Le società di calcio professionistiche: evoluzione economica e crisi di settore nei bilanci delle principali società italiane
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Questa tendenza, voluta dai più forti perché capace di rafforzarli ulteriormente, sta calpestando
non solo i valori sportivi ma anche quelli etici, rischiando, per un puro senso d’avidità e
d’incoscienza, di eliminare la sua materia prima: il calcio in sé, nella sua credibilità e nella sua
bellezza, capace di appassionare e far discutere.
A mio avviso è inquietante, ma spietatamente realista, la definizione che l’ex presidente della Lega
Calcio, nonché Amministratore delegato del Milan, Adriano Galliani, dà del calcio moderno: “Le
squadre sono aziende. La cosa più vicina al calcio è una major che produce film. La partita è una
pellicola che dura novanta minuti. Lo stadio è la sala cinematografica. Lo sfruttamento tivù è
pressoché analogo a quello di un film. Attorno al film vanno poi create attività collaterali: i miei
modelli di sviluppo sono la Warner e la Walt Disney. In quel senso io sviluppo il Milan.”.
Attraverso questa tesi voglio, da sportivo e tifoso, cercare di capire, comprendere attraverso gli
occhi dell’economista, il perché di tutto questo, le sue cause e le sue prospettive.
Come tutti mi sono indignato l’estate di un paio d’anni or sono sentendo i padroni del pallone
chiedere lo stato di crisi al governo, come se il pallone fosse la Fiat o un comune alluvionato;
siamo davvero caduti così in basso?
E dire che telefonini e internet a parte, nessun settore dell’economia italiana è cresciuto tanto negli
ultimi anni, nessuno ha tassi di sviluppo paragonabili a quelli del calcio.
Chi o cosa ha innescato questa gigantesca depressione economica? Come può un’industria da 6.2
miliardi di euro annui, capace di produrre 1.4 miliardi di fatturato diretto consolidato, essere in
perdita costante?
Dove stanno le colpe? Dov’è che tutto è iniziato? Dov’è che finirà? E soprattutto, cosa si può fare
per non disintegrare questo giocattolo?
Si può realmente pensare di assoggettare il movimento calcistico a regole ferree d’organizzazione
economica, programmazione estrema, serietà e oculatezza negli investimenti? Regole che non
sembrerebbero adatte per le qualità fondanti di un gioco che, seppure richiama a strutture
gestionali sempre più manageriali, ha ancora una forte componente passionale in sé che male si
adatta con la struttura di quelle società quotate in borsa.
Il calcio italiano non è mai stato un esempio di buona amministrazione, anzi, si può dire che
rappresenti uno dei più grossi casi di mismanagement degli ultimi cinquanta anni, dopo chimica e
siderurgia.
Quasi mezzo secolo fa un articolo sportivo, criticando i metodi mecenatisti di gestione delle società
calcistiche, miranti per lo più a raggiungere un qualche vantaggio personale, titolava: “È una cosa
seria il calcio italiano?”. Oggi possiamo dire che il calcio è diventato una cosa seria,
tremendamente seria.
Società di calcio professionistiche: evoluzione giuridica del settore
Capitolo 1
Società di calcio Professionistiche:
evoluzione giuridica del settore
Questo primo capitolo analizzerà l’evoluzione nel mondo del calcio dal punto di vista legislativo,
economico e organizzativo, ponendo maggiore riguardo al caso italiano. Si studieranno le principali
riforme normative che a partire dal 1966 ad oggi hanno portato all’introduzione del professionismo
e del fine lucrativo nel sistema calcistico, consentendo la quotazione in borsa dei club.
Si osserveranno le importanti conseguenze che la Sentenza Bosman ha prodotto nell’ambito
economico e gestionale delle società, avendo un particolare occhio di riguardo per le ripercussioni
sui bilanci di queste ultime.
Infine si dedicherà attenzione alle dinamiche più recenti, fatte di leggi e regolamenti ad hoc per
salvaguardare il mondo calcistico dal tracollo, e tutelare gli interessi sportivi ed economici di tifosi
e investitori.
Le società di calcio professionistiche: evoluzione economica e crisi di settore nei bilanci delle principali società italiane
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Società di calcio professionistiche: evoluzione giuridica del settore
3
1 La legge n. 91 del 23 marzo 1981
“La Federazione Italiana Giuoco Calcio riconosce come “società” tutti gli enti a struttura
associativa che, indipendentemente dalla forma giuridica adottata, svolgono l’attività sportiva del
giuoco del calcio”, questo quanto si legge nell’art. 14 delle NOIF (Norme Organizzative Interne
della F.I.G.C.) che delinea il campo di applicazione di predette norme organizzative e di ogni altra
disposizione avente efficacia nell’ambito della F.I.G.C.
Per le società di calcio professionistiche, come per tutte le società sportive professionistiche, vige
l’obbligo della forma giuridica di S.p.a. o S.r.l. imposto dalla legge n. 91 del marzo 1981. Ad onor
del vero, occorre precisare che le società calcistiche sono state le prime associazioni sportive a
trasformarsi in società di capitali.
