ABSTRACT
La crisis de algunos de nuestros paisajes y el debate propuesto por la
Convención Europea del Paisaje (Florencia, 2000) nos proponen una nueva
reflexión sobre los paisajes construidos por la sociedad contemporánea. Para
ello, no podemos sustraernos del significado complejo que les atribuye la
Convención Europea del Paisaje, que los describe desde sus acepciones
ecológicas, culturales y sociales. La crisis del paisaje se manifiesta como una
crisis de relación entre el territorio y la sociedad que lo habita y lo vive.
El área objeto de estudio representa, en su peculiaridad y unicidad, un “caso
límite” de uso del territorio, y un caso ejemplar para repensar esta relación. La
región almeriense ha sabido en las últimas cuatro décadas rescatarse de la
pobreza económica que la caracterizaba desde principios del siglo XX y
reinventarse, a pesar de la gran limitación de sus recursos, con los cultivos
intensivos. Almería, lugar casi olvidado del sureste español, adquiere la
etiqueta de “Huerta de Europa” y se convierte en un singular objeto de estudio
en el campo económico, agrario y social. Sin embargo la inesperada riqueza
tiene un precio: un territorio en degradación completamente ocupado por los
plásticos de los invernaderos, con una vertiginosa aceleración de los procesos
de desertificación y con la consiguiente aparición de ásperos conflictos
sociales. Aquí el hombre ha construido un paisaje totalmente nuevo -expresión
del uso intensivo-, un paisaje que no obstante no se puede justificar ni tampoco
condenar.
El objetivo de la tesis es el de introducirse en la comprensión de la sutil tensión
que genera la producción económica necesaria, y el análisis de las
consecuencias que provocan la producción de un paisaje con una ausencia de
sentido; sin olvidar la insostenibilidad ambiental y social generadas. La tesis
propone hacer frente a esta situación con intervenciones de escala territorial
que proponga una nueva forma de vivir los lugares de los cultivos intensivos.
Repensar, ordenar y crear las razones que ayuden a comprender este paisaje
son las tres principales acciones que pretenden reestablecer la relación entre
sociedad y territorio.
1_CONOSCERE ALMERíA
“montagne aspre, valli di abisso, sierre al cielo, cammini stretti, burroni e
precipizi senza fine” e in lontananza, lo splendido piano, l’immenso piano
dell’azzurro Mediterraneo”
Diego Hurtado de Mendoza – Azorín
Raggiungere Almería: percezione dei luoghi
La regione di Almería è situata a sud-est della penisola iberica, è una delle otto
province della regione autonoma Andalusia, il suo territorio è, escludendo
alcune pianure litorali, prevalentemente montuoso, tuttavia è conosciuto
soprattutto per le sue coste e le sue spiagge.
Il viaggiatore non può non rimanere colpito dalle viste e dai paesaggi che gli si
aprono davanti agli occhi: tutto odora di Africa. Il calore, la luce, le steppe, i
deserti e la lunga permanenza araba ancora leggibile nell’architettura e nel
territorio, confermano le parole dello scrittore catalano Juan Goytisolo: “Almería
è città unica, mezza insulare e mezza africana.”
Terra di confine, arida e priva di alberi, chiusa da aspre montagne, investita da
quasi 3.000 ore di luce solare all’anno [è di fatto la città che vanta la più alta
insolazione annua di tutto il continente!], con l’unico deserto europeo e con una
storia segnata da improvvise depressioni e ricchezze, Almería sembra davvero
luogo unico, vocato ai casi estremi, e, per gli spagnoli, incarna il sud profondo.
Negli anni ’60 il deserto di Tabernas divenne teatro privilegiato per la
realizzazione di molti film western, tanto era assimilabile la sua fisionomia al
deserto del Colorado!
