interventi che si propongono di affrontare la questione con una visuale prettamente
scientifica sono proporzionalmente pochi. Molto più diffusi sono invece i manuali
contenenti suggerimenti rivolti ai managers e agli imprenditori, nati, in altre parole, con
l'obiettivo di evidenziare loro i vantaggi legati alla nuova tecnica e indicando, nella
maggioranza dei casi, pochi, fondamentali passi necessari per consentire
all'empowerment di entrare in funzione nell'azienda. In realtà, i trattati in questione, al
di là dei casi specifici, presentano in comune un equivoco molto grave, il quale rischia,
infatti, di generare risultati distorsivi non richiesti. L'empowerment, infatti, richiede ben
più che pochi passi per essere implementato correttamente; e, soprattutto, è pressoché
impossibile riuscire a realizzarlo semplicemente con delle decisioni prese dall'alto,
imposte alla forza-lavoro in una tradizionale ottica di genere top-down. Le variabili
legate all'ambiente esterno, alla personalità dei lavoratori, alla cultura aziendale e alla
stessa figura dei dirigenti si presentano in un numero talmente ampio e rilevante da
rendere impossibile una programmazione dettagliata relativa alla gestione
dell'empowerment, o forse è più adatto il termine "creazione", poiché nella generalità
dei casi esso va infatti fatto sorgere ex novo, in un contesto che ne è privo e spesso è
ostile a esperimenti organizzativi nel campo della direzione delle risorse umane.
La prima parte della trattazione fa riferimento al quadro generale in cui l'ipotesi di
empowerment viene a localizzarsi. L'empowerment, infatti, si colloca all'interno di
quell'insieme, vasto ed in continua evoluzione, di tecniche e filosofie gestionali ed
organizzative che si sono sviluppate e succedute con ritmo quasi frenetico durante gli
ultimi decenni, da quando cioè il paradigma organizzativo universalmente noto come
"fordismo" ha iniziato ad entrare in crisi. A dire il vero, le vie gestionali alternative che
sono state proposte da allora, e che sono volte, nelle intenzioni, a determinare un nuovo
tipo di impresa, denominata genericamente come post-fordista, sono frequentemente
molto difficili da distinguere fra loro, per una pluralità di motivi, fra cui i principali
risultano essere due:
- Il fordismo traeva, e trae ancora laddove permane, quasi tutta la sua ispirazione dalla
celebre opera di Taylor
4
, mentre i nuovi paradigmi derivano dalle numerosissime
pubblicazioni succedutesi in questi anni ad opera di autori noti e meno noti, nessuno
dei quali, tuttavia, è assurto al ruolo di "profeta" della nuova strada da percorrere, e
perciò incontrastato nelle sue conclusioni dagli altri autori, contrariamente a quanto,
per molto tempo, era accaduto a Taylor.
- In secondo luogo, è estremamente frequente che lo stesso termine sia usato con
significati diversi da più autori, o, viceversa, che terminologie diverse siano adottate
per indicare principi analoghi, se non identici.
L'empowerment, pertanto, non può essere affrontato e conosciuto in maniera compiuta
senza avere in precedenza effettuato un'analisi perlomeno a livello generale su quelle
che sono le principali teorie microeconomiche relative al nuovo paradigma destinato,
almeno nelle intenzioni, a sostituire il fordismo. Essendo un'esposizione completa non
proponibile in questa sede, il proposito è quello, dopo aver accennato la tematica della
crisi del fordismo in maniera sommaria, di riservare l'attenzione ad alcune di queste
correnti teoriche e organizzative, quelle maggiormente connesse con il tema
dell'empowerment. In particolare, si farà riferimento al Toyotismo e ai suoi legami con
la cosiddetta "produzione snella", alla learning organization e al lavoro di gruppo, che
accademicamente viene spesso citato nella sua dizione anglosassone (teamwork).
La seconda parte dell'esposizione affronterà invece in maniera più completa il tema
dell'empowerment. Si cercherà, innanzitutto, di offrire un'individuazione più precisa del
4
Taylor F.W., Scientific Management, Hayer Brothers, New York 1911 (Trad. it. L'organizzazione
scientifica del lavoro, Etas Kompass, Milano 1967).
4
fenomeno, con riferimento alle varie definizioni che sono state proposte, ma soprattutto
con riferimento a come esso viene a presentarsi nella pratica, partendo dalla
convinzione che nessuna teoria può mai essere compresa appieno se in precedenza non
si è osservato come essa trova applicazione nella realtà concreta.
Il passaggio successivo consisterà nell'individuazione di quelli che si possono ritenere
come gli elementi comuni che l'empowerment presenta con la learning organization e
con il teamwork, le cui tematiche complessive, come detto, saranno già state esposte.
L'empowerment costituisce infatti una colonna portante dell'"organizzazione che
apprende", sia pure non l'unica. Si cercherà di mostrare come una learning organization,
per operare con efficienza e validità, faccia riferimento, insieme ad altri fattori, ad un
coinvolgimento diretto dei lavoratori nel processo di formazione e apprendimento, la cui
partecipazione al progetto necessita di essere accompagnata da una forte concessione di
autonomia nella gestione e nello sviluppo del progetto stesso. Tra i diversi strumenti che
si possono applicare nella crescita dell'apprendimento organizzativo e che rientrano
nella logica dell'empowerment, una particolare attenzione sarà riservata al counseling.
