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Verranno presentati alcuni modelli teorici che esplicitano come promuovere la
soddisfazione nell’azienda, elemento fondamentale per favorire il coinvolgimento dei
dipendenti nel comportamento organizzativo.
Nel secondo capitolo si presenterà l’azienda in cui ho svolto questo lavoro di
tesi, il cambiamento che ha attuato, i motivi che l’hanno determinato e come è stato
affrontato. Come per il primo capitolo anche nel secondo, dopo una presentazione del
contesto generale ci si concentrerà sugli aspetti che coinvolgono più da vicino le risorse
umane. In particolare, in quest’ultimo, verrà presentata un’indagine di clima
(denominata Pro-Sat) che è utilizzata dall’azienda in chiave conoscitiva (per avere una
misura del livello di soddisfazione dei dipendenti) e in chiave operativa (per raccogliere
delle proposte concrete utili per risolvere le situazioni emerse come critiche).
Il Pro-Sat consiste nella somministrazione di un questionario che permette di
misurare alcuni aspetti dell’esperienza lavorativa dei collaboratori, evidenziandone le
aree critiche. A partire dall’analisi dei dati del questionario vengono attuati degli
interventi correttivi per queste aree critiche. Gli interventi correttivi da attuare sono
selezionati da un insieme di proposte fatte dai collaboratori. Questi interventi possono
consistere in corsi di formazione, corsi di lingue, modifiche nel flusso di informazioni e
altro ancora.
Col terzo capitolo inizia il lavoro di ricerca vero e proprio. Il mio lavoro ha
approfondito tre aspetti: verificare la validità dello strumento; verificare la validità di
conduzione del progetto, in particolare verificare se gli intenti procedurali dichiarati
dall’azienda vengono rispettati; ed infine analizzare l’impatto che il progetto Pro-Sat ha
sui dipendenti che ne sono coinvolti.
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1 Cambiamento nelle/delle organizzazioni
Questo primo capitolo presenta alcune teorie concernenti il modo in cui operano
le organizzazioni. Non mi soffermerò a descrivere i dettagli di ogni singolo approccio,
ma mi limiterò ad evidenziare la concezione delle risorse umane in essi implicita. In
particolare porrò a confronto le diverse metafore utilizzate per descrivere le
organizzazioni mettendone in luce le differenze e la loro maggiore o minore utilità per
la comprensione delle realtà organizzative.
Delineerò poi alcuni modelli utili per comprendere come le organizzazioni
affrontano il cambiamento e come possono promuovere la soddisfazione dei loro
dipendenti.
1.1 Le metafore dell’organizzazione e le risorse umane
Secondo Gareth Morgan (2002: 22) tutte le teorie organizzative e manageriali
sono fondate su concezioni o metafore implicite che ci conducono a percepire,
comprendere e gestire le organizzazioni in modi caratteristici e, pertanto, parziali.
Ogni metafora produce sempre, infatti, una rappresentazione parziale che mentre
enfatizza alcuni aspetti ne ignora altri e produce distorsioni. Per capire il funzionamento
di un’organizzazione può allora essere utile identificare la metafora che meglio si adatta
ad una sua descrizione.
Nel presentare le diverse letture dell’organizzazione cercherò di evidenziare il
ruolo in esse assegnato alle risorse umane.
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1.1.1 L’approccio classico e la metafora della macchina
La prima metafora utilizzata da Morgan è quella della macchina. Questo tipo di
metafora è utile a dar conto di quello che altri hanno definito approccio classico.
L’approccio classico, si sviluppa all’inizio del novecento e si fonda
principalmente sui concetti di divisione del lavoro, di metodo scientifico e di homo
oeconomicus. Tale approccio sostiene la necessità di distinguere tra pianificazione e
realizzazione, di individuare per ogni mansione la “one best way” e “l’uomo giusto per
il posto giusto” (Taylor), in questo approccio l’uomo è incentivato con il denaro perché
il suo unico scopo è l’accrescimento del guadagno e la riduzione della fatica.
L’idea di Taylor era che l’uomo, se inserito in un sistema meccanizzato, dovesse
venir considerato al pari di una macchina. (Williams, 1997: 254). In questa ottica si
perde il significato sociale del lavoro e l’importanza delle interazioni tra i lavoratori e i
differenti settori dell’organizzazione.