Negli ultimi anni Almería ha saputo far parlare di sé balzando agli occhi di tutto
il mondo con una nuova e stupefacente immagine: il mar de plastico, una
distesa di serre tanto estesa da essere già ben individuabile nelle immagini
satellitari.
individuazione della regione di Almería
“Non si vede un solo arbusto, né un agave.
Niente più che il cielo ostinatamente
azzurro, ed il lussurioso sole che investe,
come un toro selvaggio.”
Juan Goytisolo, Campos de Níjar, 1960
il deserto
la steppa
“Ogni città riceve la forma del deserto a cui si
oppone; e così il cammelliere e il marinaio
vedono Despina, città di confine tra due
deserti.”
Italo Calvino, Le città invisibi
il mare
Almería nella storia: puerta de oriente, terra di emigranti
La città di Almería venne fondata nel 955 d.C. da Abderraman III, lo storico re
Omeyyade che convertì il suo regno iberico nel glorioso califfato di Cordoba, il
califfo stesso ordinò la costruzione della grande alcazaba che domina il mare, è
la più grande fortezza araba della Spagna dopo l’Alhambra di Granada. In
generale si può notare come la regione almeriense sia scarsamente popolata
all’epoca dell’occupazione romana della penisola iberica, la sua fortuna sembra
proprio iniziare con la dominazione islamica. Almería viene costruita per
diventare il principale porto del califfato, ecco come si spiega la ricchezza e la
gloria descritte dai viaggiatori arabi! Almería, per alcuni secoli, è uno dei
principali porti del Mediterraneo, apparteneva alle rotte commerciali del ricco
mondo arabo che si estendeva dall’Europa, alla regione sahariana fino all’India.
Le testimonianze dell’XI secolo ci raccontano inoltre di una Almería arricchitasi
grazie all’esportazione della seta, prodotta nella valle di Pechina [area
meridionale della valle dell’Andarax]. Lo splendore dura poco: nel 1157, dopo
una conquista cristiana durata dieci anni, Almería finisce sotto il controllo del
regno Naziries di Granada.
Nel 1488 Almería cade definitivamente in mano dei re cristiani: è la penultima
città della penisola iberica liberata dalla dominazione araba. Da questa data in
poi per Almería ed il suo territorio comincia un triste e rapido declino, a metà del
XVI secolo un violento terremoto distrugge gran parte della città e dell’alcazaba,
nel 1570 i Mori, che ancora abitavano la regione, vengono deportati, si crea
così un grande vuoto umano ed uno stato di abbandono che si protrarrà nei
secoli e che farà della costa e delle pianure litorali campo di pirateria. Le
cronache raccontano anche di un bosco almeriense che venne tagliato per
ordine dei re allo scopo di impiegare il legname nella costruzione dei galeoni.
Mito o leggenda una cosa e certa: Almería rimase nei secoli una regione
abbandonata ed isolata dalla ricchezza e dai fasti del regno spagnolo. Durante
il XIX secolo Almería esce dal “dimenticatoio” ed il suo porto ferve di commerci:
uva da tavola, marmo, piombo ed oro estratti dalle miniere di sierra de Gádor e
sierra Alhamilla sono le merci esportate. L’uva da tavola veniva prodotta nei
vigneti degli altipiani di Berja e Dalías e lungo tutta la valle dell’Andarax, e si
guadagnò una certa fama nella Londra dell’epoca. Sul finire del secolo il
periodo di relativa ricchezza volse al termine: nel 1875 una grave malattia
annullò i raccolti di uva, la miniera di oro, l’unica in tutta Europa, si esaurì, le
compagnie minerarie che investivano ad Almería trovarono mercati più
vantaggiosi. All’inizio del 1900 arrivò la ferrovia e nel 1904 venne inaugurato un
monumentale montacarichi progettato da Gustave Eiffel, ancora oggi simbolo
della città. Gli almeriensi cominciano ad emigrare: Catalogna, Francia, Belgio
ed America sono le mete più ambite, il saldo migratorio continuerà ad essere
negativo fino al 1965. La depressione economica di Almería diventa affare di
stato, il quale invia nella regione squadre di tecnici per rendere coltivabili gli
stepposi campos: è l’inizio del milagro economico almeriense.