Successivamente, si tenderà ad evidenziare i legami fortissimi che l'empowerment
presenta con il teamwork. Pur essendo, infatti, concettualmente diversi, i due generi di
tecnica di gestione delle risorse umane presentano numerose analogie, al punto che,
nella pratica aziendale, è piuttosto raro riscontrare fenomeni di lavoro di gruppo i cui
componenti non siano empowered, così come è raro che l'empowerment venga calato
nella realtà d'impresa con riferimento a singoli individui, considerati separatamente gli
uni dagli altri.
Le altre teorie citate nella prima parte (Toyotismo e produzione snella) costituiscono
riflessioni condotte a un livello molto ampio ed elevato. Esse vengono a porsi nel
panorama accademico e manageriale come degli autentici paradigmi a tutto campo, in
grado di competere, quanto a complessità e portata, con la stessa concezione di impresa
come è venuta a svilupparsi nei due secoli successivi alla Rivoluzione Industriale. E'
perciò manifesto che i riflessi collegati alla tematica specifica dell'empowerment sono
molto numerosi e altrettanto sfumati, legati a mille piccoli fenomeni propri della
quotidiana gestione dell'azienda. La breve esposizione condotta nella prima parte
dovrebbe perciò risultare sufficiente per inquadrare il problema, e non si ritiene
necessario effettuare un ulteriore approfondimento sul ruolo che riveste in quest'ambito
l'empowerment. E' d'altronde evidente che in questo discorso l'empowerment, per
quanto diffuso e considerato, costituisce un elemento sì fondante, ma pur sempre
limitato all'area funzionale delle risorse umane; le connessioni con le vicende di
carattere finanziario, amministrativo, produttivo e di marketing sono meno percettibili,
nel senso che, in una visione olistica dell'impresa, le influenze reciproche sono
naturalmente presenti, ma comunque per via indiretta. In effetti, il tema delle modalità
in cui viene diretta la forza-lavoro appare concettualmente distinto da quello relativo
alle attività che sono oggetto della loro opera.
Il ruolo del leader, seppure presenti palesi connessioni con le vicende del teamwork,
sarà considerato separatamente. Si cercherà di evidenziare l'importanza che questa
figura riveste in un'efficace applicazione dell'empowerment, partendo dal presupposto
che nessun lavoratore si sentirà veramente empowered se non avvertirà con sufficiente
convinzione la fiducia, l'appoggio e la guida di chi è gerarchicamente a lui
sovraordinato. In particolare, si cercherà di tracciare i connotati fondamentali della
figura del cosiddetto leader empowering.
Una volta compiute queste considerazioni, le quali costituiscono una sorta di cornice in
cui collocare il discorso, si affronteranno in maniera più dettagliata le prospettive legate
a un'adeguata applicazione dell'empowerment. Attenzione particolare sarà riservata ai
fattori di successo che consentono alla teoria di conseguire le risposte ricercate. Tra
questi, un'attenzione centrale sarà riservata al coinvolgimento effettivo dei dipendenti e
5
alle modalità con cui la nozione di empowerment viene incontro alle loro esigenze
interne in qualità di esseri umani dotati di motivazioni su cui è possibile fare leva per
l'ottenimento dei risultati auspicati dalla dirigenza dell'impresa, riuscendo nello stesso
tempo a favorire l'intima soddisfazione dei lavoratori. L'idea che la partecipazione dei
lavoratori possa permettere il raggiungimento di elevati standard di produttività non è
certamente recente; ma con la teoria dell'empowerment, essa si arricchisce di significati
nuovi, legati a una concezione del potere qualitativamente differente rispetto al passato.
Non meno rilevante per il successo dell'iniziativa, inoltre, è la fiducia che deve
caratterizzare le relazioni interpersonali, tanto più importante quanto più lo è il lavoro di
squadra nella struttura organizzativa.
Come già accennato, una larga parte della letteratura fiorita negli anni Novanta
sull'empowerment è sorta con propositi pratici: in altre parole, sono stati e sono tuttora
pubblicati testi caratterizzati dallo scopo di rivolgersi prevalentemente a dirigenti e
imprenditori, indicando i vari stadi da superare per poter attuare un valido programma di
empowerment in un'azienda condotta con metodi più tradizionali. Si mostreranno,
pertanto, alcuni tra i più espressivi dei sentieri proposti per l'implementazione
dell'empowerment. E' infatti indiscutibile che, se questi manuali hanno il difetto di
trattare la materia in modo forse semplicistico e, soprattutto, entusiastico, quasi come se
l'empowerment costituisse una panacea contro le difficoltà gestionali di qualunque
impresa, indipendentemente dalle dimensioni e dalla natura dell'attività svolta, è
altrettanto vero che, in una scienza sociale come l'economia, ogni teoria, per quanto
concettualmente valida, costituirebbe solo un vuoto involucro se non si individuassero
gli strumenti concreti perché possa poi davvero trovare esercizio nella realtà
imprenditoriale di tutti i giorni, uscendo dunque da un limbo teorico privo di significato.
