2
Il secondo capitolo tenterà di analizzare, soprattutto alla luce delle conquiste della
fenomenologia nel XX secolo, le categorie della presenza, dell’ambivalenza e
dell’incorporazione (affrontata specificatamente dall’antropologia), che intendono
superare la metafisica che regna sull’occidente da Platone in poi. Si sottolineerà come il
corpo non sia solo organismo da curare, carne da redimere, inconscio da liberare, ma
piuttosto presenza intenzionale, originaria e ‘ingenua’ che abita il mondo, che si dispiega
nello spazio che vive come casa, come luogo in cui realizzarsi e impegnarsi per far sì che
le cose del mondo rispondano alla sua intenzionalità. Il corpo, al di là dei principi di
identità e differenza che il codice – metafisico, religioso, medico, psicoanalitico,
sociologico… – ha prescritto, resta incurante e continua a esprimere “la sua specularità
bivalente” (Galimberti), funzione e potenzialità evidenti in pratiche come la comicità
popolare e la danza.
L’indagine condotta nei primi due capitoli permetterà di entrare nello specifico
della danza – arte di cui il corpo è l’elemento costitutivo – con un solido ancoraggio alla
storia del pensiero. Affrontando un percorso che – lungi dal voler esaurire tutta la storia
della danza – ha liberato il corpo da pregiudizi tecnicistici e virtuosistici, per ricondurlo
alla produzione di senso ambivalente nella sua pura presenza, si intenderà dimostrare come
anche nell’itinerario artistico il corpo si sia reso strumento privilegiato di conoscenza, là
dove “il linguaggio non riesce a dire in modo adeguato la svolta” (Heidegger).
Oltre ai mutamenti intervenuti nel panorama coreutico, che dal balletto classico
hanno condotto fino alla danza contemporanea, il terzo capitolo affronterà anche la
parabola della performance art (dalle prime sperimentazioni degli anni Cinquanta agli
estremismi della body art) individuata come genesi endogena di importanti sviluppi
nell’arte coreutica, tanto da essere percepita dalla nuova coreografia, in molti casi, come
tradizione, più di quanto non possa esserlo la danza classica.
Dopo il parziale e non esaustivo excursus storico di cui si fanno carico i primi due
paragrafi del terzo capitolo, si passerà all’esame di alcune questioni cruciali riguardanti la
nuova coreografia. Ci si interrogherà sul possibile senso della ‘tradizione’, per sottolineare
come il problema non stia, a nostro parere, nel riconoscimento di generazioni possibili, di
‘padri’ e di ‘figli’, ma piuttosto nel riconoscimento della libertà dell’artista rispetto a quelli
che egli ritiene i riferimenti fondanti del suo lavoro, e nell’assunzione di responsabilità
dello spettatore – l’altro imprescindibile polo dello spettacolo dal vivo – chiamato a ri-
creare attraverso il proprio sguardo una danza in cui, sempre di più, mancano tendenze
certe, le influenze sono costantemente rimescolate e i generi disattesi nel loro chiuso
3
perimetro. Altrettanto fondamentale risulterà la questione, tutta aperta, legata al termine
‘coreografia’: si vedrà come non sempre si possa parlare di coreografo unico, sempre meno
di “passi” – non sempre definiti in via preventiva – e soprattutto sempre meno di
formalizzazione chiusa e definitiva.
Il terzo capitolo concluderà affrontando i problemi legati alla questione del senso
nella danza contemporanea, in relazione agli orizzonti di attesa di un pubblico che cerca
conferme ai propri parametri di pensiero attraverso l’univocità dei significati e
l’inappellabilità della tecnica. In sostanza si cercherà di dimostrare come l’obiettivo della
danza contemporanea sia soprattutto forzare dall’interno meccanismi di fruizione ormai
percepiti come stantii, e come questa tenti di far aderire lo spettatore a una vibrazione
corporea generatrice di domande più che di risposte.