Già nel 1966, infatti, la F.I.G.C., resasi conto della crescente importanza economica e finanziaria
che andava assumendo il settore calcistico, dispose, attraverso propria delibera datata 16 settembre
dello stesso anno1, lo scioglimento d’autorità dei consigli direttivi delle, allora, associazioni
calcistiche professionistiche2 e la nomina di un commissario straordinario che procedesse in primis
alla liquidazione delle associazioni medesime e in un secondo momento alla loro ricostituzione
sotto forma di società per azioni. L’iniziativa fu oggetto di aspre critiche da parte di tutto il mondo
giuridico. In particolare tanto il Consiglio di Stato quanto la Corte Suprema lo ritennero un
comportamento del tutto illegittimo, lesivo delle posizioni di diritto soggettivo delle associazioni
affiliate, rilevando come lo scioglimento di un ente privato (in questo caso le società calcistiche)
“[…] non può essere imposto dalla F.I.G.C. ma piuttosto è una sanzione del tutto eccezionale che
deve trovare necessariamente nella legge la sua specifica determinazione”3.
Per sanare questa situazione illegittima si adottarono, allora, due diversi comportamenti:
1) l’adozione di una delibera di scioglimento delle vecchie associazioni e successiva
ricostituzione delle nuove società ad iniziativa dei membri delle liquidate associazioni;
1
A garanzia della salvaguardia dei fini sociali la FIGC fissò ed impose alle medesime società in una successiva delibera
del 16 dicembre 1966 un modello da seguire per la stesura dello statuto societario, includendo l’obbligo dell’assenza del
fine di lucro (alle società calcistiche veniva riconosciuta la possibilità di un lucro oggettivo, ma non di uno soggettivo,
cioè, potevano realizzare un utile di bilancio che non era tuttavia possibile ridistribuire tra i soci). Gli obiettivi
perseguiti dalla Federazione mediante questa implementazione erano essenzialmente quelli di una definizione delle
responsabilità degli attori delle società, l’imposizione del rispetto di omogenee direttive gestionali e delle disposizioni
in materia societaria e fiscale.
2
Prima del riordinamento del 1966 non esisteva, infatti, nel calcio il concetto di società bensì quello di “associazioni
calcistiche professionistiche”. Tutti i club si presentavano come “associazioni non riconosciute” disciplinate dagli artt.
36, 37 e 38 del Libro I del Codice civile. L’associazione non riconosciuta rappresentava lo strumento giuridico ideale
per lo svolgimento dell’attività sportiva nelle varie discipline poiché soggetta ad una regolamentazione legislativa
essenziale che consentiva grande libertà contrattuale agli associati per la definizione dei criteri e delle modalità
dell’attività. A. Tanzi, “Le società calcistiche - implicazioni di un gioco”, pag. 22, Giappichelli Editore 1999.
3
Cass. Civ., SS. UU., 29 giugno 1968, n. 2028 e Cons. di Stato, 4 luglio 1969, n. 354, in M. Masucci, “Le società
calcistiche”, Cacucci Editore, Bari 1983.
Le società di calcio professionistiche: evoluzione economica e crisi di settore nei bilanci delle principali società italiane
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2) l’adozione di una delibera di trasformazione in S.p.A. o in società a responsabilità limitata,
senza un precedente atto di scioglimento, delle associazioni4.
Ma il permanere dell’esigenza di un fondamento giuridico, unita alla considerazione del fatto che la
riforma del 1966 non aveva prodotto gli effetti sperati5, spinsero il legislatore a elaborare una serie
di disposizioni per risolvere definitivamente le difficoltà, soprattutto gestionali e di bilancio,
incontrate dai club calcistici nell’esercizio della loro attività.
Fu così che vide la luce la legge 91 del 23 marzo 1981, una legge pensata essenzialmente per il
calcio e non, come voleva farsi intendere, per lo sport professionistico in genere (non a caso, i
problemi che la legge stessa era intesa a risolvere risultavano difficilmente riscontrabili in numerosi
altri sport professionistici).
Recependo nella sostanza i principi già accolti nello statuto tipo della F.I.G.C. del 1966, si impose a
tutte le associazioni sportive che impiegavano atleti professionisti la forma della società per azioni o
della società a responsabilità limitata6, modificata nella sua disciplina da alcune disposizioni
contenute nella legge stessa7. La scelta d’imporre la forma tipica delle società di capitali trova
ragione nella legislazione che caratterizza questa particolare tipologia di società. Esse
rappresentano, infatti, la soluzione più idonea per assicurare un adeguato sistema di controlli agli
importanti interessi economico-sociali che hanno coinvolto, e coinvolgono tutt’ora, in misura
sempre crescente le società sportive8. Oltre a quelli stabiliti in via generale dal Codice civile, per le
società calcistiche si venivano ad aggiungere un ulteriore sistema di controlli e vincoli da parte delle
federazioni sportive, sia in sede di costituzione che durante la vita della società, nell’intento di
assicurare una più cauta amministrazione nonché una maggiore possibilità di controllo da parte
delle autorità sportive competenti9 (ad esempio, l’art. 10 comma 1 della l. 91/8110 impone, in deroga
4
Questa seconda soluzione è di dubbia legittimità in quanto il nostro ordinamento non ammette le delibere di
trasformazione se non nell’ipotesi per il passaggio di un tipo di società ad un’altra. Diversamente, nel caso di specie, la
forma giuridica del soggetto che doveva trasformarsi era di natura associativa.
