alla popolazione. L’alluvione inondò due terzi del Paese, causando la perdita di interi
raccolti, e provocò la distruzione di migliaia di abitazioni, lasciando gran parte della
popolazione senza alcuna risorsa, minacciando così la sicurezza alimentare di milioni di
famiglie. Tuttavia, malgrado tutto, gli effetti dell’alluvione non furono troppo
drammatici: non seguirono infatti né carestie né gravi crisi alimentari e il numero dei
morti fu molto ridotto, almeno rispetto alle precedenti alluvioni di pari grado,
abbattutesi sul Paese.
Le ragioni di ciò sono da attribuire, come vedremo, alla combinazione di
strategie appropriate, messe in atto dalle stesse famiglie colpite dall’alluvione, dalle
istituzioni nazionali e dalle organizzazioni internazionali.
L’obiettivo della presente tesi è, appunto, quello di analizzare come strategie e
programmi adeguati possano minimizzare le drammatiche conseguenze di shock
improvvisi e migliorare la condizione alimentare delle famiglie affette da insicurezza
alimentare.
Il lavoro è strutturato nel seguente modo: nel secondo capitolo verrà descritto
come si è evoluto nel tempo il concetto di sicurezza alimentare, passando da quello
d’autosufficienza alimentare (self-sufficiency) a quello di sicurezza alimentare (food
security), passando per quello di affidabilità alimentare (food reliability). Verranno
approfonditi tutti e tre i concetti, saranno esaminati i pro e i contro di ognuno di essi,
cercando di identificare in tal modo le cause che hanno portato al superamento dei primi
due e all’affermazione del più attuale concetto della food security.
Nel terzo capitolo saranno esposte le strategie e le politiche che i vari governi
adottano in base alla tipologia d’insicurezza alimentare di cui soffre un Paese e le
risposte a livello individuale, da parte della popolazione. In relazione alla sua
caratterizzazione temporale, l’insicurezza alimentare può essere, infatti, classificata
come perenne, cronica, oppure transitoria. Una volta definito il tipo di insicurezza
alimentare vengono determinate le appropriate strategie di risposta, che sono a loro
volta suddivise in due classi principali: quelle di breve e quelle di medio e lungo
periodo. Avere una comprensione del tipo di insicurezza alimentare è fondamentale per
attuare delle risposte efficaci.
Nel quarto capitolo sarà fatta una presentazione del Bangladesh: sia dal punto di
vista storico e geografico, che da quello socio-economico. In particolare, verrà
esaminata la situazione alimentare presente nel Paese dal 1971, anno della sua
2
indipendenza, ad oggi e saranno analizzate le ragioni della sua elevata insicurezza
alimentare. In particolare verranno approfondite le cause che possono essere ricondotte
all’assenza di uno o più fattori caratterizzanti le tre dimensioni della sicurezza
alimentare: disponibilità, accesso ed utilizzazione degli alimenti.
Nel quinto capitolo sarà riportata la cronistoria della peggiore alluvione del
secolo: quella abbattutasi sul Paese nel 1998, e la risposta da parte delle famiglie e delle
varie organizzazioni, nazionali ed internazionali. Verranno analizzate le motivazioni che
hanno fatto sì che le conseguenze per la popolazione non furono tanto drammatiche e,
nonostante l’estesa inondazione del Paese e gli ingenti danni apportati, il numero dei
decessi fortemente limitato.
Nel sesto capitolo verrà riportata l’evoluzione della politica alimentare nel Paese
dal 1988, quando venne fondata la prima politica alimentare nazionale, e la nascita della
moderna politica alimentare dall’avvento della suddetta alluvione. Nella seconda parte
del capitolo sarà approfondita, invece, la più recente “National food policy”, elaborata
nel 2006, e verrà descritta la sua linea strategica, fondata sul raggiungimento di tre
principali obiettivi, che fanno riferimento, rispettivamente, al soddisfacimento delle tre
dimensioni della sicurezza alimentare. Infine sarà fatta una comparazione tra la
National food policy e le altre politiche vigenti in Bangladesh, in particolare con il
Poverty Reduction Strategy Paper (un documento che ha come principale obiettivo la
riduzione della povertà nel Paese, la cui sicurezza alimentare costituisce uno dei
principali mezzi per soddisfarlo).