Questo tipo di approccio quindi può essere utile solo se nell’organizzazione il
compito è molto chiaro e l’ambiente è sufficientemente stabile da garantire che i
risultati ottenuti con la produzione in serie siano appropriati. La precisione è un fattore
fondamentale e le componenti umane della macchina sono docili e rispettano i compiti
loro assegnati (Morgan, 2002: 50).
Sono aspetti riscontrabili solo in alcuni tipi di realtà aziendali contemporanee,
caratterizzate da forme organizzative molto resistenti al cambiamento, quindi non adatte
a mercati molto mutevoli come quelli moderni. In tali realtà è spesso presente una
burocrazia rigida in cui gli interessi di pochi possono far deviare dagli obiettivi
organizzativi. Ulteriore caratteristica è la disumanizzazione dei dipendenti collocati ai
livelli più bassi della gerarchia organizzativa. Questa disumanizzazione causa una
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disaffezione dal lavoro che ha come conseguenza ultima un abbassamento della
produttività.
L’organizzazione meccanicistica scoraggia le iniziative e incoraggia ad
obbedire agli ordini e a rimanere al proprio posto piuttosto che a identificarsi e a
tentare di migliorare ciò che si sta facendo. (Morgan, 2002: 53). Questo stile
organizzativo limita, anziché favorire, lo sviluppo delle capacità umane, toglie la
possibilità di crescita dei dipendenti demotivandoli e quindi riducendone il
coinvolgimento e la produttività.
1.1.2 L’approccio delle relazioni umane
Una seconda prospettiva di lettura focalizza l’attenzione sui bisogni
organizzativi. La metafora di riferimento proposta da Morgan è quella dell’organismo.
Ad essa è riconducibile l’approccio delle relazioni umane, sviluppatosi principalmente
ad opera di Mayo negli anni Venti. Mayo scoprì che il modo in cui le persone lavorano
è determinato non solo dagli incentivi economici che vengono loro offerti, ma anche
dalle influenze sociali inerenti alla situazione di lavoro. Accanto ad un’organizzazione
formale può, cioè, coesistere un’organizzazione informale basata su reti di amicizie che
influisce sul livello di produttività dei dipendenti ancor più degli incentivi economici. Si
tratta del primo reale tentativo di esaminare quei fattori che agiscono in una situazione
lavorativa pur non facendo parte del lavoro stesso. (Williams, 1997: 256). Nell’ottica di
questo secondo approccio, quindi, fattori come il salario, le ore di lavoro, le condizioni
lavorative, non sono importanti di per se stessi, ma devono essere visti alla luce del loro
valore simbolico e del rapporto con i valori sociali. Questo approccio si basa sull’idea
che individui e gruppi diano il meglio di loro stessi quando i loro bisogni primari sono
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soddisfatti. Da qui il grande interesse per le teorie motivazionali, prima fra tutte la Scala
dei bisogni di Maslow, che rappresentano l’individuo come un organismo psicologico
che lotta per soddisfare i suoi bisogni, alla ricerca di una crescita e di uno sviluppo
completi.
In questo periodo si fa strada l’idea di dover conciliare i bisogni degli individui
con quelli dell’organizzazione. A questo proposito, Chris Argyris, Frederik Herzberg e
Douglas McGregor hanno dimostrato che è possibile modificare le strutture
burocratiche, gli stili di leadership e l’organizzazione del lavoro in senso lato in modo
da dar vita a mansioni arricchite e motivanti suscettibili di incoraggiare gli individui
sia ad adeguarsi al disegno organizzativo sia a sviluppare la loro creatività (Morgan,
2002: 59).