A conclusione di questa parte, si compiranno degli accenni ad alcuni esperimenti
positivi di empowerment. Premesso che la letteratura degli anni Novanta risulta
quantomai ricca di esempi sull'argomento, e la generalità di essi appare caratterizzata da
successo e soddisfazioni, tanto per i managers quanto per i salariati, si offriranno alcuni
di questi modelli, scelti tra quelli ritenuti più espressivi. Appare infatti inderogabile
l'esigenza di connettere l'ampio discorso introduttivo di stampo dottrinale con le
esperienze tratte dalla realtà empirica.
Sia pure in maniera implicita, si è fatto riferimento ad alcune illusioni
dell'empowerment, intendendo la parola "illusioni" nel senso più avanti spiegato. Si è
infatti detto di come l'attenzione serbata verso l'empowerment sia ammantata da un'aura
di entusiasmo quasi incontrastata. Relativamente alle trentamila pubblicazioni
sull'empowerment a cui si è accennato, una percentuale non distante dal 100% dipinge il
fenomeno come straordinariamente valido ed efficace, il modo migliore per gestire il
personale dell'impresa, e, di riflesso, l'insieme delle funzioni proprie della stessa.
Tuttavia, alcuni voci critiche si sono levate. Parte di loro mette in luce i limiti di
carattere oggettivo e soggettivo propri dell'empowerment, derivanti, in altre parole, da
carenze collegate allo stesso fenomeno, ma anche dall'atteggiamento di coloro che
all'interno dell'azienda, a livello decisionale ed operativo, si trovano a doverlo attuare; e
parte, invece, pone l'accento sull'esagerata attenzione riservata alla materia;
un'attenzione che, come già detto in precedenza, sembra prenotare per l'empowerment il
ruolo di panacea, di elemento la cui presenza o assenza determina il successo o il
fallimento dell'organizzazione.
Il riferimento alle illusioni dell'empowerment, dunque, non dipende solo dall'analisi
degli interventi di coloro che, contestando l'empowerment, ne mettono in risalto i limiti
e propongono soluzioni alternative; ma anche da quella condotta su coloro che, pur
riconoscendo all'empowerment una sua intrinseca validità, oppongono tuttavia
l'obiezione che esso da solo non è sufficiente a portare all'efficienza un'impresa, e che
6
l'impresa stessa, in rapporto ad alcuni suoi elementi fondamentali (personalità di
dirigenti e lavoratori, attività svolta, ambiente operativo e generale, dimensioni
aziendali...), può reagire diversamente all'implementazione dell'empowerment, anche
quando questa fosse compiuta nel massimo rispetto del suo significato più profondo.
In definitiva, alcuni contestano l'empowerment, altri tendono a ridimensionarlo; gli uni
e gli altri hanno in comune il fatto di essere voci piuttosto isolate, ma non per questo
sono meno rilevanti.
La terza parte dell'esposizione, dunque, fa riferimento alle illusioni dell'empowerment.
In un primo momento, l'attenzione sarà posta all'approfondimento delle modalità e delle
ragioni tipiche dell'euforia per l'empowerment, proponendo un parallelo con il
celeberrimo "one-best-way" di tayloriana memoria; successivamente, si evidenzieranno
i limiti dell'empowerment, cercando di porre, come accennato, una distinzione tra quelli
oggettivi, connaturati alla nozione stessa di empowerment, e quelli soggettivi, derivanti
dai modi eventualmente negativi con cui i differenti soggetti aziendali possono
rispondere agli esperimenti di empowerment. E' corretto riconoscere fin da questo
primo momento che le mosse sono prese soprattutto a partire da un articolo fortemente
critico di Argyris
5
, che condensa in poche pagine alcune osservazioni meritevoli di uno
sviluppo ben maggiore.
Da ultimo, e in simmetria con la seconda parte, si proporranno alcuni accenni ad
esperienze negative di empowerment, tratte dalla realtà concreta. E' necessario, tuttavia,
preavvertire che gli esempi in materia sono proporzionalmente pochissimi, se posti in
comparazione con quelli positivi, che in letteratura, come detto, sono invece molto
numerosi. Quest'analisi empirica, pertanto, potrebbe apparire lacunosa; non è escluso,
tuttavia, che in un prossimo futuro la breccia critica aperta recentemente possa suggerire
ricerche più approfondite sui risultati negativi eventualmente presenti nella realtà delle
imprese che hanno sperimentato l'implementazione dell'empowerment in misura acritica
e non tenente conto di quei fattori aziendali ed ambientali che, come si è ripetuto,
risultano spesso determinanti.
Al termine dell'esposizione, si cercheranno di trarre delle conclusioni dal discorso
sviluppato. L'intenzione è quella di comprendere l'esatta natura del fenomeno
multiforme noto come "empowerment", inquadrato in un discorso più generale relativo
alla transizione verso il post-fordismo. Si cercherà di valutare e di confrontare, senza
posizioni preconcette, i suoi fattori di successo e i suoi limiti, i motivi della sua
esaltazione e gli effettivi fondamenti di questa.
