2
nascosti obiettivi della vita umana, dall’altro perché è limitata
ad una stretta cerchia di adepti che devono diffonderla nel
modo più segreto possibile. Sembra essere il paradosso, quindi,
il punto di partenza per lo studio della tradizione esoterica
ebraica.
Pertanto, se vogliamo tentare un approccio a questo
mondo misterioso e talvolta oscuro, non possiamo prescindere
dal ruolo fondamentale ricopertovi da Gershom Scholem. Ciò
che risulta subito evidente analizzando la figura di questo
studioso è il suo eclettismo, che lo porta ad occuparsi
contemporaneamente di mistica, di storia e di filologia.
Scholem si trova a vivere, suo malgrado, la delicata
situazione in cui si trovano gli ebrei tedeschi nei primi anni del
XX secolo in Germania e proprio da qui ha inizio la sua attività
di riscoperta della propria identità e di quella del popolo
ebraico.
Nel primo capitolo, attraverso la sua autobiografia, ho
cercato di mostrare proprio come la sua vita fosse condizionata
da una continua ricerca di sé stesso e della propria identità
3
ebraica. Questa ricerca è compiuta da Scholem in due modi
apparentemente estranei l’uno all’altro, ma che in realtà hanno
molto in comune: la sua adesione al movimento sionista e
l’interesse per la Kabbalah. Questi due aspetti a mio parere,
infatti, hanno contribuito a formare la grande conoscenza di
Scholem riguardo alla tradizione mistica. Si era reso conto,
infatti, di quanto la Kabbalah, conservando le radici
dell’ebraismo, avesse contribuito a mantenerne vivo lo spirito
nei secoli.
Proprio nel secondo capitolo, dopo una breve
ricostruzione del contesto storico-culturale degli anni tra il XIX
e il XX secolo, mi sono proposta di descrivere l’importanza che
Scholem attribuisce ai testi cabbalistici che ritiene fondamentali
per riscoprire il futuro del popolo ebraico in quanto ne
rappresentano l’importante passato. La sua opera di riscoperta
penetra attraverso le diverse e molteplici correnti che
caratterizzano lo sviluppo della Kabbalah, dalla dottrina di Luria
fino al Chassidismo polacco del XVIII secolo, attraverso il
tentativo nichilista compiuto dal sabbatianesimo.
4
A questo proposito, ho dedicato interamente il terzo
capitolo all’analisi del movimento sabbatiano, che sorse dalla
crisi successiva all’esodo degli Ebrei dalla Spagna e che fu
caratterizzato dall’imponente e allo stesso tempo impotente
figura di Šabbetay Şevi. Scholem non considera in maniera
completamente negativa il sabbatianesimo, gli riconosce infatti
il merito di aver rappresentato una grande rivoluzione
all’interno del mondo ebraico ortodosso, che però non riuscì a
comprendere fino in fondo il suo significato e la sua grandezza.
Il quarto capitolo, invece, descrive il rapporto che
Scholem ebbe, nel corso degli anni, con due importanti
pensatori tedeschi del Novecento: Walter Benjamin e Martin
Buber. Il confronto con entrambi, seppure in termini diversi,
permise il delinearsi e il definirsi, in Scholem, di quell’interesse
per la tradizione esoterica ebraica che lo accompagnò per tutta
la vita.
Proprio questo suo continuo dedicarsi alla mistica ci
induce inevitabilmente a formulare l’interrogativo al quale ho
tentato di dare una risposta nella parte conclusiva di questo
5
mio lavoro, e cioè se Scholem possa essere considerato o meno
un mistico mancato. La risposta, naturalmente, è affermativa, e
ciò sembrerebbe rappresentare una sconfitta per quest’uomo
che ha dedicato quasi la sua intera esistenza alla mistica ebraica
e alla riscoperta delle tradizioni.
Scholem infatti si rende conto, quasi con rassegnazione,
che nella società in cui vive ormai non ci sono più i presupposti
per quel risveglio mistico da lui così tanto difeso e sostenuto.
