella definizione di
strategie innovative. Questo significa che, oltre alle imprese, anche il sistema
8
bancario si trova obbligato ad un percorso di innovazione, di modernizzazione e
di razionalizzazione.
Dalle considerazioni finora svolte, risulta quanto sia semplicistico, e per
questo fuorviante, attribuire unicamente al basso indice di produttività delle
imprese la responsabilità del declino dell’economia italiana. In un sistema
economico evoluto, banche e imprese devono percorrere la stessa strada, quella
dell’efficienza nella produzione e nella distribuzione, e della qualità
dell’offerta. Le imprese torneranno ad essere competitive solo quando porranno
il cliente al centro di ogni decisione, quando riusciranno a conquistarne la
fiducia, a mantenerla e sedimentarla nel tempo. Le banche si orienteranno
concretamente all’efficienza solo quando sentiranno “sul collo” le pressioni
della concorrenza, che espelle dal mercato chi non è all’altezza del ruolo che
ricopre. Solo quando saranno ripristinate le condizioni per uno sviluppo
virtuoso, l’economia italiana potrà riprendere la via della crescita, con imprese
tecnologicamente avanzate e market-oriented, e con un sistema bancario
efficiente e specializzato, capace di fornire servizi adeguati a sostegno della
crescita e dell’apertura delle imprese.
Si tratta di un percorso non facile, che tutti gli interlocutori che compongono il
micro e il macro ambiente in cui si muove l’impresa sono chiamati a
promuovere e supportare, operando in sinergia. Alle banche compete la
responsabilità di finanziare la crescita delle imprese, predisponendo e
proponendo strumenti ad hoc per ogni tipologia di intervento, che favoriscano la
patrimonializzazione e il riequilibrio finanziario dell’impresa. Dovranno indurre
nelle imprese e nel loro management una cultura basata sulla consapevolezza
che la leva finanziaria è uno strumento strategico per uno sviluppo regolare ed
equilibrato del business aziendale.
Il presente lavoro si chiude con un’indagine diretta sul territorio distrettuale di
Solofra, volta a verificare, mediante analisi campionaria condotta su 10 imprese, cui
si affianca l’intervista a 5 banche, le caratteristiche del rapporto banca-impresa
nell’area, nonché il grado di efficienza conseguito dagli istituti bancari che operano
nel distretto, espresso, tra l’altro, dalla capacità di rispondere tempestivamente alle
richieste del mercato locale del credito, dall’adeguatezza dei servizi predisposti e
9
dalla sensibilità mostrata verso le specifiche esigenze della comunità locale. Il
campione su cui è stata condotta l’indagine, formato per estrazione casuale, si
presenta eterogeneo per forma giuridica e dimensioni delle imprese, in modo da
rispecchiare, per quanto consentito dal criterio della casualità, la disomogeneità e la
frammentazione esistenti all’interno del distretto. Riguardo alla forma giuridica, su
10 imprese:
- 8 sono società di capitali (più precisamente, 3 sono S.p.A. e 5 sono S.r.l.)
- 2 sono S.n.c.
Per quanto concerne, invece, il numero di addetti, proxy del profilo dimensionale: - 3
unità, tutte S.r.l., sono microimprese (fino a 9 addetti)
- 4 unità, equamente ripartite tra società di persone e società di capitali, sono piccole
imprese (meno di 50 addetti)
- 3 sono medie imprese (tra 50 e 249 addetti), di cui 1 S.r.l. e 2 S.p.A.
L’indagine è stata condotta mediante un questionario, sottoposto a tutte le imprese
del campione e a tutte le banche operanti nel capoluogo del distretto. L’analisi sul
campo, come vedremo, conferma solo in parte le ipotesi formulate dalla teoria, a
dimostrazione della necessità di legare ogni osservazione alla specificità dei contesti
di riferimento, evitando pericolose generalizzazioni.