Infine, nel settimo ed ultimo capitolo, sarà fatto un esempio pratico-applicativo
di come viene sviluppato il piano d’azione di una politica alimentare. Verrà quindi
spiegato come viene costruito il LogFrame, cioè una matrice che viene utilizzata nel
ciclo di progetto per individuare e definire in maniera logica e sistematica tutti gli
elementi necessari per la realizzazione di un progetto/intrervento ed i nessi causali che
intercorrono tra di essi. Infine saranno creati i logframes per ognuna delle attività,
previste nel terzo obiettivo della National Food Policy, riguardante la dimensione di
utilizzazione alimentare.
3
CAPITOLO 2
La sicurezza alimentare: evoluzione del
concetto e politiche d’intervento
2.1. INTRODUZIONE
Nonostante la soddisfazione dei fabbisogni alimentari e nutrizionali abbia
sempre rivestito un ruolo prioritario all’interno della scala dei bisogni dell’uomo,
l’attenzione da parte della società le è stata rivolta solamente a partire dagli anni ‘70.
In quegli anni nacque il concetto di food self-sufficiency, con il quale si riteneva
che era compito di ogni Paese garantire un’offerta alimentare sufficiente a soddisfare la
domanda alimentare dei propri cittadini, facendo affidamento esclusivamente sulle
risorse interne, e che lo stato fosse il principale responsabile della soddisfazione dei
fabbisogni della popolazione.
La food self-sufficiency dimostrò, tuttavia, di non essere in grado di soddisfare la
domanda interna di molti Paesi. Fu così che, negli anni ‘80, subentrò la teoria della food
reliability, attraverso l’idea che l’apertura al mercato internazionale avrebbe potuto
migliorare le condizioni economico-alimentari di tali Paesi, grazie alla possibilità di
importare i prodotti di cui essi erano carenti. In seguito, con la diffusione del libero
mercato e della globalizzazione degli anni ’90, lo Stato cessò di coprire il ruolo di unico
protagonista all’interno della sicurezza alimentare del Paese, lasciando spazio anche a
privati e la teoria della food reliability trovò un’ulteriore ampliamento con il concetto di
food security. Inoltre, grazie a studiosi come l'economista e premio Nobel indiano
Amartya Sen, l’attenzione cominciò ad essere rivolta non più alla sicurezza alimentare
intesa come bilancio tra offerta e domanda aggregata, ma a quella del singolo individuo,
attraverso l’introduzione del concetto di “entitlement”.
In questo capitolo verrà presa in esame l’evoluzione del concetto di sicurezza
alimentare, partendo dall’originale food self-sufficiency, fino ad arrivare alla più attuale
4
food security. Verranno definite ed analizzate tutte e tre le diverse teorie, cercando di
comprendere le cause che hanno portato al superamento delle prime due e
all’affermazione della food security.
2.2. FOOD SELF-SUFFICIENCY
2.2.1. Come nasce il concetto di food self-sufficiency
Il concetto di food self-sufficiency (autosufficienza alimentare) nasce negli anni
’70 e viene definito come la capacità di un sistema di produrre, indipendentemente e
senza input esterni, la quantità di cibo necessaria al sostentamento fisico e sociale di
tutta la popolazione. Essa viene solitamente misurata con il self-sufficiency ratio (SSR),
vale a dire il rapporto tra il grado di produzione alimentare nazionale e il consumo
interno totale:
SSR = Produzione/(produzione + importazioni - esportazioni) * 100
In quegli anni la situazione alimentare mondiale non era delle più rosee. Molti
Paesi in via di sviluppo, soprattutto in Africa e in parte del sud-est asiatico, si
scontravano quotidianamente con un’estrema scarsità di cibo. Una delle maggiori cause
che portarono alla suddetta situazione fu l’avvento, nella prima metà degli anni settanta,
di condizioni climatiche disastrose, in molte parti del globo. Le conseguenze
sull’agricoltura furono disastrose: danni talmente ingenti che nel 1973 ci fu un crollo
della produzione cerealicola mondiale pari al 3,5% al di sotto del trend.