Nonostante questo, però, non ritengo che Scholem abbia fallito
su ogni fronte; è riuscito, infatti, a uscire da quella situazione di
incertezza e di ambiguità in cui vivevano gli Ebrei in Germania
agli inizi del XX secolo e a compiere la sua ´Alijjah
1
, riuscendo
finalmente a riscoprire le proprie radici attraverso le quali è
stato in grado di ricongiungersi con la propria identità di Ebreo.
1
Lett. “salita”, sta ad indicare sia il pellegrinaggio che l’immigrazione in Terra Santa o a
Gerusalemme.
6
CAPITOLO PRIMO: Gershom Scholem: le sue origini e le
sue esperienze
La vita di Gershom Gerhard Scholem inizia a Berlino, nel
quartiere di Altberlin, il 5 dicembre 1897. La famiglia Scholem
(il cui nome non è altro che la pronuncia ashkenazita
2
della
parola shalom come ci spiega lo stesso Scholem nella sua
autobiografia) faceva parte della media borghesia ebraica e
aveva ormai scelto da diversi anni la strada dell’assimilazione,
definita da Scholem come:
un elemento di consapevolezza nel quale la rinuncia alla propria
identità s’intrecciava dialetticamente con l’impulso a difendere la dignità
umana e la fedeltà a sé stessi; v’era poi una rottura cosciente con la
tradizione ebraica, di cui sopravvivevano, assai eterogenei e talora
peregrini, frammenti sparsi qua e là […]
3
Gershom era il più piccolo di quattro fratelli, ognuno dei
quali aveva preso una posizione indipendente e diversa rispetto
alla propria condizione di ebreo. Vivendo in una famiglia che
aveva scelto, come già detto, la strada dell’assimilazione,
2
Con il termine ‘Ashkenaziti’ si definiscono gli ebrei della diaspora di tradizione e
cultura mitteleuropea.
3
G. Scholem, Da Berlino a Gerusalemme (1982) trd. it a cura di S. Campanili, Einaudi,
Torino, 2004 p. 27
7
Scholem non riusciva a trovare intorno a sé che pochi
particolari impercettibili della tradizione ebraica: venivano,
infatti, solo rispettati il rituale del venerdì e la sera del Seder:
4
questo non impediva più tardi che si usassero le candele del sabato
per accendere una sigaretta o un sigaro. Poiché il divieto di fumare
durante il sabato era una dei più noti precetti ebraici, quel gesto conteneva
in sé una certa misura di consapevole scherno.
5
Forse per il fatto di essere inconsciamente spinto da
questo modo di rapportarsi al mondo ebraico e alla tradizione
da parte della sua famiglia Scholem sceglie la via della ricerca
delle proprie radici e si avvicina al sionismo. Questo
avvicinamento avviene all’età di tredici anni, quando il
professor Moses Barol gli mostra i tre tomi dell’edizione
popolare della Storia degli Ebrei di Heirich Graetz; fu proprio
questo suo interesse per la storia ad avvicinarlo all’ebraismo e
da queste letture crebbe in lui anche il desiderio di imparare
l’ebraico. L’interesse per il sionismo fu acceso anche da suo zio
Theobald, fratello di suo padre, e unico sionista della famiglia
che, in un ambiente familiare votato all’assimilazione,
4
Indica il cerimoniale delle due prime sere di Pesach in cui si commemora la cena prima
della partenza dall’Egitto.
5
G. Scholem, Da Berlino a Gerusalemme (1982), cit., p. 13
8
rappresentava un forte elemento di contrasto.
Man mano che cresceva, Scholem iniziava a prendere
sempre più coscienza della sua situazione di ebreo assimilato
che però sentiva il richiamo delle proprie radici. Questa
condizione gli fece riflettere più attentamente su un fenomeno
considerato da lui inaccettabile che si stava diffondendo tra gli
ebrei assimilati: l’Autoinganno, inteso da Scholem come
l’incapacità di prendere consapevolezza, da parte dei propri
membri, di tutto ciò che stava accadendo intorno alla comunità
ebraica:
l’incapacità di giudizio della maggior parte degli ebrei in ciò che li
riguardava direttamente, benchè fossero altamente capaci di
ragionevolezza, discernimento e lungimiranza quando si trattava di altri
fenomeni […]questa inclinazione all’autoinganno rappresenta uno degli
aspetti più importanti e sciagurati dei rapporti tra ebrei e tedeschi.
