ha imposto di affrontare il problema della conciliazione fra vita familiare
e vita professionale, del tutto marginale sino a quando le donne restavano
in larga prevalenza relegate esclusivamente in compiti di cura domestici.
È importante sottolineare come questo non sia un fenomeno
inedito: le donne erano presenti nel mercato del lavoro fin dalla metà
dell’800: basti pensare all’agricoltura, al settore tessile o durante le 2
guerre mondiali.
Nello stesso diritto del lavoro delle origini, la presenza del lavoro
femminile era testimoniata dalla prima “legislazione sociale” volta ad
evitare lo sfruttamento di donne e minori.
Essa è riconoscibile anche nella Carta Costituzionale con l’art 37
dov’è sancito il principio della parità fra uomo e donna: ai sensi di tale
norma “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le
stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”.
Proprio nella disciplina costituzionale del lavoro femminile è
riconoscibile un doppio motivo ispiratore: la prospettiva
paritaria(sancita appunto dall’art 37 in primis) e la logica protettiva,
volta a consentire l’adempimento dell’essenziale funzione familiare delle
donne e ad assicurare alla madre e al bambino una speciale protezione.
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Cfr. sull’argomento sent Corte di Giustizia CE 17/6/1998: La specificità del
lavoro femminile. La logica paritaria. Discriminazione diretta e indiretta.
Qualora sia statisticamente rilevabile una presenza maggioritaria delle
lavoratrici nell'ambito dei lavori a tempo frazionario (c.d. "job sharing")
costituisce discriminazione sessuale ed è pertanto in contrasto con l’art. 119 del
trattato Ce e non la direttiva 10/2/75 n. 75/117 Cee – l’attribuzione di
incrementi retributivi basati su un calcolo dell’anzianità differenziato per i
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In particolar modo la legge 7 del 1963 venne istituita per stroncare
una pratica discriminatoria assai diffusa all’epoca: il lavoro femminile,
infatti, risultava più costoso in virtù delle tutele che a questo erano
garantite e i datori di lavoro non esitavano a far firmare, all’atto
dell’assunzione, lettere di dimissioni in bianco, che avrebbero poi essi
stessi provveduto a compilare al momento eventualmente opportuno.
In alternativa venivano ad inserire clausole nel contratto di lavoro
c.d. clausole di nubilato, che condizionavano la permanenza del rapporto
all’assenza di vincoli contrattuali.
La legge in questione introduce per la prima volta limiti alla
libertà di licenziamento e in particolare stabilisce la nullità sia delle
clausole di nubilato sia dei licenziamenti intimati per causa di
matrimonio.
L’effettività di tale disciplina è sostenuta dalla presunzione
che:“deve ritenersi intimato a causa di matrimonio il licenziamento che
colpisca una lavoratrice nel periodo intercorrente dal giorno della
richiesta delle pubblicazioni a un anno dopo la celebrazione”.
Per eliminare, inoltre, ogni prassi discriminatoria fu
successivamente stabilita anche la nullità delle dimissioni della
lavoratori a tempo pieno e per quelli a tempo frazionato, salvo che tale
differenziazione non sia giustificata da ragioni obiettive. (Corte giustizia CE,
sez. VI, 17 giugno 1998, n. 243). Hill e altro c. The Revenue Commissioners e
altro. D.L. Riv. Critica dir. lav. 1988, 892; Orient. Giur. Lav. 1998, III, 71 nota
MARANDO; Riv. Giur. Lav., 1999, II, 533 nota (MEROLLA)
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lavoratrice nel suddetto periodo qualora non fossero riconfermate entro un
mese presso la direzione provinciale del lavoro.
Particolarmente incisiva, inoltre, fu la protezione contro il
licenziamento della lavoratrice madre, sia per la sua ampiezza temporale,
che va dall’inizio della gestazione fino ad un anno di età del bambino, che
per l’oggettiva rilevanza dello stato di gravidanza, che consente di operare
anche se il datore di lavoro non ne era a conoscenza.
Il licenziamento può essere legittimato però per: colpa grave,
cessazione attività dell’azienda, scadenza del termine ed esito negativo
della prova.
I l licenziamento intimato nel periodo in cui vige il divieto deve
considerarsi nullo e non inefficace, in quanto il motivo addotto deve
risultare ancora sussistente una volta cessato il periodo di operatività del
divieto.
Infine,l’art 6 d.lgs. 165/2001 sancisce il divieto per la donna di
essere adibita a lavori pesanti durante il periodo di gravidanza e fino a 7
mesi di età del figlio; divieto generalizzato sia nel settore pubblico che nel
settore privato.
Se da una parte quindi,l’art 37 della Costituzione sancisce la logica
protettiva della donna, dall’altra, enfatizza la prospettiva della parità di
diritti fra i lavoratori dei 2 sessi.