Punto di arrivo sarà una considerazione obiettivamente inevitabile: quello
dell'empowerment è un concetto troppo recente e, contemporaneamente, sbocciato in
maniera troppo repentina per poterlo considerare con completezza. La valutazione
complessiva che si proverà a compiere, pertanto, non potrà che essere soggetta a future
prosecuzioni, miglioramenti e, eventualmente, ripensamenti, tanto più numerosi quanto
più l'attenzione accademica e la pratica manageriale sull'argomento risulteranno non
soltanto diffusi, ma anche, contemporaneamente, obiettivi.
5
Argyris C., "Empowerment: the emperor's new clothes", Harvard business review, n. 3/1998, pagg. 98-
105.
7
Parte prima: Quadro generale
1. Il sistema organizzativo post-fordista
Nessuna teoria organizzativa ha mai incontrato il successo, l'attenzione e la diffusione
che ha avuto il taylorismo; e, in uguale modo, nessuna teoria ha subito così tante
critiche e contestazioni come lo stesso. I motivi della sua diffusione si riassumono
abbastanza facilmente nella considerazione che Taylor fu il primo a proporre un'analisi
dell'attività d'impresa (o, più esattamente, della fabbrica) che affrontasse il problema da
un punto di vista scientifico, con l'obiettivo dichiarato di massimizzare l'efficienza; la
sua constatazione di base, ispirata dalla sua esperienza di direttore di stabilimento
industriale, consisteva nella considerazione che "il tipo di conduzione basato sulla
raccolta di forza-lavoro generica, sull'incoraggiamento ad personam, su forme di
remunerazione svincolate dai tempi da rispettare e dagli obiettivi da raggiungere"
6
era
inadeguata per soddisfare le esigenze dell'azienda in termini di produttività.
A fronte di questo comportamento diffuso basato sulla ridotta ricerca dei metodi
migliori per migliorare i risultati, Taylor propose il suo "scientific management"
7
, i cui
principi fondamentali si dimostrarono tanto semplici quanto rivoluzionari.
Non è qui possibile affrontare il discorso in maniera compiuta. In questa sede, è
sufficiente richiamare le colonne portanti del taylorismo in tema di gestione di risorse
umane, riassumibili in alcuni principi fondamentali, dei quali i più indicativi risultano:
- la conoscenza del contenuto delle mansioni è riservata ai dirigenti;
- per il lavoratore è necessario e sufficiente conoscere come compiere una serie di
gesti ripetitivi relativi al compito assegnato, senza particolari relazioni con quanto
effettuato dagli altri dipendenti e senza poter intervenire per l'individuazione di
nuovi metodi con cui portare a termine i compiti stessi;
- qualora si verificassero situazioni che il lavoratore non è in grado di affrontare sulla
base delle (scarse) informazioni possedute, non ha la possibilità né la capacità di
risolvere questi problemi, dovendo cioè lasciare il compito risolutivo ai managers
(principio di eccezione);
- occorre che i singoli dipendenti siano accuratamente selezionati e addestrati al fine
di elevare la produttività individuale;
- gli operai sono fondamentalmente indifferenti al risultato dell'impresa: l'unico
obiettivo che muove le loro azioni è la ricerca del salario, pertanto un sistema
remunerativo adeguato alla necessità si deve basare sull'incentivazione fondata sui
risultati concreti e che premi i dipendenti più efficienti con differenziali nella
retribuzione;
- anche al fine di evitare fenomeni di sindacalizzazione, occorre instaurare rapporti di
stima e di collaborazione fra direzione e manodopera, la quale genera maggiore
impegno se riconosce l'autorità e la guida di un "capo ottimista"
8
;
- deve ricercarsi ogni sistema possibile che consenta di eliminare i "tempi morti" della
produzione, e, più in generale, consenta il risparmio del fattore temporale; da questo
deriva l'esigenza di elaborare sistemi produttivi che scientifichino tempi e metodi di
ciascuna mansione, al fine di portare al livello quantitativo più elevato possibile
l'output di ogni giornata lavorativa.
6
Cafferata R., a cura di, Management e organizzazione aziendale: materiali di studio II edizione, Aracne,
Roma 1999 pagg.33-34.
7
Taylor F., Scientific Management, op. cit.
8
Cafferata R., a cura di, Management e organizzazione aziendale: materiali di studio, op. cit., pag. 37.
8
Il risultato finale ricercato dall'applicazione di questi principi è la massimizzazione
dell'efficienza tanto del personale quanto dei dirigenti, che, affrancati dai compiti più
ripetitivi, possono dedicare i propri sforzi e le proprie conoscenze alle questioni di
carattere strategico.
Taylor definisce il proprio metodo come l'unico in grado di risolvere i problemi
gestionali di ogni tipo di organizzazione, indipendentemente dalla natura dell'attività
svolta e dai fattori di origine esterna all'impresa (concorrenza, domanda della clientela,
tecnologia, ruolo della Pubblica Amministrazione, fornitori, finanziatori...). Le sue
analisi, in altre parole, possono trovare applicazione in qualsiasi azienda, in quanto le
questioni legate alla corretta gestione della forza-lavoro si ripropongono ovunque in
uguali termini. L'universalità che egli attribuisce alle proprie teorie è passata alla storia
come "one-best-way". Ed è indiscutibile che alcune di queste nozioni, come la necessità
di addestramento e perfezionamento della manodopera e l'instaurazione di rapporti di
stima e collaborazione fra quest'ultima e la direzione costituiscano parte integrante degli
orientamenti teorici più recenti.