5
Il disavanzo complessivo delle società di A e B passò dai 18 miliardi del 1972 agli 86 del 1980 .
6
Come sancito nella prima parte del primo comma dell’art. 10della l. 91/81: “Possono stipulare contratti con atleti
professionisti solo società sportive costituite nella forma di società per azioni o di società a responsabilità limitata […]”.
L’istituzione di tale vincolo di forma obbligò, nei fatti, tutte le associazioni sportive che avevano in corso rapporti con
atleti professionisti, o che avessero inteso instaurarli, a trasformarsi assumendo le vesti di S.p.a. o S.r.l. entro un anno
(termine stabilito nel primo comma dell’art. 17) dall’entrata in vigore della citata legge.
7
I principali cambiamenti che tale legge apportò riguardarono lo status del calciatore professionista ed alcune
modificazioni della disciplina contenuta nel Codice civile riguardanti sia la posizione dei soci che la struttura della
società. . Se, da una parte, si voleva dare alle società professionistiche una veste formale di società a base capitalistica,
dall’altro si era manifestata l’esigenza di non applicare in toto le regole previste dal codice per le medesime.
8
Il problema che si voleva risolvere con la legge non era soltanto quello di legittimare l’adozione della clausola non
lucrativa per una società che avrebbe dovuto fare del lucro il suo unico fine, ma anche quello di assecondare
l’aspirazione del CONI di sottoporre al controllo degli organi sportivi la gestione economica e finanziaria delle società
del settore professionistico.
9
È doverso ricordare che la F.I.G.C. ha istituito un apposito organo di vigilanza e controllo sulle società, la Co.Vi.So.C.
(Commissione per la vigilanza delle società di calcio), per le cui competenze si rimanda al paragrafo 4: “I controlli della
Co.Vi.So.C.”.
10
Articolo così modificato dal D.L. 485/1996 di cui si parlerà in seguito.
Società di calcio professionistiche: evoluzione giuridica del settore
5
all’art. 248811 del codice civile, l’obbligo di nomina nell’atto costitutivo del collegio sindacale
anche per quelle società che si costituiscono come S.r.l.).
Unitamente all’imposizione dell’obbligo di forma, la rivoluzione maggiore apportata dalla l. 91/81
riguardò la disciplina dello status del lavoratore sportivo professionista e il relativo inquadramento
nell’ambito dei contratti di lavoro subordinato12.
Fino all’entrata in vigore della legge 91/81 non è stato chiaro come qualificare questo genere di
rapporto; i dubbi sono stati alimentati soprattutto dalla riconosciuta atipicità del rapporto di lavoro
sportivo, elementi come l’obbligo per i propri tesserati a partecipare a ritiri programmati pre-
stagione o pre-partita sono situazioni particolari che non è possibile riscontrare in alcun tipo di
lavoro dipendente, ed anche per quel che concerne gli aspetti più formali sussistono regole
particolari del tutto atipiche: nel calcio è fatto obbligo, a pena di nullità, della stipula per iscritto del
contratto13, obbligo che non sussiste rigorosamente per ogni altra federazione sportiva italiana.
Nonostante queste particolarità, occorre dire che la giurisprudenza aveva già riscontrato, quali
preponderanti, gli elementi tipici di un contratto di lavoro subordinato (esclusione da ogni rischio
d’impresa, continuità del rapporto, esistenza di un vincolo di subordinazione, onerosità della
prestazione, inserimento di un’organizzazione di mezzi altrui, soggezione al potere disciplinare del
datore di lavoro) ma è stata solo la legge 91/81 a sancirne definitivamente la natura.
È, infatti, per mezzo di questo provvedimento che la disciplina del rapporto di lavoro tra sportivi
professionisti14 e società sportive è stata ricondotta nell’ambito dell’ordinamento generale dello
11
L’art. 10 comma 1 della legge 91/81 dispone l’obbligo di istituire in ogni caso il collegio sindacale prescindendo da
quanto previsto nel codice civile per le altre società, che sono obbligate ad istituire tale organo unicamente:
1) in presenza di un capitale sociale non inferiore a duecento milioni di lire;
2) con il superamento, per due esercizi consecutivi, di due dei limiti stabiliti nell’art. 2435-bis.