Questo scenario, con tutte le immaginabili conseguenze, generò un cambiamento
nei confronti del problema alimentare, in generale, e della soddisfazione dei fabbisogni
nutrizionali, in particolare. Nel 1974 venne indetta una Conferenza Alimentare
Mondiale (World Food Conference), con lo scopo di trattare il problema su scala
mondiale
1
. Durante tale conferenza, i vari governi esaminarono la questione globale
della produzione e del consumo alimentare e dichiararono solennemente che «ogni
1 «è deplorevole constatare che è stato necessario attendere il 1974 per vedere il mondo intero prendere
all’improvviso coscienza dell’estensione della malnutrizione». (Michel Ganzin, 1975. Presidente della
“Association Française des Historiens des Idées Politiques”).
5
uomo, donna e bambino ha l’inalienabile diritto di essere libero dalla fame e dalla
malnutrizione, in modo da poter sviluppare le proprie facoltà mentali e fisiche» (United
Nations, 2006). Per cercare di assicurare a tutti questo diritto venne istituito, nel corso
della stessa conferenza, il World Food Council (WFC), costituito da 36 membri.
Compito del WFC era quello di prendere in esame i Paesi con le situazioni politiche più
delicate e quelli con le peggiori carenze nell’ambito della sicurezza alimentare. In un
primo momento l’approccio del WFC fu quello di incoraggiare l’adozione di un sistema
di strategia alimentare nazionale, all’interno dei Paesi in via di sviluppo, e di spingere
ogni Paese a dare priorità alla soddisfazione dei fabbisogni alimentari della propria
popolazione, tentando, in tal modo, di ridurre la dipendenza alimentare dai Paesi più
sviluppati.
Era necessario, prima di tutto, formulare politiche alimentari nazionali concrete,
che tenessero conto di diversi fattori, tra cui la domanda alimentare, la disponibilità
degli approvvigionamenti, il potenziale di crescita della produzione, la capacità di
stoccaggio e di distribuzione, i trasporti, la commercializzazione e, non ultima, la
capacità di far fronte ad emergenze alimentari.
Una delle principali misure prese dalla conferenza fu quella di incentivare la
produzione interna dei Paesi in via di sviluppo. Ciò non solamente per le
raccomandazioni del WFC, ma anche per il fatto che l’offerta alimentare di tali Paesi
non stava aumentando in maniera proporzionale alla crescita demografica, e quindi alla
domanda, e ciò provocava effetti negativi sullo stato nutrizionale e sul grado
d’indipendenza alimentare della popolazione.
Questo nuovo concetto di politica alimentare poneva, come abbiamo visto, lo
Stato al centro della risoluzione dei problemi alimentari e il principio motore su cui si
basava era che ogni Paese doveva anzitutto curare l’approvvigionamento della propria
popolazione, tentando di migliorare la sua situazione alimentare, e ridurre al minimo la
dipendenza alimentare dagli altri Paesi. Da qui nacque la nozione di “sviluppo
autarchico”, che è associata al concetto di autosufficienza alimentare.
6
2.2.2. Come si può ottenere la self-sufficiency
Per tutti gli anni ‛70 e l’inizio degli anni ‛80, la sicurezza alimentare fondata
sull’autosufficienza ha rappresentato il punto focale di ogni politica alimentare
nazionale.
L’operato del WFC ha reso possibile trasmettere ai Paesi in via di sviluppo
l’importanza di investire e di migliorare le proprie risorse, con lo scopo di raggiungere il
maggior grado di autonomia possibile, grazie ad uno sforzo integrato dell’aumento della
produzione, del miglioramento dei consumi alimentari e dell’eliminazione del problema
della fame.