6
Scholem era riuscito perfettamente a individuare questa
rottura tra due mondi che portava l’ebreo di quel tempo ad
allontanarsi da un contesto culturale, quello tedesco, per cercare
di recuperare l’altro, quello ebraico. Attraverso i suoi studi sulla
Kabbalah aveva trovato un modo per uscire da questa situazione
di stallo in cui si trovava la maggior parte degli ebrei. Vedeva,
9
infatti, nello studio della Torah e nel recupero della tradizione
mistica l’unico modo per riscoprire la propria identità
attraverso una piena conoscenza della verità.
Il primo momento di rottura con il padre si ebbe quando
il giovane Gershom decise di interessarsi al sionismo seguendo
definitivamente l’esempio di suo zio Theobald. Negli anni che
vanno dal 1912 al 1917 Scholem aderì al circolo Jung Juda,
un’associazione culturale le cui sedute erano rivolte a
discussioni su libri di interesse ebraico oppure alla lettura di
poesie di autori ebrei orientali, all’insegna della presa di
coscienza sempre più ragionata delle proprie radici ebraiche.
Fu proprio nel 1913 in occasione di un incontro che riunì il
gruppo dei giovani sionisti di questo circolo, in un caffè della
stazione Tiergarten, che il giovane Gershom vide e ascoltò per
la prima volta Walter Benjamin, che sarebbe divenuto in seguito
uno dei maggiori punti di riferimento della sua vita e che egli
definì come «l’amico il cui ingegno riuniva la profondità del
metafisico, l’acume del critico, l’erudizione del dotto. Morto a
6
Ivi, p. 28.
10
Port Bou in Spagna sulla via della libertà»
7
. Pur avendo molte
cose in comune, il retroterra sociale di Scholem e Benjamin era
molto diverso. Benjamin, infatti, aveva alle spalle una famiglia
dell’alta borghesia; Scholem, invece apparteneva, come già
detto, a una famiglia della piccola borghesia ebraica in ascesa.
Le cose che avevano in comune, definite da Scholem come non
«facilmente trascurabili»,
8
erano la stessa decisione nel
perseguimento della meta spirituale e il rifiuto dell’ambiente
circostante, cioè quello della borghesia ebraico-tedesca
assimilata. Nonostante questi punti in comune, tuttavia, per
Scholem le difficoltà del rapporto con Benjamin erano
considerevoli a causa di quella riservatezza di cui quest’ultimo
si faceva scudo e che viene definita da Scholem come «smania
di misteriosità».
9
Le principali difficoltà per il giovane Gershom
erano soprattutto tre: la prima, vale a dire il rispetto per la
solitudine dell’amico, era però facilmente superabile. La
seconda, anch’essa superabile, era la sua assoluta avversione a
7
G.Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica (1941), trad. it. a cura di G. Russo,
Einaudi, Torino, 1993.
8
G. Scholem, Walter Benjamin, storia di un’amicizia (1975), trad. it. a cura di E. Castellani e
C. A. Bonadies, Adelphi, Milano, 1992, p. 45
9
Ivi, p. 48
11
parlare degli avvenimenti bellici e politici. La terza difficoltà,
cioè la capacità di riuscire a ignorare la sua smania di silenzio
soprattutto sulla sua vita privata, era quella che richiedeva uno
sforzo maggiore da parte di Scholem.