12
Una parte della giurisprudenza ritiene più opportuno parlare di un lavoro subordinato atipico (lavoro sportivo),
soggetto esclusivamente alle norme di cui alla citata legge n. 81/91. Ciò in ragione delle anomalie che caratterizzano il
contratto di lavoro sportivo: in primo luogo il fatto che la validità dei contratti individuali risulta condizionata
all’approvazione di un terzo (e cioè della Federazione sportiva coinvolta); poi, che si prevede la possibilità di cessione
degli stessi contratti individuali (a termine) tra due società, pur con il consenso dello sportivo interessato,
implicitamente dietro versamento di congrui compensi; inoltre il fatto che, se il trasferimento avviene invece alla
scadenza del contratto da questo scaturisce un’indennità di preparazione e promozione determinata in base a precisi
parametri; ed ancora che all’indennità di anzianità (ora al trattamento di fine rapporto) si sostituisce l’accantonamento
dell’indennità di fine carriera sportiva, effettuato presso fondi comuni costituiti presso le stesse Federazioni, ma
vincolato a determinati massimali. Alle richiamate connotazioni, con tutta evidenza ben poco compatibili con gli schemi
ordinari del lavoro subordinato, aggiungiamo anche che la stessa legge elenca una nutrita serie di norme a carattere
inderogabile che invece non trovano applicazione al lavoro sportivo. A. Mastri Flamini, “Il fallimento delle società
sportive”, liberamente tratto dal sito www.rdes.it
13
Nell’art. 2 dell’accordo collettivo concernente il contratto tipo tra calciatori professionisti e società sportive è
stabilito: “Il rapporto tra il calciatore professionista e la società si costituisce con la stipulazione di un contratto che, a
pena di nullità, deve essere redatto in forma scritta e firmato dal legale rappresentante della società e dal calciatore
professionista”.
14
In base all’art. 2 della legge n. 91/81 sono “sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnici-sportivi ed
i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle
discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le
norme emanate dalle Federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione
dell’attività dilettantistica da quella professionistica”.
Le società di calcio professionistiche: evoluzione economica e crisi di settore nei bilanci delle principali società italiane
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Stato e sottratta a quegli enti di natura sportiva, quali il CONI e le Federazioni sportive nazionali,
che in precedenza avevano regolamento la materia con ampia autonomia discrezionale, a dispetto
degli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali15.
All’art. 3 della suddetta legge si stabilisce, infatti, che: “La prestazione a titolo oneroso dell’atleta
costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato…”16, disciplinato, dunque, dagli artt. 2094 e
seguenti del codice civile.
Un ulteriore aspetto fondamentale del rapporto tra atleta professionista e società sportiva sul quale è
intervenuta la l. 91/81 concerne l’abolizione del vincolo sportivo17.
Il vincolo costituiva il tratto più caratteristico del rapporto tra sportivo professionista e società
sportiva18. Esso era l’espressione dell’attribuzione, ad una società sportiva, del diritto di
utilizzazione esclusiva delle prestazioni di un giocatore.
Nella sostanza le società avevano, per mezzo del vincolo, un’ampia capacità discrezionale ed una
indiscutibile posizione di forza nella gestione del contratto con il giocatore, che non poteva recedere
unilateralmente dall’accordo e doveva, nei fatti, subire le decisioni del club circa il suo
trasferimento ad altra società19.Attraverso l’abolizione del vincolo sportivo si realizzò, nei fatti, il
passaggio da una disciplina in cui il calciatore non poteva disporre in nessun modo del proprio
cartellino ad un regime contrattualistico.
Il calciatore non più considerato come un “bene” da scambiare tra le società, ma un “soggetto
giuridico” a se stante, libero di offrire le proprie prestazioni e di far valere la propria forza
contrattuale nei confronti della controparte (anche perché tutelato in ciò, ora, dall’Associazione
Italiana Calciatori20).
15
S. Oronzo, M. Caselgrandi, M. Di Marco, D. Tupone, “Manuale dello sport”, Ed. FrancoAngeli, 2004, p. 177.
16
Lo stesso articolo, inoltre, prevede la possibilità, a dir vero molto remota per le società che operano nell’ambito
professionistico, di avvalersi di lavoro autonomo configurando il rapporto sottostante il calciatore professionista e la
società sportiva come tale qualora ricorra almeno uno dei requisiti previsti:
a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate
in un breve periodo di tempo;
b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od
allenamento;
c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali o
cinque giorni al mese o trenta giorni ogni anno.
17
Secondo quanto previsto nel primo comma dell’art. 16 legge 91/81: “Le limitazioni alla libertà contrattuale dell'atleta
professionista, individuate come "vincolo sportivo" nel vigente ordinamento sportivo, saranno gradualmente eliminate
entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, secondo modalità e parametri stabiliti dalle
federazioni sportive nazionali e approvati dal CONI, in relazione all'età degli atleti, alla durata ed al contenuto
patrimoniale del rapporto con le società”.
18
Da non confondere con il tesseramento, ovvero il rapporto intercorrente tra giocatore e Federazione.