Secondo alcuni studiosi un Paese può ottenere una migliore sicurezza alimentare
attraverso un maggiore controllo sull’offerta. Ciò può essere fatto limitandosi alla sola
produzione locale, in quanto l’indipendenza dal mercato internazionale consente di
evitare i possibili rischi associati alle transazioni economiche con altri Paesi, come la
dipendenza delle importazioni da Stati politicamente ostili, o i cambiamenti avversi del
tasso di cambio.
Per riuscire ad ottenere una maggiore indipendenza alimentare è necessario che
ogni Paese effettui, in primo luogo, un’attenta analisi della situazione nutrizionale della
propria popolazione, così da poter elaborare un set di misure e progetti adeguati per il
raggiungimento della sicurezza alimentare.
Il programma della politica della self-sufficiency ha come principale obiettivo
quello di portare la produzione nazionale a buoni livelli economici e di assicurare anche
alla parte della popolazione più svantaggiata un adeguato accesso al cibo.
Essenziale è, inoltre, che ogni Paese abbia familiarità con tutti gli elementi della
catena alimentare e con il loro funzionamento e che ci sia coordinazione e integrazione
tra tutte le politiche del settore. Questa impresa richiede un particolare impegno da parte
del governo nella ricerca di una efficace soluzione al problema alimentare, in cui lo
stesso governo occupa una posizione attiva e centrale.
7
2.2.3. Analisi della politica della self-sufficiency
Da molti studiosi la self-sufficiency viene considerata un importante mezzo nella
lotta contro la fame e la carestia nei Paesi in via di sviluppo, dal momento che la
diminuzione della dipendenza economica di tali Paesi, verso quelli più sviluppati,
dovrebbe essere comunque accompagnata da un incremento del potere d’acquisto
interno; in caso contrario tale dipendenza continuerà ad aumentare in modo
esponenziale (Drèze, 1990).
In un regime di libero mercato, molto probabilmente, si andrebbe a peggiorare la
sicurezza alimentare dei consumatori più poveri, in quanto i produttori tenderebbero ad
esportare i prodotti alimentari di base, per le maggiori probabilità di vendita all’estero a
condizione più favorevoli, determinando un incremento dei prezzi locali.
Altri Paesi hanno incentivato la produzione locale anche con l’intento di
produrre una quantità di cibo sufficiente a sopperire ai fabbisogni della popolazione, nel
caso in cui le importazioni diventino inaccessibili, come ad esempio a seguito di
conflitti o in caso di crisi alimentare globale.
Tra i vantaggi della self-sufficiency vi è quello di preservare i Paesi dalle
turbolenze e dalle incertezze del mercato internazionale e dalle fluttuazioni
incontrollabili del prezzi dei prodotti agricoli, o quello di supportare, se non addirittura
proteggere, gli agricoltori locali. La self-sufficiency viene sì percepita da molti governi
come una pre-condizione indispensabile per il raggiungimento di un adeguato stato di
benessere, attraverso l’incremento della produzione nazionale, ma anche, e cosa ancora
più rilevante, come uno strumento strategico utile a creare o mantenere una condizione
di stabilità politica.
Tuttavia i Paesi in via di sviluppo possono far affidamento esclusivamente sulla
propria produzione interna solo se la loro popolazione è in grado di sostenere un
eventuale aumento dei prezzi interni oppure se vengono concessi degli incentivi ai
produttori. Senza contare, inoltre, il problema del peso del debito estero dei Paesi in via
di sviluppo, che ha pesantemente ridotto l'autonomia dei loro sistemi alimentari,
privandoli delle risorse economiche che avrebbero potuto essere impiegate nelle
politiche di sviluppo agricolo.
La politica della self-sufficiency, in realtà porta spesso notevoli svantaggi. Paesi
in cui l’autosufficienza alimentare è molto instabile possono essere facilmente piegati
8
da eventi climatici avversi, come alluvioni o siccità, e di conseguenza diventare
totalmente dipendenti dagli aiuti esterni e dalle importazioni.