Secondo questo approccio i dipendenti devono essere considerati come risorse
che possono contribuire alle attività dell’organizzazione se vengono loro offerte
opportunità adeguate. Il nocciolo di questo approccio è ben evidenziato dai membri del
Tavistock Institute of Human Relations che hanno definito le organizzazioni dei sistemi
socio-tecnici, in cui gli aspetti sociali e tecnici del lavoro sono sempre reciprocamente
interdipendenti. Qualunque sistema tecnico si voglia considerare, questo avrà sempre un
impatto sulla componente sociale e viceversa. Questa ottica considera le organizzazioni
come dei sistemi relativamente chiusi; di conseguenza la carenza che emerge da questo
secondo approccio è che esso tende a ignorare il ruolo dell’ambiente esterno e delle
relazioni dell’organizzazione con lo stesso.
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1.1.3 L’approccio dei sistemi
Gli anni cinquanta e sessanta vedono lo sviluppo dell’approccio dei sistemi, che
concettualizza le organizzazioni come dei sistemi aperti. Buona parte dell’attenzione
che viene recentemente data alle problematiche della strategia aziendale è la
conseguenza del fatto che ci si è resi conto che le organizzazioni devono prestare
attenzione a ciò che succede al di fuori delle loro mura (Morgan, 2002: 66).
Principale fautore di tale approccio è Von Bertalanffy secondo il quale le
organizzazioni, al pari degli organismi, sono aperte nei confronti dell’ambiente e
devono stabilire un rapporto adeguato con tale ambiente se vogliono sopravvivere
(Morgan, 2002: 63). L’approccio dei sistemi sostiene anche che l’intero sia più della
somma delle parti. Si ritiene che sia perciò inappropriato esaminare le parti delle
organizzazioni prese singolarmente, ma che sia opportuno piuttosto prendere in
considerazione le relazioni sia formali che informali che si stabiliscono tra i sottosistemi
all’interno delle organizzazioni. Nell’applicare l’approccio sistemico alle
organizzazioni è necessario identificare le parti che compongono le organizzazioni, per
vedere come esse sono in relazione l’una con l’altra e esaminare la natura della
relazione tra l’organizzazione e il suo ambiente esterno (Williams, 1997: 262).
C’è quindi una grossa differenza tra la teoria classica che trattava
l’organizzazione come un sistema chiuso e la teoria dei sistemi che ha invece
evidenziato che ogni attività di progettazione organizzativa deve tener l’ambiente nella
giusta considerazione.
Ma questo approccio ha anche il difetto di considerare le organizzazioni e i loro
ambienti in maniera troppo concreta sottovalutando il fatto che si tratta almeno in parte
di fenomeni di produzione sociale. Non bisogna dimenticare che le organizzazioni ed il
15
loro membri sono degli attori attivi che cooperano con altri alla costruzione del proprio
universo (Morgan, 2002: 99). E questo ci riporta al problema delle risorse umane. Che
tipo di attenzione danno le organizzazioni alle risorse umane, al loro benessere in
azienda e quindi al clima aziendale?
Entro l’approccio sistemico acquista peso, quale metafora esplicativa del
funzionamento dell’organizzazione, la metafora del cervello per la quale le
organizzazioni sono dei sistemi di comunicazione, ma anche dei sistemi decisionali.
Nella metafora che vede l’organizzazione come un cervello, emerge
l’importanza della variabile uomo nei sistemi organizzativi: infatti è l’uomo che
comunica, elabora informazioni, prende decisioni e fa previsioni. Le organizzazioni non
potranno mai essere perfettamente razionali in quanto i membri che le compongono
sono dotati di capacità limitate nel trattare informazioni e quindi agiscono in regime di
razionalità limitata. Simon è colui che ha evidenziato la reale distanza delle
organizzazioni dall’ideale dell’economia classica, estendendo la razionalità limitata dei
suoi membri a tutta l’organizzazione. Secondo questo autore i limiti della razionalità
umana sono riscontrabili nelle strutture e nelle modalità operative delle organizzazioni;
in questo modo la sua teoria decisionale ci porta a concepire le organizzazioni come
una specie di cervelli istituzionalizzati che frammentano, routinizzano e condizionano i
processi decisionali allo scopo di poterli gestire. (Morgan, 2002: 110).