“Terra riarsa, spaccata, secca, desertica, ostile all’uomo.
Neanche un albero. Terra ostile alla pioggia. Non piove. Sono
mesi che non piove. E quando ciò accade è un diluvio violento,
che scava ancora di più le montagne”
.
Jose M. Pérez Lozano, Una parrocchia nell’Inferno, 1960
“Il porto di questa città accoglieva
imbarcazioni da Alessandria e dalla Siria e
non esisteva in tutta la Spagna popolazione
più ricca e più versata nell’industria e nel
commercio dei suoi abitanti, più di tutti,
inoltre, inclini al lusso e alla dissipazione.”
Mohamed-Al-Edrisi,
Descripción de España,1154
“La città di Almería è murata e posta sulla costa
del Mediterraneo. Almería è la porta d’oriente e la
chiave della ricchezza. Ha terreni ricchi d’argento,
un litorale aurifero da cui si estraggono pepite
d’oro e un mare colore dello smeraldo..”
Abulfeda, Descripción de España,
principio secolo XIV
“Ricordo assai bene la profonda impressione di
violenza e di povertà che mi suscitò Almería, la
prima volta che, anni fa, la visitai.”
Juan Goytisolo, Campos de Níjar, 1960
Almería oggi: la huerta de Europa
La regione almeriense si trova in una posizione periferica a tutte le scale: lontana dal
mercato dell’Unione Europea, lontana dai centri decisionali spagnoli, scarsamente
connessa o relazionata con gli altri centri andalusi; perifericità geografica che, come si è
già detto, si somma a una perifericità storica.
Tuttavia i fattori climatici si sono rivelati decisivi per le pratiche di agricoltura intensiva. Gli
inverni miti e l’elevata insolazione hanno favorito questo tipo di sfruttamento, ottenuto con
mezzi relativamente semplici: plastica e sabbia. Il regime termico di Almería, con valori
medi annuali di 18,3°C, è il più idoneo di tutta la penisola iberica per la coltivazione di
ortaggi, le miti temperature invernali consentono di avere calore dentro le serre senza
l’uso di costosi impianti di riscaldamento e l’abbondante luce permette la crescita precoce
delle piante. Almería ed il suo territorio coperto dalla plastica rappresentano una forma
recente di uso ed occupazione del suolo da parte dell’uomo, e in qualche modo sono un
caso emblematico e limite di una agricoltura che funziona come un’industria e di un
paesaggio contemporaneo.
Questo tipo di uso del suolo, geniale e capace di trasformare un territorio quasi desertico
in preziosa risorsa, proietta di sé una immagine ambigua: estremamente negativa, definita
da alcuni “horror ambiental”, o tremendamente affascinante. Ma il “mar de plastico” non è
solo una enorme distesa bianca e riflettente, la gente vive di questo e in questo, tra le
serre, che tradiscono una presenza provvisoria, si intrecciano i fili delle relazioni sociali,
economiche e tecnologiche di un complesso e delicato microcosmo che solo in rare
occasioni sembra varcare la soglia della plastica. Inoltre questa enorme e discutibile
“massa critica” entra in conflitto con altri settori, primo fra tutti il turismo che rappresenta
l’altra grande possibilità di sviluppo dell’area, ma si riflette anche nell’influenza dei prezzi
dei prodotti e soprattutto pone dubbi e induce perplessità sul tipo di uso del territorio.