Il risvolto pratico del "scientific management" è noto come "fordismo", essendo stato
forgiato quasi un secolo fa nella fabbrica automobilistica di Ford. Il fordismo riprende e
arricchisce le idee di Taylor, determinando il paradigma della produzione di massa,
tanto diffuso quanto lungamente incontrastato; e l'universalità pretesa da Taylor per il
suo "scientific management" ha trovato il suo riscontro nell'effettiva attuazione che le
più varie organizzazioni hanno fatto del fordismo in tutto il pianeta.
L'accennato arricchimento compiuto da Ford sulle teorie di Taylor consiste nel
superamento della visione separata dei singoli lavoratori. "A Ford spetta il merito di
aver ripensato il processo manifatturiero come un flusso unitario in cui l'attività
parcellizzata e standardizzata dei lavoratori si integra con le lavorazioni svolte da
macchine utensili dedicate [...]. Con Ford l'integrazione del lavoro, praticamente assente
nel taylorismo, assurge ad essenza della meccanizzazione che caratterizza il moderno
processo produttivo"
9
. Il risultato della maggiore attenzione all'integrazione fra le
mansioni dei singoli dipendenti e tra queste e le macchine utensili della fabbrica si è
tradotto, in termini pratici, nella catena di montaggio, autentico simbolo della
produzione di massa da una parte e dell'alienazione del lavoratore dal processo
produttivo dall'altra.
In una situazione di mercato in cui la domanda rimaneva largamente al di sopra
dell'offerta e in cui l'esigenza produttiva fondamentale era la standardizzazione
finalizzata all'ottenimento delle economie di scala, il ruolo del lavoratore appariva
assolutamente strumentale ai tempi e alle caratteristiche tecniche della macchina; "al
lavoratore di 'prima categoria' taylorista si sostituisce l'operaio-massa totalmente
intercambiabile della catena di montaggio"
10
.
Se quasi immediatamente si levarono dal mondo accademico critiche al paradigma
taylorista-fordista, la reazione dell'ambito imprenditoriale fu entusiastica. Le accennate
esigenze produttive, legate alla cronica insufficienza dell'offerta, giustificavano l'ampio
ricorso alle tecniche organizzative della produzione di massa. Quando queste esigenze
vennero a ridursi fino, in alcuni settori, a scomparire, il declino del fordismo si è
rivelato conseguenza inevitabile.
Storicamente, questo si è verificato in coincidenza con la crisi economica mondiale
degli anni Settanta. I nuovi livelli di discrezionalità operativa e di autonomia decisionale
9
Mariotti S., Verso una nuova organizzazione della produzione - Le frontiere del post-fordismo, Etaslibri,
Milano (1994), pag. 107.
10
Mariotti S., Verso una nuova organizzazione della produzione - Le frontiere del post-fordismo, op. cit.,
pag. 108.
9
richiesti da un'organizzazione flessibile della produzione si dimostrano incompatibili
con le rigidità connesse all'eredità lasciata da Taylor e Ford, dando luogo a quella
pluralità di dottrine e pratiche manageriali che sono genericamente individuate col
termine onnicomprensivo di post-fordismo.
Come sottolinea efficacemente Giorgetti, "la grande opera di razionalizzazione di
Taylor e Ford ha due principali protagonisti i cui ruoli complementari fanno
dell'impresa taylorista un forte soggetto razionale: la tecnologia che incorpora sempre
più conoscenza e l'uomo sempre più diviso tra progettazione ed esecuzione. E
l'organizzazione è l'insieme delle regole che consente la maggiore efficienza nell'uso
della risorsa tecnologica e di quella umana. A cento anni di distanza la tecnologia è
mille volte più pervasiva, ma, paradossalmente per Taylor e per Ford, il vero fattore di
competitività è diventato l'uomo, la sua soggettività e le sue doti professionali, la sua
capacità di contestualizzare la conoscenza"
11
. La riflessione a cui l'autore citato arriva è
la considerazione del taylorismo come di un autentico vincolo che nella storia del
pensiero aziendalistico ha rallentato sensibilmente il progresso teorico e, di riflesso, le
applicazioni pratiche; per questo motivo, oggi più che mai, le imprese scontano le
difficoltà legate alla crisi di un modello come quello taylorista nelle intenzione perfetto
ed universalmente valido, ma in realtà rigido e ben poco "universale", in quanto
realmente efficace soltanto in contesti molto particolari, o in organizzazioni
estremamente diverse da quelle della fabbrica a cui Taylor si rivolgeva (è frequente il
riferimento agli apparati militari). E la situazione è tanto più problematica quanto più
essa si denota nei termini di una transizione verso un nuovo paradigma organizzativo
"in costruzione", assolutamente incerto e di difficile comprensione; o, forse, tanti
paradigmi diversi, ben distinti a seconda del contesto di riferimento; o ancora, e più
probabilmente, nessun vero paradigma nel tradizionale senso universale, bensì prassi
manageriali diverse da impresa a impresa, eventualmente con insospettate similitudini
tra quelle più distinte per attività e ambiente operativo, e magari differenze insanabili tra
quelle apparentemente più vicine. Comunque questa situazione si presenti nel prossimo
futuro, sottolinea ancora Giorgetti, "è difficile pensare in termini concreti alla qualità
totale in mancanza di impegno prioritario anche da parte del dipendente del grado
gerarchico più basso. Non sarà poi solo il fattore umano a fare la differenza, ma anche la
capacità delle organizzazioni di progettare soluzioni tali da valorizzare la risorsa che
l'individuo rappresenta"
12
. Il riferimento alla qualità totale è legato alla più espressiva
teoria organizzativa dell'ultimo decennio, quello relativo all'impegno dei dipendenti
costituisce premessa per l'introduzione dei principi dell'empowerment.