Per alcuni studiosi, inoltre, la politica dell’autosufficienza alimentare è
controproducente per lo stesso Paese che l’adotta. Le ragioni di queste affermazioni
sono diverse e possono essere riassunte nei seguenti esempi:
- alcuni Paesi sono diventati vittime del loro stesso “successo”. La Politica
Agricola Comunitaria (Common Agricultural Policy - CAP) dell’Unione
Europea ben spiega questo paradosso: lo sforzo effettuato per ricostruire la
produzione dei membri della Comunità Economica Europea, in seguito alla
devastazione della seconda guerra mondiale ha avuto un enorme successo.
Tuttavia, gli autori della CAP non avevano previsto le difficoltà politiche che si
sarebbero potute presentare nel rimuovere i sussidi pubblici e gli incentivi alla
produzione una volta cessato il bisogno di espansione di tale produzione
(eccesso do offerta);
- diversi Paesi possiedono preziose risorse in gran quantità, spesso non legate
alla produzione agricola (come ad esempio il petrolio), oppure godono di
importanti fattori indispensabili allo sviluppo e alla crescita economica di
diversi settori, come quello dei servizi. Grazie alle esportazioni di tali risorse,
pur non disponendo di una self-sufficiency alimentare, i suddetti Paesi
potrebbero disporre di un sufficiente grado di sicurezza alimentare, in quanto in
grado di importare i generi alimentari di cui necessitano, anche in caso di un
improvviso aumento dei prezzi nel mercato mondiale.
- L’autosufficienza alimentare è per molti Paesi un’aspirazione quanto mai
irrealistica, se non impossibile. Alcuni di essi, come l’isola di Capo Verde o
Singapore, sono privi di risorse naturali sufficienti a produrre tutto il cibo di cui
i loro abitanti necessitano e, in generale, la distribuzione delle risorse naturali
necessarie per la produzione alimentare (acqua, suolo e clima) non corrisponde
alla distribuzione geografica della popolazione e, di conseguenza, alla
domanda alimentare. Altri non dispongono delle capacità e dei mezzi necessari
per incrementare la loro produzione alimentare interna, non avendo mai
investito in questo settore nel corso degli anni. Tali Paesi non potranno mai
raggiungere un adeguato livello di sicurezza alimentare, se si rimane nella sola
ottica della self-sufficiency.
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Dagli anni ‘80 la teoria e la pratica economica internazionale si sono evolute. Il
principio dominante ha iniziato a vertere su meccanismi di scambio basati sul
commercio e a sminuire il ruolo dello Stato all’interno dell’economia.
Gli eventi hanno dimostrato che la sicurezza alimentare può essere raggiunta,
con migliori risultati, in un mondo economicamente integrato e politicamente
interdipendente. In un mercato globale i beni alimentari possono essere infatti
facilmente trasferiti da regioni dove sono in surplus ad altre in stato di deficit.
L’integrazione economica, per di più, mantiene bassi i costi della materie prime per la
produzione ed assicura l’accesso ai mercati anche in periodi critici.
Se per alcuni Paesi possono esistere delle ragioni specifiche per mirare
all’autosufficienza alimentare, è generalmente conveniente dal punto di vista economico
seguire una politica di autonomia alimentare più flessibile, a condizione che gli
importatori possano contare sul mercato mondiale, come fonte affidabile ed efficiente di
approvvigionamento, e gli esportatori dispongano di un mercato in espansione per i loro
prodotti. Come riconosciuto nella Dichiarazione di Roma del 1996 (Rome Declaration
and Plan of Action) il commercio è un elemento chiave per la sicurezza alimentare, in
quanto stimola la crescita economica, permettendo, quindi, ai Paesi in via di sviluppo di
essere self-reliant, piuttosto che self-sufficient.
10
2.3. FOOD RELIABILITY
2.3.1. La food self-reliability
Negli anni ‘80 la tendenza nella politica economica era di abbandonare la teoria
della self-sufficiency verso una parziale apertura al mercato internazionale. Una delle
principali ragioni di questo cambiamento fu la diffusa scarsità di cibo e di acqua,
causata sia da catastrofi naturali che da un incremento della popolazione talmente
rapido da ridurne pesantemente la quantità pro capite.