La prima tappa verso una completa parificazione è rappresentata
dalla legge 9 dicembre 1977, n.903, che ha introdotto nel nostro
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ordinamento la disciplina della parità di trattamento fra uomo e donna in
materia di lavoro, sancendo il divieto di discriminazione per sesso.
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La medesima linea di politica del diritto è stata completata e
rafforzata, con nuove regole processuali e sanzionatorie, dalla legge 125
del 1991, che si fa carico di un obiettivo assai ambizioso quale la
promozione dell’uguaglianza sostanziale attraverso lo strumento della
azioni positive a favore della donne.
A riguardo è importante sottolineare come hanno esercitato
un’influenza profondissima sull’evoluzione del nostro ordinamento le
fonti comunitarie e la stessa giurisprudenza della Corte di giustizia.
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17/10/1989 Corte giustizia CE La specificità del lavoro femminile La logica paritaria
Discriminazioni indirette ed eguaglianza sostanziale. La direttiva n. 75/117 del
consiglio, del 10 febbraio 1975, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli
Stati membri relative all'applicazione del principio della parità salariale tra lavoratori e
lavoratrici deve essere interpretata nel modo seguente: - ove un'impresa applichi un
sistema retributivo caratterizzato da totale mancanza di trasparenza, e qualora la
lavoratrice sia in grado di dimostrare che, prendendo in considerazione un numero
relativamente importante di dipendenti, la retribuzione media delle lavoratrici risulta
inferiore a quella dei lavoratori, l'imprenditore ha l'onere di provare che il sistema
retributivo non è discriminatorio; - ove risulti che dall'applicazione di criteri di
maggiorazione della retribuzione quali la flessibilità, la formazione professionale o
l'anzianità del lavoratore, derivano conseguenze sistematicamente sfavorevoli alle
lavoratrici; a) l'imprenditore può giustificare il ricorso al criterio della flessibilità, se
questa è intesa come adattabilità ad orari e luoghi di lavoro variabili, dimostrando che
tale adottabilità riveste importanza per l'esecuzione delle mansioni specifiche che sono
attribuite al lavoratore; non può invece giustificare il ricorso al criterio della flessibilità
se questo è inteso come riferito alla qualità del lavoro svolto dal lavoratore; (b)
l'imprenditore può giustificare il ricorso al criterio della formazione professionale
dimostrando che la formazione riveste importanza per l'esecuzione delle specifiche
mansioni assegnate al lavoratore; c) l'imprenditore non è tenuto a dare specifica
giustificazione del ricorso al criterio dell'anzianità. (Corte giustizia CE, 17 ottobre 1989,
n. 109). Federazione impiegati commercio c. Impresa Danfoss. Riv. it. dir. lav. 1990,
II,775 (nota). Dir. lav. 1990, II,286 (nota)
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La legge 903/1977 comunemente definita “legge di parità”,
modificata ed integrata nel d. lgs 165/2001, può considerarsi appunto una
proiezione delle prescrizioni paritarie delle direttive comunitarie; e
rappresenta proprio il nucleo della disciplina o meglio il “principio di non
discriminazione”.
Tale principio ha abbracciato la disciplina del rapporto di lavoro
in tutti i suoi aspetti, quali l’orientamento, la formazione, il
perfezionamento e l’aggiornamento professionale.
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In realtà sono proprio le carenze formative e i conseguenti più
bassi livelli di qualificazione che contribuiscono a penalizzare la
condizione delle donne sul mercato.
Spesso però neanche un elevato livello di formazione fa sì che non
ci siano discriminazioni: per questo la norma si apre con l’affermazione
dei divieti di discriminazione di sesso in relazione all’accesso al lavoro in
tutto il mercato sia pubblico che privato.
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08/11/1990 giustizia CE La specificità del lavoro femminile. La logica paritaria
.Discriminazione indiretta Un datore di lavoro agisce direttamente in spregio del
principio della parità di trattamento enunciato dagli art. 2 n. 1 e 3 n. 1 della direttiva del
consiglio CEE 9 febbraio 1976 n. 76/207, relativa all'attuazione del principio della parità
di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla
formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro, se rifiuta di
stipulare un contratto di lavoro con una candidata che aveva giudicato idonea a svolgere
l'attività in questione, allorché detto rifiuto di assunzione è fondato sulle eventuali
conseguenze, dannose per il datore di lavoro, dell'assunzione di una donna incinta, che
scaturiscono dalle norme che, emanate dalle pubbliche autorità in materia di inabilità al
lavoro, equiparano l'impedimento a svolgere un'attività per gravidanza e parto
all'impedimento a svolgere un'attività per malattia; il fatto che nessun candidato di sesso
maschile si sia presentato per occupare il posto vacante non è tale da modificare la
soluzione della questione. (Corte giustizia CE, 8 novembre 1990, n. 177). Dekker c.
Vormingscentrum voor Jong Volwassenen. Cons. Stato 1992, II,751 (s.m.).
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