La critica mossa a questa visione dell’organizzazione è di aver esagerato nel
considerare il singolo essere umano, dotato di limitata capacità di elaborare
informazioni, come modello utile per comprendere i processi decisionali delle
organizzazioni. Ma questa metafora organizzativa mi sembra particolarmente utile per
affrontare un altro aspetto organizzativo: il cambiamento. Infatti volendo vedere
16
l’organizzazione come un cervello le si attribuisce la capacità di apprendere. Perché
l’organizzazione possa apprendere deve ricevere dei feedback dalle sue azioni, sia
positivi che negativi. Particolare importanza assumono i feedback negativi perché
spingono l’organizzazione a correggere l’errore che li ha prodotti. La domanda che ci si
pone è: le nostre organizzazioni sono in grado di apprendere in maniera continuativa?
(Morgan, 2002: 121). Questa caratteristica delle organizzazioni è stata obiettivo e
oggetto di studio per Chris Argyrys e Donald Shön ed è un tratto sempre più necessario
per poter affrontare le nuove sfide del mondo moderno.
1.1.3.a La learning organization
Le learning organizations sono le organizzazioni in grado di apprendere
continuativamente secondo una modalità che Argyris e Shön hanno così definito:
l’apprendimento organizzativo avviene quando […] informazioni, esperienze, scoperte,
valutazioni di ciascun individuo divengono patrimonio comune dell’intera
organizzazione fissandole nella memoria dell’organizzazione, codificandole in norme,
valori, metafore e mappe mentali in base alle quali ciascuno agisce. Se questa
codificazione non avviene, avranno imparato gli individui ma non le organizzazioni.
(Argyrys e Shön, 1978, come citato in Novara e Sarchielli, 1996: 420).
Un’organizzazione che apprende è in grado di modificare i propri
comportamenti in base alle nuove intuizioni, comprendendo quindi quali sono le
funzioni al proprio interno da modificare, e sa misurare i propri risultati per avere
feedback a tutti i livelli. Perché un’organizzazione sia in grado di apprendere i suoi
membri devono riuscire a comprendere chiaramente su quali ipotesi e valori si basa la
politica aziendale in corso e devono saperli modificare ogni volta che risulta necessario.
In questo modo l’organizzazione sa adeguare le proprie strutture alle esigenze
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ambientali evitando il rischio di chiudersi in se stessa e smettere così di essere
competitiva. Peter Senge (1990) sostiene che i membri dell’organizzazione devono
comprendere i modelli di pensiero e la cultura che stanno alla base delle scelte
organizzative e devono essere in grado di svilupparne di nuovi ogni volta che si rende
necessario. In questo modo l’organizzazione crea il proprio futuro (cfr. Morgan, 2002:
123).
Tutto questo può causare grossi livelli di ansietà nelle organizzazioni dove i
dirigenti voglio avere tutto sotto controllo, perché in un ambiente così innovativo i
dirigenti dovranno imparare a convivere con l’incertezza, per favorire l’emergere di
soluzioni sempre più adatte.
1.1.3.b Il sistema just-in-time
Ricordiamo infine un modello di gestione dell’impresa, molto diverso da quelli
fin qui riportati, che si è sviluppato nel sistema di produzione giapponese il cui aspetto
fondamentale consiste nell’integrazione della tecnologia e delle risorse umane in un
sistema di continuo miglioramento con una forza lavoro in continuo apprendimento.
(Novara e Sarchielli, 1996: 375). In questo tipo di organizzazione il cliente è in
comunicazione con la progettazione, la produzione e con i fornitori. Questo sistema
creato da Taiichi Ohno (collaboratore del fondatore e del primo presidente della Toyota)
è stato chiamato sistema just-in-time.
Con il just-in-time sono stati eliminati i magazzini polmone (che permettevano
un flusso costante di materiali tra le unità produttive) e i collaudi. In questo modo non ci
sono scorte che permettono la sostituzione della macchina guasta e ogni stadio
produttivo si fa garante della qualità del pezzo prodotto, autocertifica il proprio lavoro.