Non è qui il caso di ripercorrere le numerose contestazioni mosse contro il fordismo. E'
sufficiente notare come la crisi in cui si trovano molte aziende operanti nel settore
industriali e del terziario derivino dall'emergere delle nuove esigenze del lavoro
produttivo in un contesto di gestione imprenditoriale ancora impregnato da diversi
elementi tayloristi che, di fronte a queste nuove esigenze, assumono un ruolo di vincolo
e freno indubbiamente non previsto dai fautori del "scientific management".
Lo schema di Laville
13
risulta adatto allo scopo di porre a confronto i più importanti
dissidi tra vecchie caratteristiche e nuove esigenze del lavoro produttivo. In soli tre
punti l'autore è in grado di sintetizzare dicotomie che nella realtà assumono
frequentemente contorni contrassegnati da profonde spaccature:
1. La "decomposizione dei compiti gestuali semplici", la "riduzione del numero dei
compiti per ciascun posto di lavoro", la "semplicità e rigidità dei compiti resa
11
Giorgetti G., "Organizzazione: dibattito per un <<quasi>> centenario", Economia & Politica
Industriale, n. 88/1995, pag. 94.
12
Giorgetti G., "Organizzazione: dibattito per un <<quasi>> centenario", op. cit., pag. 95.
13
Laville J.L., "Sociologia della partecipazione e trasformazioni del lavoro in Francia", Sociologia del
lavoro, n.68/1998, pag. 61.
10
possibile dalla prevedibilità del processo di produzione", sono vecchie
caratteristiche raffrontate con l'esigenza di "varietà dei compiti svolti durante tutti i
tempi di produzione".
2. La "gestione dei tempi non produttivi delegata alla direzione ed ai servizi
funzionali" è oggi sostituita dalla necessità di "un impegno individualizzato durante
i tempi non produttivi".
3. La "rigorosa separazione fra lavoro intellettuale ed esecutivo" e la "separazione fra
posti, settori e servizi" è oggi opposta al bisogno di una "dimensione contestuale e
collettiva della competenza".
Il passaggio al post-fordismo, come detto, per quanto la sua inderogabilità sia palese, è
alquanto lento e non privo di contraddizioni. I ritardi nella transizione sono stati col
tempo oggetto di sempre più frequenti analisi volte a individuare ed evidenziare le
determinanti del fenomeno noto come "inerzia strutturale". Queste ricerche hanno avuto
luogo prevalentemente all'estero, ma anche nel nostro Paese si sono presentati alcuni
esempi, come la recente analisi di stampo matematico compiuta da Colombo e
Delmastro
14
. Gli autori dedicano attenzione particolare alle forze interne all'azienda che,
in maniera sotterranea, combattono un'autentica battaglia per impedire o neutralizzare
gli effetti dei progetti di ristrutturazione organizzativa, una battaglia che trae le sue
motivazioni da un'analisi quantomai tradizionale, quella dei costi e dei benefici, con la
visione di questi in senso non materiale; in particolare, il riferimento è ai cosiddetti
"costi affondati", che nel caso in oggetto si concretizzano nella riduzione di controllo e
di potere che i dirigenti nei vari livelli subiscono. "In un contesto caratterizzato da un
ambiente economico incerto e da elevati costi (affondati) derivanti dalla modificazione
dell'organizzazione", sostengono i due ricercatori, "può essere ottimale rimandare ogni
decisione circa il cambiamento della piramide gerarchica fino a che non è acquisita
sufficiente informazione circa i costi e i benefici di ogni tipo di cambiamento. Da ciò
deriva che maggiori sono i costi affondati e/o l'incertezza del contesto economico, più è
probabile che l'impresa protragga nel tempo la decisione di cambiare
l'organizzazione"
15
. Il fenomeno della frequente ostilità dei managers all'introduzione di
un cambiamento nell'organizzazione gerarchica e nella distribuzione del potere
all'interno dell'azienda costituisce uno dei più importanti limiti soggettivi
dell'empowerment, e sarà più avanti oggetto di un'attenzione più approfondita.