Il periodo nel quale si consolidò e si approfondì ancora di
più il loro rapporto di amicizia fu l’anno, dal 1918 al 1919, che
Scholem passò a Berna. I contrasti in ogni caso continuarono
anche e soprattutto per le differenze caratteriali tra i due. Dal
1918 gli incontri tra Scholem e Benjamin iniziarono ad essere
sempre più sporadici anche a causa dei forti litigi che
quest’ultimo iniziava ad avere sempre più frequentemente con
la moglie e dei quali Scholem si trovava ad essere un testimone
imbarazzato. Dopo il ritorno di Benjamin in Germania i
rapporti con Scholem riacquistarono quella frequenza e quella
normalità che avevano perso nel periodo svizzero. La loro
amicizia divenne ancora più solida, Scholem si era ormai
stabilito a Gerusalemme e Benjamin era rimasto in Germania
nell’attesa di un impiego come docente a Francoforte che poi
però non arrivò mai. A quel punto si presentò l’occasione per
12
Benjamin di trasferirsi a Gerusalemme ma, nonostante gli sforzi
e le sollecitazioni di Scholem, anche questo progetto non si
realizzò. Da quel momento i due non si videro più per molti
anni, anche se continuò il loro scambio epistolare. Benjamin
lasciò la Germania nel 1933 per recarsi a Ibiza e poi a Parigi:
Scholem lo vide per l’ultima volta nel 1938 e solo nel 1940, fu
informato delle vicende relative alla sua fuga da Parigi verso la
Spagna e del fatto che si era tolto la vita per evitare di essere
consegnato ai nazisti. A Scholem, che ripensò agli anni della
loro amicizia, sembrò evidente che Benjamin avesse pensato
spesso al suicidio e che avesse preso quella decisione spinto
anche dagli avvenimenti accaduti nel 1940 davanti ai quali la
sua tenacia e la sua pazienza vennero meno.
In Walter Benjamin incontrai per la prima volta un uomo dalla
forza di pensiero assolutamente originale, che mi stimolò e mi coinvolse
intimamente a profondità inaudite […]ci furono tra noi alti e bassi, ma nel
corso degli otto anni che precedettero la mia emigrazione sorse
un’amicizia che ha resistito fino alla sua morte e anche oltre.
10
Nel periodo che ha inizio con il 1913 Scholem diventa uno
dei membri più attivi dei movimenti giovanili sionisti e
contemporaneamente si impegna per un approfondimento
13
delle proprie radici ebraiche. A questo proposito, l’episodio da
lui definito come il più emozionante di tutta la sua vita fu
quando imparò a leggere la prima pagina del Talmud in ebraico
e, in seguito, ebbe l’onore di assistere alla lettura della
spiegazione dei primi versetti della Genesi scritta da Rashi, il
più grande di tutti i talmudisti ebrei, nel XII secolo: «fu il mio
primo incontro diretto, in stile tradizionale, non con la Bibbia,
ma con l’essenza ebraica della tradizione».
11
Nella sua ricerca
della tradizione avevano una predominanza gli scritti degli
antichi ebrei che riteneva molto più ricchi e vivi rispetto alle
opere degli autori tedeschi con i quali era venuto in contatto
fino a quel momento.
Durante il periodo della Prima Guerra Mondiale aumentò
in Scholem la consapevolezza rispetto al sionismo, al quale egli
si dedicò non perché la creazione di uno Stato israeliano
sembrasse un fine urgente e evidente, bensì perché all’interno
del sionismo si trovavano tendenze volte alla riflessione degli
ebrei su se stessi, sulla loro storia e su una possibile rinascita di
10
G. Scholem, Da Berlino a Gerusalemme cit. , p. 75
11
Ivi, p.51.
14
natura spirituale culturale e sociale.
Alla fine del 1913 Scholem entrò a far parte di una nuova
associazione giovanile, Agudath Israel, un’organizzazione di
stampo ortodosso in concorrenza col sionismo, che però non
aveva ancora assunto quel carattere clericale e antisionista a
causa del quale Scholem in seguito la abbandonò. Per i membri
di questa associazione era lecito che gli assimilati si
avvicinassero alla Torah, però allo stesso tempo essi
consideravano questo avvicinamento come una minaccia per gli
ebrei osservanti che rischiavano di esserne allontanati a causa
della modernità che vi veniva ora introdotta.
In quel periodo la figura di Martin Buber, con il suo
sionismo appassionato, affascinava l'intera gioventù sionista.
Buber conobbe Scholem alla Casa del popolo ebraico, creata da
giovani berlinesi che avevano un forte interesse ebraico e
sociale, e ebbe su di lui da subito un’influenza positiva, che
però non durò a lungo, così come la permanenza di Scholem in
quel circolo.