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Questo è un sistema che promuove la Total Quality Management, cioè
l’assicurazione della qualità totale. Nell’organizzazione ci sono Circoli di qualità,
addestramento dei lavoratori a metodi di problem solving. La struttura operativa non è
più verticale e i percorsi di carriera diventano rotazioni all’interno dei gruppi di lavoro e
tra i reparti. Non ci sono più distinzioni nette tra il lavoro degli operai e il lavoro dei
tecnici, infatti non ci sono nemmeno grosse differenze di stipendio. Questo si rispecchia
anche nell’uniformità degli abiti da lavoro. In caso di difficoltà per l’organizzazione il
management, riduce il proprio stipendio e poi chiede ai dipendenti lo stesso
comportamento. Si favorisce la cooperazione con i fornitori, si evitano contrapposizioni
tra i diversi fornitori per i prezzi. Ma tutto questo è possibile solo dove i dipendenti sono
fortemente motivati e ritrovano nel lavoro la possibilità di esprimersi e realizzarsi e
senso di appartenenza all’azienda.
Nei paesi occidentali questo modello viene applicato solo in zone non ancora
industriali, senza tradizioni di strutture tayloriste-fordiste, di relazioni industriali, di
gerarchie di potere, di conflitti sindacali. Più arduo è convertire stabilimenti
tradizionali ad un sistema di produzione e di rapporti sociali radicalmente diversi.
(Novara e Sarchielli, 1996: 377).
Nel paragrafo successivo cercherò di mostrare perché è così difficile
promuovere il cambiamento di una cultura organizzativa.
1.2 Le organizzazioni e il cambiamento
Come emerge dai moderni approcci alle organizzazioni, cui ho accennato in
precedenza, le organizzazioni, nel corso della loro esistenza, devono affrontare diverse
forze di cambiamento. In precedenza ho già mostrato alcuni modi di affrontare il
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cambiamento nelle organizzazioni, ma ora presenterò l’argomento in forma più
sistematica e dettagliata.
1.2.1 Cosa spinge l’organizzazione a cambiare?
L’organizzazione è spinta al cambiamento da forze sia esterne che interne.
Rifacendomi alla classificazione di Kreitner e Kinicki (2004: 615) includo tra le forze
esterne del cambiamento quelle che hanno origine al di fuori dell’organizzazione e che
hanno effetti globali. Tra queste ne distinguiamo quattro tipi: le caratteristiche
demografiche (infatti le organizzazioni devono sfruttare le diversità per ottenere dai
propri collaboratori il massimo contributo e il massimo commitment), i progressi
tecnologici, i cambiamenti nel mercato (emerge l’economia globale che forza le
organizzazioni a cambiare il loro modo di agire in virtù di una forma mentis più
internazionale) e le pressioni socio-politiche (che influiscono sul modo in cui le
organizzazioni comunicano i propri dati finanziari, su come pubblicizzano i loro
prodotti, sul tipo di investimenti da compiere ecc.).
Sempre basandomi sulla classificazione di Kreitner e Kinicki includo tra le forze
interne del cambiamento quelle che derivano da condizioni interne all’organizzazione e
che spesso possono essere difficili da rilevare. Tra queste possiamo distinguere
problematiche relative alle risorse umane (derivate dalle percezioni che i collaboratori
hanno del modo in cui vengono trattati sul posto di lavoro e dalla corrispondenza tra i
bisogni e i desideri dell’individuo e quelli dell’organizzazione) e problematiche
derivanti dal comportamento e dalle decisioni del manager (il cambiamento può
rendersi necessario dove c’è un eccessivo conflitto tra manager e subordinati).
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1.2.2 Una classificazione del cambiamento
Sono distinguibili diverse tipologie di cambiamento organizzativo. Kreitner e
Kinicki (cfr. 2004: 620) distinguono tre tipi di cambiamento in base al grado di
complessità, costi, incertezza, e al grado di potenziale resistenza ad esso. Secondo
questa classificazione distinguiamo:
il cambiamento adattivo: consiste nella reintroduzione di una pratica nota; comporta
meno spese e incertezze, è il meno complesso e non è percepito come troppo
minaccioso dal collaboratore perché gli risulta familiare; un esempio di
cambiamento adattivo potrebbe essere l’estensione di una variazione dell’orario di
lavoro utilizzata normalmente in un periodo dell’anno, ad esempio per maggior
carico di lavoro, ad altri periodi in cui normalmente in precedenza non si era reso
necessario questo cambiamento;
il cambiamento innovativo: consiste nell’introduzione di una pratica nuova per
l’azienda, si situa a metà nella scala di complessità, costi e incertezza, dal momento
che comporta un certo grado di non familiarità causa incertezza e quindi una certa
dose di resistenza al cambiamento; un esempio di cambiamento innovativo può
consistere nell’imitazione dell’organizzazione della catena produttiva di una ditta
appartenente allo stesso settore;
il cambiamento radicalmente innovativo: consiste nell’introduzione di una pratica
nuova per il settore, si situa ad un estremo del continuum di complessità, costi e
incertezza; comporta i maggiori rischi per la fiducia nel manager e per l’affidabilità
del lavoro, questo tipo di cambiamento incontra perciò la massima resistenza; un
esempio di cambiamento radicalmente innovativo può consistere nell’invenzione di
un nuovo strumento di produzione rivoluzionario per tutto il settore di appartenenza.