19
Non essendo previsti casi di rescissione, il club di appartenenza, per fare accettare al giocatore le proprie scelte in
termini di trasferimento dell’atleta stesso, era in possesso di “armi psicologiche” molto forti come, ad esempio,
l’esclusione dell’atleta dall’attività agonistica.
20
Associazione fondata nel 1968 per iniziativa di un gruppo di giocatori (Bulgarelli, Mazzola, Rivera, Castano, De
Sisti, Losi, Mupo,Sereni, Corelli e Sergio Campana) al fine di tutelare al figura del calciatore.
Società di calcio professionistiche: evoluzione giuridica del settore
7
Tuttavia, non si raggiunse l’obiettivo dichiarato di eliminare la distorsione causata dal vincolo, ciò
perchè il legislatore ritenne necessaria l’adozione di una forma di indennizzo a tutela dei patrimoni
dei club, trovatisi, improvvisamente, con un potere contrattuale fortemente diminuito21.
L’introduzione di quest’onere patrimoniale, nominato “indennità di preparazione e di
promozione”22 prese, nei fatti, il posto dell’abrogato vincolo sportivo originando un nuovo, ulteriore
legame tra società e calciatore, e limitando, in tal modo, la libertà di scelta di quest’ultimo23.
Infatti, le società che intendessero garantirsi le prestazioni di un calciatore in scadenza di contratto,
e perciò svincolato, avrebbero dovuto pagare un indennizzo che poteva essere anche molto
elevato24, soprattutto per i calciatori di prima fascia25, cosicché le possibilità di scelta della nuova
destinazione per l’atleta libero erano vincolate a quei club disposti a versare l’indennizzo alla
vecchia società di appartenenza.
Il fatto che l’Ordinamento Italiano abbia deciso, con la legge 23 marzo 1981, la qualifica di
lavoratore subordinato in particolare per il calciatore, e in generale per l’atleta professionista, se da
un lato ha posto fine ad un periodo di incertezza dall’altro ha fatto, per alcuni aspetti, quanto di
peggio si potesse pensare e realizzare innescando una serie di reazioni a catena che non hanno
ancora cessato di verificarsi.
È in questo contesto che si inserisce, infatti, il problema della cessione dei contratti di lavoro e di
libera circolazione dei calciatori che, a questo punto, devono trovare soluzione all’interno della
legislazione vigente nazionale ed internazionale del lavoro, ed è sempre in questo contesto che trova
origine la questione Bosman che verrà meglio analizzata nel prossimo paragrafo.
21
Scopo dell’indennità era quello di reintegrare i costi sostenuti dal club cedente per la crescita sportiva, agonistica e di
immagine del giocatore e risarcire la società per il fatto che si privava delle sue prestazioni.
22
L’art. 6, primo comma, della legge 91/81 nella sua formazione originale recitava appunto: “Cessato, comunque, un
rapporto contrattuale, l’atleta professionista è libero di stipulare un nuovo contratto. In tal caso, le federazioni sportive
nazionali possono stabilire il versamento da parte della società firmataria il nuovo contratto alla società sportiva titolare
del precedente contratto di un’indennità di preparazione e di promozione dell’atleta professionista, da determinare
secondo coefficienti e parametri fissati dalla stessa federazione in relazione alla natura ed alle esigenze dei singoli sport
23
Somma di denaro dovuta in caso di trasferimento del giocatore, alla scadenza del contratto che legava società e
calciatore, dalla squadra acquirente dello stesso.
24
Il corrispettivo da pagare per la cessione non poteva essere superiore all’importo dell’indennità che, determinata in
base a coefficienti e parametri stabiliti dalle varie federazioni sportive, doveva essere totalmente reinvestita nel
perseguimento di finalità sportiva. Per le società calcistiche la procedura per il calcolo dell’indennità era prevista
dall’art. 98 delle NOIF, secondo il quale il parametro base era rappresentato dalla media degli emolumenti globali lordi
e dei premi corrisposti dalla società nelle ultime due stagioni sportive (o nell’ultima stagione in caso di contratto
annuale). Questo parametro doveva poi essere moltiplicato per un coefficiente diversificato a seconda dell’età
anagrafica del calciatore al momento in cui si stipulava il nuovo contratto e a seconda della categoria di appartenenza
della società con la quale lo stesso calciatore aveva in corso il precedente contratto, nonché di quella con la quale
stipulava il nuovo accordo.
25
Essendo gli stessi probabilmente titolari di stipendi molto onerosi che, essendo come si è visto base per il calcolo
dell’indennità, davano luogo a indennizzi assai cospicui.
Le società di calcio professionistiche: evoluzione economica e crisi di settore nei bilanci delle principali società italiane
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2. La Legge Bosman: l’impatto sui bilanci e sulla gestione
La sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea datata 15 dicembre 1995,
comunemente conosciuta col nome di “Sentenza Bosman”, ha sancito l’illegittimità
dell’attribuzione di compensi alle società sportive in occasione del passaggio degli atleti da una
società ad un’altra nel caso in cui il contratto dello stesso fosse giunto a scadenza26.