A questo punto, al fine di comprendere in maniera più corretta il fondamento di questa
transizione, può risultare utile tracciare alcune linee direttrici fondamentali, quelle che si
riscontrano più frequentemente nelle varie teorie organizzative che sono state proposte e
si sono succedute a ritmo quasi frenetico negli ultimi decenni, e a cui in parte si è già
accennato. E' però necessario, prima di procedere oltre, effettuare due precisazioni
preliminari: in primo luogo, si sottolinea che l'argomento possiede una rilevanza e un
interesse tali da meritare uno spazio ben più esteso, che non può essere offerto in questa
sede; in secondo luogo, non è scopo di quest'intervento affrontare compiutamente il
tema della transizione al post-fordismo, bensì, vale la pena ribadirlo, delineare una
cornice teorica derivante dalle osservazioni compiute sulla realtà delle imprese, una
cornice nel quale inserire gradualmente il tema dell'empowerment.
Il discorso introduttivo in atto deve perciò essere necessariamente sintetico,
condensando in uno spazio ridotto concezioni e tematiche degne di approfondimenti ben
maggiori; per lo stesso motivo, tra i vari, numerosi fenomeni che sono l'oggetto dello
studio di esperti e imprenditori ovunque nel mondo, l'attenzione è qui riservata
14
Colombo M. - Delmastro M., "Le determinanti dell'inerzia strutturale della gerarchia manageriale:
fattori tecnologici ed organizzativi", Economia & Politica Industriale, n. 107/2000, pagg. 59 ss.
15
Colombo M. - Delmastro M., "Le determinanti dell'inerzia strutturale della gerarchia manageriale:
fattori tecnologici ed organizzativi" op. cit., pag. 62.
11
solamente a quelli che hanno un legame più diretto con l'argomento dell'empowerment,
trascurandone altri che, pur rientrando pienamente nel discorso relativo alla transizione
verso un sistema organizzativo post-fordista ancora parzialmente ignoto, porterebbe
però le presenti riflessioni verso problemi eccessivamente distanti.
Allo stesso tempo, però, questo discorso introduttivo risulta indispensabile. Come
ribadito più volte, l'empowerment è un elemento proprio di fenomeni dalla portata ben
più ampia, e i cui significati trascendono quelli esclusivi dell'economia aziendale,
portando con sé accenti derivati dalla psicologia, dalla sociologia, dall'evoluzione
tecnologica, dalle relazioni industriali, e via elencando; a nostro giudizio, la questione
non potrebbe essere affrontata e valutata pienamente e obiettivamente nelle sue
peculiarità positive e negative, se non venisse calata in un quadro generale di
riferimento.
E' ancora da precisarsi, infine, che alcune tematiche che nel seguito vengono solamente
accennate, costituiranno oggetto di un'attenzione più estesa nei paragrafi successivi, in
cui si darà conto delle teorie che più hanno un legame con l'empowerment.
Un fattore caratterizzante la situazione odierna e che, un tempo oggetto di interesse
degli studiosi del settore, è oggi arrivata a un elevato livello di attenzione anche da parte
dell'opinione pubblica è sicuramente la concorrenza che si determina in ambito
internazionale, una concorrenza sempre più accesa se non, a tratti, esasperata. Nessuna
impresa, se non quelle con un raggio d'interesse molto limitato e prive di una spinta
verso la crescita e lo sviluppo, può pensare di elaborare le proprie strategie facendo
riferimento soltanto ai fattori di origine nazionale o addirittura locale. La concorrenza
proveniente dall'estero, dai Paesi di antica e consolidata industrializzazione, ma anche
quelli il cui sviluppo economico è stato molto più tardo (come le cosiddette "tigri
asiatiche") o è tuttora in corso (come diversi Stati dell'America Latina) è un fattore da
cui non si può prescindere, anche da parte delle imprese il cui mercato di riferimento è
di dimensioni ridotte, in quanto, anche quando la concorrenza non è voluta, i prodotti e i
servizi offerti dai competitori invadono comunque il proprio campo operativo.
Meno appariscente, meno oggetto di attenzione da parte di studiosi e persone comuni,
ma probabilmente ancora più rilevante nei suoi contenuti e nelle sue conseguenze, è la
concorrenza di stampo intersettoriale. E' necessario premettere che il concetto di
"settore", sebbene sia sempre stato, e forse rimarrà, di uso comune, non ha mai avuto un
significato univoco, e mai due settori, comunque li si siano individuati, si sono potuti
ritenere del tutto distinti quanto ad attività, autori e clientela; legami, anche quando
molto sfumati, sono sempre stati presenti. Oggi, però, il discorso è radicalmente diverso.
Si può arrivare a ritenere che tutti i beni e i servizi non destinati alla mera sopravvivenza
fisica siano in concorrenza tra di loro, in quanto fanno riferimento alla possibilità di
attrarre la residua capacità di spesa del singolo individuo. Confini tra settori un tempo
ritenuti diversi sono oggi inesistenti, così come l'evoluzione tecnologica porta di
frequente a scomporre un precedente settore giudicato unitario in tanti segmenti
relativamente distinti. Un esempio tipico riguarda, come è noto, quello dell'informatica
e delle telecomunicazioni, un tempo contrassegnati da protagonisti e dinamiche ben
diverse, e oggi invece compresenti nel nuovo settore della telematica.