La realtà agricola almeriense è completamente indipendente dalla politica agricola
europea o spagnola, è completamente autosufficiente, creata e gestita autonomamente
dagli almeriensi. Attualmente l’area coperta dalla plastica comprende circa 27.000 ettari, e
produce 1/3 della ricchezza prodotta a livello agricolo dalla regione Andalusia, regione in
cui si trova la piana del Guadalquivir, riconosciuta come la pianura più fertile d’Europa, ed
in cui troviamo la distesa di ulivi della provincia di Jaen, luogo privilegiato per la
produzione di olio d’oliva, altra gloria dell’economia spagnola. Dunque la ricchezza di
Almería va ben oltre alla dimensione provinciale, anzi, raggiunge perfino la scala europea.
Nel 2001 la Spagna risulta essere lo stato membro dell’Unione Europea che ha
guadagnato maggiormente nell’esportazione di prodotti agricoli, proprio grazie alla
produzione degli ortaggi inoltre è anche la padrona indiscussa della plasticoltura nel
Mediterraneo, seguita da Italia e Turchia. Metà degli ettari coperti di plastica della Spagna
destinati alla produzione dei preziosi ortaggi sono ad Almería
La città di plastica
“La città di Sofronia si compone di due mezze città. Una delle
mezze città è fissa, l’altra è provvisoria e quando il tempo
della sua sosta è finito la schiodano, la smontano e la portano
via, per trapiantarla nei terreni vaghi d’un’altra mezza città. ”
Italo Calvino, Le città invisibili
“In nessun luogo della geografia spagnola i diritti del
lavoratore vengono calpestati come nel ponente almeriense. Il
lavoratore viene braccato dalla polizia, come nella caccia ai
conigli: si effettuano ronde notturne in cerca di «illegali» e
molti lavoratori che vivono in alloggi di fortuna costruiti con
materiali di recupero, allertati dalle luci dei fari, si danno alla
fuga. Sono principalmente magrebini senza documenti di
soggiorno, situazione molto appetibile per gli im-
presari che possono ingannare il lavoratore, evitando di
pagarlo nei termini stipulati dal contratto nazionale di lavoro.”
Abdelkader Chacha in un’intervista,
a cura di Roberto Carlotti, Le serre di El Ejido e i loro
fantasmi
“La "huerta de Europa". Así llaman a la extensión de
invernaderos que brilla en el litoral de Almería. Pero su brillo
se está apagando. Los problemas se acumulan y la herencia
contaminada está saliendo a flote. Hoy la huerta de Europa
crece bajo un laberinto de plásticos y Almería ha dejado de
ser la tierra mísera que fuera antes de los invernaderos, una
árida estepa mediterranea
de artos y arbustos bajo cuyo paraguas de sombra se
refugiaba la vida. Casi nada queda de la estepa ni de los
artos; del endémico parral sólo se adivina la silueta en la
estructura de los invernaderos más viejos. Un verdadero
milagro económico, sin duda, pero con un coste medio-
ambiental impagable. El mar de plástico se ha bebido los
acuíferos y
devorado las playas para alimentar el suelo de sus
invernaderos; ha ocupado ramblas y cauces; ha subido por
los montes a más de 400 m de altura y enterrado toneladas
de plásticos y residuos orgánicos, que siguen supurando
pesticidas y abonos bajo la tierra”
Helena Migueiz y Cristian Añó, Almería: el final de la gran
cosecha
“¿Que va a pasar, luego, cuando no quede ni un monte para
llenarlo de plastico?
¿en que se va a convertir esa tierra?”
dialogo del film “Poniente”, di Chus Gutiérrez
Il rapporto tra uomo e paesaggio
Il paesaggio di Almería è espressione di solo uso, un’enorme macchina produttiva che
manca di simboli, di cultura, di dignità e che a fatica permette una fruibilità fisica. Balza
agli occhi la mancanza di una cultura del territorio e la non consapevolezza da parte di
una società di essere costruttrice dei paesaggi in cui vive.
Eppure questo paesaggio è stato completamente costruito dall’uomo, in pochi decenni
acqua e plastica hanno trasformato una piana arida e stepposa in una miniera d’oro verde.