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Per ognuna di queste tipologie il cambiamento non è un evento istantaneo, ma si
sviluppa nel tempo.
Per comprendere meglio il cambiamento organizzativo e la trasformazione che
subiscono le organizzazioni si ricorre a dei modelli dei processi di cambiamento, perché
le differenze e le particolarità delle singole realtà organizzative sono accomunate da
alcuni elementi che ci permettono di delineare dei quadri generali utili per la
comprensione della situazione.
1.2.3 I modelli dei processi di cambiamento
1.2.3.a Lo sviluppo organizzativo
Un primo modello è rappresentato dallo sviluppo organizzativo, che è un
insieme di studi e strumenti volti a sostenere i manager nel pianificare il cambiamento
dell’organizzazione e della gestione del personale, affinché acquisiscano il
commitment, il coordinamento e le competenze necessarie. L’obiettivo è quello di
migliorare sia l’efficacia dell’organizzazione sia il benessere dei suoi membri,
attraverso interventi pianificati nei processi umani, nelle strutture e nei sistemi
dell’organizzazione, utilizzando le conoscenze delle scienze comportamentali e i relativi
metodi di intervento. (Beer, M., Walton, E., 1990, come citato in Kreitner e Kinicki,
2004: 627). Da questa definizione emerge che gli obiettivi che si pone lo sviluppo
organizzativo sono il cambiamento degli atteggiamenti e dei valori, la modifica dei
comportamenti o cambiamenti alla struttura, alle politiche e alla cultura d’impresa.
Nella sua versione più attuale lo sviluppo organizzativo presenta alcune
caratteristiche distintive:
viene pianificato con prospettive a lungo termine;
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tenta di applicare la teoria e i risultati della ricerca di varie discipline per
risolvere i problemi organizzativi;
è il mezzo per collegare le risorse umane dell’azienda ai sistemi e processi
tecnologici, strutturali e gestionali;
è orientato all’azione, cioè centrato sul raggiungimento e superamento dei
risultati attesi;
coinvolge agenti del cambiamento che abbiano la fiducia e il rispetto necessari
per seguire l’organizzazione nel processo di trasformazione;
implica la ridefinizione e l’apprendimento di nuovi principi.
Dai diversi tipi di intervento praticati dallo sviluppo organizzativo è emersa
l’importanza: di coinvolgere in modo serio e visibile sia il management che le parti in
causa; di informare anticipatamente le persone di quello che succederà; di collegare gli
sforzi per il cambiamento ai sistemi di valutazione e agli incentivi; di far provenire la
spinta al cambiamento dal vertice e da un’accurata analisi delle condizioni
dell’organizzazione; di rendere nota ai collaboratori la relazione tra il cambiamento e gli
obiettivi dell’organizzazione.
1.2.3.b Il modello di Kurt Lewin
Alcune idee dello sviluppo organizzativo erano già presenti nel pensiero di Kurt
Lewin, in particolare in una delle fasi che, secondo il suo modello, compongono il
cambiamento: la trasformazione. Infatti Lewin ha elaborato un modello a tre fasi del
cambiamento pianificato che si fonda su cinque assunti:
1. il processo di cambiamento implica l’apprendimento di qualcosa di nuovo e
l’interruzione degli atteggiamenti, dei comportamenti e delle pratiche
organizzative in uso;