Prima di analizzare nello specifico cosa la sentenza Bosman ha prodotto nei bilanci delle società
sportive professionistiche, occorre sottolineare come questo verdetto della Corte di Lussemburgo
abbia ribaltato i rapporti di forza nel mondo del calcio. I calciatori, liberi di cambiare maglia alla
scadenza del rapporto d’impiego e senza che alla vecchia società debba più essere corrisposta
alcuna indennità, dispongono adesso di un’arma contrattuale in più nei confronti dei loro datori di
lavoro. La minaccia di perdere un giocatore importante ha, infatti, spinto i presidenti a largheggiare
negli ingaggi e le società ad entrare sempre più spesso in concorrenza tra loro.
Questo gioco ha portato ad un inevitabile innalzamento dei prezzi27, logica conseguenza è stata che
solo quelle poche società dotate di maggiori disponibilità finanziarie hanno potuto permettersi di
partecipare attivamente a questa corsa al rialzo, e chi vi ha provato senza i mezzi adeguati ne ha
subito, e ne sta ancora subendo, le conseguenze. I club minori hanno inesorabilmente perso terreno,
giungendo così, di campionato in campionato, ad un allargamento del divario tra ricchi e poveri e
facendo diminuire quel fascino d’imprevedibilità che rappresentava il bello del calcio.
2.1 L’aspetto giuridico della sentenza e le sue conseguenze
Jean-Marc Bosman decise di ricorrere alla giustizia ordinaria nel momento in cui, giunto a scadenza
il contratto che lo legava al Royal Club Liegeois28, sua società d’appartenenza, non vide realizzarsi
la possibilità d’ingaggio da parte della squadra francese Dunkerque con la quale aveva egli stesso
personalmente avviato la trattativa.
Il Rcl, dubitando sulla solvibilità del club francese per il pagamento dell’indennità di trasferimento
fissata, si rifiutò di chiedere il nullaosta alla federazione belga per rendere effettivo il trasferimento
ritirando il cartellino del Bosman e impedendogli, in tal modo, di poter giocare nel nuovo
campionato. La Corte d’appello di Liegi, con ordinanza pronunciata il 1° ottobre 1993 nella causa
tra il calciatore professionista J-M Bosman e varie organizzazioni e società calcistiche (l’UEFA, la
26
Quello che nel gergo sportivo è nominato come “azzeramento dei parametri”, nel senso che le società calcistiche non
avrebbero più potuto pretendere alcuna somma per i trasferimenti dei giocatori che si trovassero a fine contratto.
27
Acuito negli ultimi anni dalla rivoluzione delle tv a pagamento e della negoziazione personale dei diritti televisivi.
28
La vicenda è narrata nei particolari dal punto 28 al punto 51 (“I fatti all’origine delle cause a quibos”) del fascicolo
relativo alla sentenza Bosman. Il testo completo della sentenza è riportato in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro,
1996, vol. 2°, p. 209 e seguenti.
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9
FIFA, il Royal Liegeois), rimise la questione alla Corte di Giustizia Europea chiedendole di
pronunciarsi sull’interpretazione degli art. 4829, 85 e 8630 del Trattato CE in relazione ad alcuni
aspetti propri delle normative delle federazioni nazionali, europee ed internazionali di calcio.
In sostanza, la Corte d’appello di Liegi voleva sapere, dalla Corte di Giustizia Europea, se
“l’indennità di trasferimento” (che secondo i regolamenti Fifa e Uefa era nominata anche “indennità
di formazione e promozione” e secondo l’art. 6 della legge italiana 23 marzo 1981, n. 91, era
denominata “indennità di preparazione e promozione”) prevista nei casi di passaggio da una società
sportiva ad un’altra di un calciatore il cui vincolo contrattuale con la prima era ormai scaduto, fosse
compatibile con la normativa dell’Unione sulla libera circolazione dei lavoratori (art. 48 Trattato
CE). La Corte d’appello si poneva, inoltre, un quesito circa la compatibilità delle medesime norme
europee con tutte quelle disposizioni, presenti nei vari ordinamenti sportivi, miranti a limitare il
numero di giocatori stranieri, cittadini di Stati membri aderenti alla Comunità, che ogni società
sportiva poteva tesserare e far scendere in campo nel corso delle diverse competizioni cui prendeva
parte.
La sentenza della Corte di Giustizia Europea datata 15 dicembre 1995, accogliendo il ricorso
presentato da Jean-Marc Bosman, ha prodotto un vero e proprio terremoto nel mondo del calcio e
dello sport in generale. Essa ha accertato che il regime dei trasferimenti di calciatori da una società
sportiva ad un’altra, appartenenti a stati comunitari diversi, così come previsto dalla Federazione
Belga (nella fattispecie del caso in esame, ma anche dall’UEFA e dalla FIFA), contrastava con il
principio contenuto nell’art. 48 del Trattato di Roma (libera circolazione dei lavoratori).