Di fronte ai paesi “minacciati” dalla plastica che preme ai margini dell’urbano o alla quasi
impossibilità di capire quando finiscano le case e cominci il territorio “rurale” diventa
percepibile una vera e propria insostenibilità paesaggistica. Ma se ciò che si vede può
essere tanto respingente diventa di fondamentale importanza indagare dove si sia rotto il
rapporto tra il territorio e l’uomo che lo vive.
La prima causa risiede nell’intensità del fenomeno: una volta elaborato un modello di uso
del territorio tecnicamente capace di produrre ricchezza si è proceduto con la sua
indiscriminata adozione per ogni fazzoletto di terra. Uno screening degli ultimi quarant’anni
mostra iniziali frammenti di agricoltura intensiva che si fanno via via sempre più estesi fino
a saturare completamente i campos, una volta occupati quelli si è proceduti con la
colonizzazione di nuovi terreni, e allora la plastica ha cominciato a disperdersi anche lungo
la costa granadina, ad aggredire i parchi e ad arrampicarsi sulle montagne, quasi come se
fosse una pianta le cui radici non conoscono resistenza. Un processo di diffusione
inarrestabile che sembra non aver trovato freni e che nel suo evolversi non ha maturato
coscienza e cultura. Non ha saputo fermarsi davanti agli allarmi ambientali o sociali,
nemmeno quando questi hanno varcato la soglia delle serre diventando manifestazioni
esplicite, anche se probabilmente il primo e forte campanello di allarme veniva proprio dal
paesaggio, da quel territorio sotto plastica costruito dall’uomo, che tutti vedono e su cui
tanti si interrogano. Studi svolti più di vent’anni fa indicavano il Campo de Dalías come il
caso più emblematico ed estremo tra i paesaggi spagnoli recentemente trasformati.
La seconda causa che ha inciso fortemente nella costruzione dell’attuale paesaggio è il
passaggio dall’enarenado all’invernadero, registrato negli anni ’70: tale evoluzione non si
può ridurre ai soli termini tecnici, produttivi o economici. I campos disegnati da quadrati di
sabbia su cui crescevano gli ortaggi e rigati da filari di piante che proteggevano le
coltivazioni dai venti denunciavano un uso rurale del territorio. L’avvento delle coperture
plastiche ha dato al territorio un aspetto completamente nuovo, rurale solo sulla carta, ma
essenzialmente urbano per chi lo vive e lo attraversa. Quei quadrati di ortaggi sono
diventati ambienti chiusi e bianchi che nascondono a chi è dentro la vista del mare, delle
montagne o la percezione del vento, e creano al loro interno gradi di temperatura ed
umidità difficili a sopportarsi.
Il paesaggio della plastica, da un punto di vista panoramico, è sorprendente e surreale,
tuttavia questi luoghi diventano sconcertanti quando ci si addentra: strade tutte uguali
delimitate da cortine bianche che riflettono la forte luce solare, odore di plastica scaldata e
raccolti lasciati a marcire agli angoli delle serre, non un albero o un cespuglio, o una
presenza umana. Le impressioni e la percezione dei luoghi sono puramente soggettive e
variano secondo la sensibilità degli individui, tuttavia esistono aspetti preoccupanti che
vanno oltre la dimensione umana. Centinaia di ettari impermeabilizzati dalla plastica si
traducono in un altissimo rischio idrogeologico: inondazione per i campos e frane per i
pendii occupati da serre. L’innalzamento di temperatura al suolo a causa del
riscaldamento dell’ambiente artificiale accelerano i processi di desertificazione, già
innescati dalle capacità attrattiva dei luoghi e dal sovrasfruttamento delle risorse idriche.
L’uomo ha quindi costruito un paesaggio non solo di difficile comprensione, ma addirittura
“pericoloso”, una manifestazione di territorio al limite dei rischi, quasi una bomba, ben
lontano dall’idea di “armonia” tra uomo e territorio o da un’agricoltura sostenibile.