Il concetto di food self-reliability conserva il principio della self-sufficiency di
possedere un livello adeguato di produzione interna, ma aggiunge la possibilità di
accedere al commercio internazionale importando alcuni prodotti ed esportandone altri.
L’adozione della strategia di self-reliability riflette una serie di misure politiche
in cui il commercio internazionale, con i rischi e i benefici ad esso legati, rappresenta
un’importante fonte di sostentamento. Uno dei principali vantaggi del commercio è
quello di permettere alla popolazione di acquistare beni alimentari ad un prezzo
inferiore, grazie all’importazione di prodotti meno costosi, anche se spesso ciò va a
discapito dei produttori nazionali.
In relazione alla propria condizione alimentare esistono quattro principali
situazioni in cui un Paese può trovarsi:
a) alcuni Paesi con un’agricoltura efficiente sono esportatori netti di cibo: la
sicurezza alimentare non dovrebbe rappresentare per loro un problema, nel caso
in cui sono implicati nel commercio estero;
b) alcuni Paesi sono naturalmente self-sufficient: ai prezzi correnti locali, che
dovrebbero essere equivalenti ai prezzi sul mercato mondiale, i produttori sono
in grado di soddisfare le richieste alimentari della popolazione, almeno in
condizioni normali; in anni favorevoli potrebbero addirittura esportare cibo o
stoccarne una parte, come assicurazione per gli anni meno prosperi.
c) alcuni Paesi non sono self-sufficient, ma attraverso le esportazioni possono
permettersi di importare il cibo di cui necessitano, diventando in questo modo
self-reliant. Il rischio a cui vanno incontro, tuttavia, è l’esportazione eccessiva di
beni primari. Sarebbe conveniente, quindi, per questi Paesi esportare un
portafoglio diversificato di prodotti, specialmente di tipo industriale;
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d) alcuni Paesi soffrono naturalmente di insicurezza alimentare: sono questi i Paesi
strettamente dipendenti dagli aiuti alimentari o dai sussidi, che possono però
essere da loro utilizzati per finanziare le importazioni di cibo.
2.3.2. Evoluzione del concetto di food reliability
L’ampliamento della teoria della self-reliability verso quella del libero mercato può
essere spiegato da tre motivazioni:
a) mancanza nei Paesi meno sviluppati di una indipendenza finanziaria, condizione
essenziale per implementare una situazione di self-sufficiency. Ciò è stato
determinato dal crollo dei proventi delle esportazioni, nonostante l’aumento
vertiginoso dei prezzi dei beni, dei servizi e dei prodotti alimentari acquistati sul
mercato internazionale. Questo squilibrio generò serie ripercussioni
sull’equilibrio finanziario dei Paesi più poveri;
b) aumento della domanda e delle importazioni causati dalla politica dei sussidi e
dalla crescita demografica, con conseguente incremento della dipendenza dai
Paesi esteri e ripercussioni sul debito pubblico;
c) difficoltà nell’amministrare una politica di autosufficienza alimentare, dal
momento che essa richiede un punto d’incontro tra gli interessi contrastanti di
diversi gruppi sociali.
A causa delle difficoltà riscontrate nel superare le suddette problematiche, i vari
governi sono stati costretti ad aprirsi al mercato internazionale. L’abbandono della
politica di self-reliability è stato infatti imposto più dalla situazione economica e da
relazioni di un certo potere sociale, che da una scelta ragionata di tipo strategico.
Ciò di cui ogni Paese ha bisogno è la possibilità di effettuare scambi
internazionali, basati sul vantaggio comparato. La stessa FAO (FAO, 1996b) afferma
che: «il commercio favorisce maggiormente l’accesso al cibo grazie all’effetto positivo
che ha sulla crescita economica e sullo sviluppo. Senza scambi internazionali ogni
Paese dovrebbe contare esclusivamente sulla propria produzione interna: ciò potrebbe
portare ad un decremento della media dei redditi della popolazione, ad una minore
possibilità di scelta nel paniere dei beni e ad un allargamento del problema della fame».
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