Il dover corrispondere, obbligatoriamente, un’indennità di preparazione e promozione finisce,
secondo la Corte, per essere ostativo al trasferimento del giocatore e, quindi, alla sua libertà di
circolazione. Ciò a causa delle sanzioni nelle quali potrebbe incorrere la società di destinazione in
caso di mancato pagamento dell’indennità e, in ogni caso, perché il mancato perfezionamento del
29
L’art. 48 concerne il trasferimento da uno Stato membro dell’unione Europea ad un altro Stato membro, nello
specifico mira a porre i cittadini comunitari migranti in una situazione di diritto e di fatto che non li penalizzi in
conseguenza della loro condizione ispirandosi a due principi: la piena parità di trattamento per quanto riguarda le
condizioni di lavoro e individuando misure specifiche volte a facilitare la circolazione del lavoratore. A tal fine, il
paragrafo 2 del suddetto articolo afferma che la libertà di circolazione “implica l’abolizione di qualsiasi discriminante,
fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre
condizioni di lavoro”.
30
Gli art. 85 e 86 disciplinano la concorrenza tra imprese, in particolare rispettivamente “gli accordi di concorrenza” tra
le imprese e “l’abuso di posizione dominante”. Art. 85: ”1. Sono incompatibili con il Mercato Comune e vietati tutti gli
accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni d’imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il
commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della
concorrenza all’interno del Mercato Comune (…). 2. Gli accordi o decisioni, vietati in virtù del presente articolo, sono
nulli di pieno diritto (...)”.
Art. 86: “È incompatibile con il Mercato Comune e vietato, nella misura in cui possa essere pregiudizievole al
commercio tra gli Stati Membri, lo sfruttamento abusivo da parte di una o più imprese di una posizione dominante sul
Mercato Comune o su una parte sostanziale di questo (…)”.
Le società di calcio professionistiche: evoluzione economica e crisi di settore nei bilanci delle principali società italiane
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rapporto economico potrebbe provocare divieti da parte delle federazioni interessate e,
conseguentemente, impedire all’atleta di giocare nella squadra prescelta.
In secondo luogo la Corte, con la medesima decisione, ha affermato che anche le regole riguardanti
la composizione delle squadre in campo, che limitano la partecipazione dei giocatori non nazionali,
ed in particolare limitano la partecipazione di giocatori provenienti da federazioni europee, è
ostativa del diritto alla libera circolazione dei lavoratori31. In virtù di tale sentenza, dunque, sia la
normativa che prevede l’indennità di trasferimento sia quella limitatrice del numero di giocatori non
nazionali nella rosa delle squadre, divennero prive d’efficacia.
Attraverso questa sentenza la Corte Europea, di fatto, considerò il calcio come attività economica32
respingendo le proteste sollevate da UEFA, Federazione belga e dai governi francese e italiano che
sostenevano come, le norme sui trasferimenti, fossero giustificate dall’intento di conservare
l’equilibrio finanziario e sportivo fra le società e di sostenere la ricerca di calciatori di talento e la
formazione dei giovani calciatori.
L’opposizione presentata dall’UEFA, in particolare, puntava su un concetto tanto semplice quanto
veritiero: con l’eliminazione del pagamento dell’indennità, le grosse società, avendo una maggiore
disponibilità economico-finanziaria, avrebbero facilmente potuto accaparrarsi i giocatori migliori,
mentre le squadre minori, solitamente in ristrettezze economiche, avrebbero visto peggiorare le
proprie performance a causa della progressiva riduzione dell’entrare, in una sorta di spirale
perversa, aumentando così inesorabilmente il già sostanziale divario che c’è tra le due.
L’Alta Corte replicò sostenendo come non sia, nei fatti, l’applicazione delle norme sui trasferimenti
a garantire la conservazione dell’equilibrio finanziario e sportivo nel mondo del calcio, essendo tali
norme del tutto incapaci, anche se fossero rimaste in essere, di impedire che le società
economicamente più forti finiscano col procurarsi le prestazioni dei calciatori migliori né, tanto
meno, che i mezzi finanziari disponibili costituiscano un elemento decisivo nella competizione
31
Si riporta la pronuncia finale della Corte: “La Corte, pronunciandosi sulle questioni sottopostele dalla Cour d’appel
di Liegi con sentenza 1° ottobre 1993, dichiara:
1. L’art. 48 del Trattato CEE osta all’applicazione di norme emanate da associazioni sportive, secondo le quali un
calciatore professionista cittadino di uno Stato membro, alla scadenza del contratto che lo vincola ad una società, può
essere ingaggiato da una società di un altro Stato membro solo se questa ha versato alla società di provenienza
un’indennità di trasferimento, di formazione o di promozione.