Le conseguenze per l'impresa sono naturalmente di dover tenere nel debito conto la
dinamica concorrenziale, e di creare validi sistemi informativi che possano venire
incontro alle esigenze in tal senso presenti.
Il ruolo dell'informazione, in quest'ottica, assurge a ruolo fondamentale, divenendo anzi
per molti come l'elemento supremo che caratterizza l'attuale e la futura fase produttiva.
La capacità di ottenere, sintetizzare, confrontare, trasmettere, recepire le informazioni
(considerando naturalmente questo concetto nel suo significato più lato) diventa al
giorno d'oggi il fattore di competitività per eccellenza, e la disponibilità negli ultimi
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decenni di sistemi informatici costantemente migliorati in termini di velocità, memoria,
capacità, funzioni, e, da non considerarsi per ultimo, prezzo, sicuramente viene in
soccorso delle necessità espresse dall'impresa.
Un tempo, l'impresa rispondeva alle esigenze di informazione internalizzando tutte le
funzioni utili ad essa e creando una struttura organizzativa di dimensioni ipertrofiche,
tendente verso una crescita apparentemente inarrestabile. Oggi, tuttavia, lo scenario è
mutato. La tradizionale grande impresa configurata con una piramide di livelli
gerarchici di stile weberiano, i cui piani intermedi sono propri dei managers di medio
livello, la cui funzione fondamentale era di ricevere e trasmettere informazioni in un
senso e nell'altro, allo stato attuale risulta improponibile. Il gigantismo organizzativo ha
finito per generare costi eccessivi, non più giustificabili. Si è accennato alla presenza di
strumenti tecnici un tempo inesistenti o troppo costosi che assolvono in maniera più
rapida ed economica alla trasmissione ed elaborazione delle informazioni; ma è
innegabile che le informazioni di cui, teoricamente, un'impresa necessiterebbe al giorno
d'oggi si proporrebbero in un numero immenso, se non infinito, se si ragionasse ancora
con la logica di internalizzazione di tutte le funzioni aziendali.
La via che è andata lentamente, faticosamente affermandosi è quella che punta al
mantenimento, all'interno dell'azienda, delle cosiddette "core competencies", le chiavi,
in altre parole, con le quali l'impresa può puntare all'eccellenza, lasciando invece le altre
funzioni ad altre unità esterne, in uno schema che va molto oltre la tradizionale
subfornitura di singoli componenti. La metafora a cui si ricorre solitamente per indicare
i legami che si instaurano tra le diverse imprese sulla base di questo scambio di
competenze e di funzioni tali da riservare alla singola unità solamente quelle in cui può
determinare il maggior livello di valore aggiunto, è quella, ormai diffusissima, della
rete. E la rete caratterizzata da tante piccole unità con strette connessioni tra loro e con
altre unità esterne, magari facenti parte di altre reti, costituirà secondo molti in futuro
(ma i primi aspetti si notano già nel presente) il modello destinato a sostituire la grande
impresa tradizionale e monocentrica.
In un'analisi
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compiuta sulla situazione empirica di alcuni distretti industriali del
Nordest italiano, Anastasia e Corò ne traggono validi suggerimenti sulla natura
competitiva e cooperativa dei sistemi reticolari; gli autori vedono questi contesti
specifici come prototipi del modello di rete di imprese, caratterizzate da conoscenza
diffusa, o, per usare le loro parole, "intelligenza distribuita". Commentando i risultati di
questa ricerca, Perulli
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distingue qualitativamente la presenza della conoscenza, così
come essa si presenta rispettivamente nell'impresa tradizionale ed in quella reticolare:
"Nel modello fordista, ma anche nelle versioni tardo-fordiste della fabbrica integrata, la
conoscenza è fortemente concentrata e l'accesso ai saperi è rigidamente selettivo. Il
passaggio al post-fordismo consiste da questo punto di vista nella maggiore presenza di
condizioni di 'intelligenza distribuita'".
La metafora reticolare è talvolta utilizzata anche per descrivere lo stesso, intrinseco
sistema aziendale, a lungo considerato unitario se non monolitico; l'impresa ha ricevuto
recentemente
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l'originale definizione di "rete normativo-comportamentale", specificata
come un insieme costituito da "valori, norme, ruoli, relazioni e attività, che definiscono i
rapporti che si instaurano tra i soggetti che operano nell'ambito dell'organizzazione
formale".
L'attenzione per le competenze-chiave, naturalmente, ha l'uomo come elemento centrale
e trainante. La sua abilità , la sua esperienza, la sua capacità di "contestualizzare la
16
Anastasia B. - Corò G., Evoluzione di un'economia regionale. Il Nordest dopo il successo, Ediciclo,
Portogruaro (1996).
17
Perulli P., "Capitalismi italiani e post-fordismo", Sociologia del lavoro, n. 63/1996, pag. 66.
18
Tagliagambe S. - Usai G., L'impresa tra ipotesi, miti e realtà, ISEDI, Torino 1994, pagg. 208-209.
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