2. L’art. 48 del Trattato CEE osta all’applicazione di norme emanate da associazioni sportive secondo le quali,
nelle partite delle competizioni che esse organizzano, le società calcistiche possono schierare solo un numero limitato di
calciatori professionisti cittadini di altri Stati membri.
3. L’effetto diretto dell’art. 48 del Trattato CEE non può essere fatto valere a sostegno di rivendicazioni relative
ad indennità di trasferimento, di formazione o di promozione che, alla data di questa sentenza, siano state già pagate o
siano ancora dovute in adempimento di un’obbligazione sorta prima di tale data, fatta eccezione per coloro che, prima
della stessa data, abbiano intentato azioni giudiziarie o esperito rimedi equivalenti ai sensi del diritto nazionale vigente
in materia”.
32
La Corte di Giustizia sancisce al punto 73 del fascicolo Bosman quanto segue: “l’attività sportiva è disciplinata dal
diritto comunitario in quanto sia configurabile come attività economica (…) È questo il caso dell’attività dei calciatori
professionisti o semiprofessionisti che svolgono un lavoro subordinato o effettuano prestazioni di servizi retribuite”.
Società di calcio professionistiche: evoluzione giuridica del settore
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sportiva dal momento che non sempre chi più spende più vince, e la storia recente abbonda
d’esempi che si possono portare a testimonianza di ciò.
Quanto al secondo punto mosso contro tale sentenza, se è pur vero che la prospettiva di ricevere
indennità di trasferimento, di promozione o di formazione è effettivamente idonea ad incoraggiare
le società a cercare calciatori di talento e ad assicurare un’adeguata formazione nei vivai, è altresì
vero che non è possibile prevedere con assoluta certezza l’avvenire sportivo dei giovani calciatori.
Dal momento che solo pochi di loro si dedicheranno all’attività professionistica, le suddette
indennità assumono forte carattere d’aleatorietà e d’incertezza e, comunque, non hanno correlazione
con le spese effettivamente sostenute dalle società per formare sia i futuri calciatori sia i giovani che
decideranno di non continuare.
Per quel che attiene al secondo principio stabilito dalla Corte, ossia che è illegale porre limiti al
numero di stranieri comunitari da schierare in campo, la stessa ritenne che l’identificazione
pubblico-squadra, una tra le principali mozioni di protesta sollevate33, in realtà derivasse
essenzialmente dal momento organizzativo di questa e non dalla provenienza dei giocatori. Inoltre,
per quanto concerne la partecipazione a gare internazionali, affermò che essa è riservata a quelle
società che hanno ottenuto determinati risultati sportivi nei campionati dei rispettivi Paesi, senza
che la cittadinanza dei loro calciatori rivestisse un ruolo particolare.
Un’ulteriore protesta mossa nei confronti della sentenza si riferiva a come, una restrizione
normativa sull’impiego di stranieri, fosse principalmente volta a tutelare i calciatori locali e in
particolare i giovani, poiché una massiccia presenza di calciatori stranieri nei campionati nazionali
avrebbe generato, a lungo andare, una penuria d’atleti d’alto livello da inserire nella rappresentativa
nazionale. La Corte ritenne priva di fondamento anche quest’ultima obbiezione in virtù delle nuove
prospettive d’occupazione offerte ai giocatori nazionali in altri Stati membri quale conseguenza
della liberalizzazione e dell’obbligo, fatto in capo alle società che avrebbero ingaggiato giocatori
stranieri, di permettere a questi la partecipazione agli incontri delle rispettive nazionali34. In altre
parole, le nazionali non avrebbero sofferto pregiudizio alcuno dall’abolizione di qualsiasi limite
all’utilizzazione di giocatori cittadini d’altri Stati membri.
33
In tal senso, in corso di causa, era stato sottolineato che “le norme sulla cittadinanza sono giustificate da motivi non
economici, attinenti allo sport in sé e per sé, al fine di conservare quel fondamentale legame tra squadra e Paese che
consente al pubblico di identificarsi con la squadra preferita e alle società che partecipano a gare internazionali di
rappresentare il proprio Paese”. Giustificazioni n. 122 e 123 del fascicolo Bosman promosse dalla federazione belga,
dall’UEFA e dai governi tedesco, francese e italiano.
34
Questo secondo punto ha, negli ultimi anni, dato origine ad una vera e propria battaglia tra società e nazionali.
Sempre più spesso gli incontri di quest’ultima hanno inficiato l’integrità fisica di atleti importati per i club che ne hanno
tratto un danno sia in termini sportivi che economici. Interessante, a tal proposito, è il caso del calciatore Alessandro
Nesta infortunatosi con la Nazionale Italiana ai Mondiali di calcio di Francia 98. La squadra d’appartenenza di Nesta, la
S.S. Lazio, decise di muovere causa di risarcimento danni contro la Federazione Italiana Giuoco Calcio a difesa dei
propri interessi economici, occorre rilevare infatti che, essendo la società quotata in borsa, il valore economico del suo
patrimonio venne notevolmente intaccato da quest’infortunio con grave danno per i propri azionisti.