Si è scelto, a questo punto, di prendere in esame uno dei gruppi più interessanti
della danza contemporanea italiana: Mk, compagnia guidata da Michele Di Stefano, da
tempo impostasi all’attenzione di chi frequenta “la più impopolare delle arti”. Uno dei –
più superficiali – motivi d’interesse sta nel fatto che i due fondatori (lo stesso Di Stefano e
Biagio Caravano) non hanno una formazione tecnica tradizionale: entrambi hanno alle
spalle un back-ground soprattutto musicale, radicato nel fertile terreno del punk degli anni
Settanta-Ottanta. Di Mk si cercheranno di indagare le questioni fondamentali al centro del
lavoro: la ricerca di un corpo barthesianamente ottuso, aperto, “smussato”, inserito in uno
spazio performativo attraversato da correnti energetiche e da un tempo che è la stessa
dinamica corporea a creare, un corpo sempre “fuori da sé”, che non ritorna mai nella sua
interiorità e non si nasconde dietro figure e immagini.
Si cercherà, infine, di ricostruire una periodizzazione del lavoro di Mk: dagli
iniziali duetti di breve formato al primo punto di arrivo segnato da e-ink, fino al tentativo
di rendere il corpo sostanza sonora (con l’omonimo progetto), e all’ultima ricerca sulla
conoscenza a cui il corpo può accedere, sulla mappatura del reale che può operare
(Tourism). Tutto questo avverrà cercando di rendere conto della costante instabilità della
materia reattiva di cui è fatto Mk, includendo le varie derive e le diversità tra una replica e
l’altra, che fanno di ogni spettacolo il fraintendimento del precedente, in un originale
itinerario di conoscenza verso il corpo e le sue dinamiche.
4
CAPITOLO 1
IL CORPO: LA REPRESSIONE DELLA SUA NATURALE
AMBIVALENZA NELLA STORIA CULTURALE DELL’OCCIDENTE
1.1. La dipendenza del corpo dal mondo delle Idee: la dittatura
della filosofia metafisica
L’anima è in sommo grado simile
a ciò che è divino, immortale,
intelligibile, uniforme, indissolubile,
sempre identico a se medesimo,
mentre il corpo è in sommo grado simile
a ciò che è umano, multiforme, inintelligibile,
dissolubile e mai identico a se medesimo.
(Platone)
1
1.1.1 L’atto di nascita di una dialettica disgiuntiva: Platone
L’influenza della filosofia platonica sulla cultura occidentale è stata tale che ancora
oggi se ne può riscontrare il livello di penetrazione nel senso comune. Ognuno può
sperimentare in se stesso la naturale tendenza a pensare l’anima e il corpo come entità
separate, ‘parti’ di sé che magari si considerano influenzabili a vicenda, ma che restano
comunque separate.
La filosofia platonica – come ricorda Umberto Galimberti – ha dato uno specifico
statuto all’anima, e l’ha separata dal corpo, per dare seguito alle deduzioni – logiche – che
derivano dalla concezione immateriale e trascendente della verità. Infatti, se la verità è
trascendente,
[…] o si mantiene la primitiva identificazione dell’uomo col suo corpo e in questo modo gli si
nega l’accesso alla verità, o gliela si concede, ma allora bisogna identificare l’uomo con un
elemento immateriale, l’anima appunto, che, simile per natura all’essenza ideale della verità,
guarda il corpo come a un “carcere” o a una “tomba”. […] A questo punto il concetto di
“anima” che la filosofia di Platone introduce nel pensiero occidentale, lungi dall’essere una
realtà, è un prodotto logico derivato dalla dialettica disgiuntiva della sua filosofia […]
2
.
Prima di Platone, infatti, lo stesso pensiero greco classico non era questo; nella
letteratura omerica, ad esempio, che lo stesso Platone, come ogni greco, non poté fare a
1
Platone, Fedone, 80b.
2
Umberto Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 44.
5
meno di conoscere, le membra del corpo non sono meri ‘oggetti’, puri strumenti inanimati
cui uno spirito trascendente e immateriale offre vita finché dimora nel corpo. Per Omero
organi, arti, muscoli sono <<possibilità con cui il corpo si esprime nel mondo>>
3
, per lui il
piede di Achille non è una ‘cosa’, ma è la sua possibilità di superare l’avversario, così
come il suo tallone è la sua possibilità di morte – le famose formule omeriche identificano
infatti ogni eroe con la sua peculiare caratteristica, così Achille è “piè veloce”, dove il suo
piede è parte integrante della sua presenza nel mondo eroico dell’Iliade.
In Omero, sôma non è che il cadavere, il corpo esanime, significato che tuttavia si
adatta bene alla concezione del corpo che ha Platone, essendo questo per lui null’altro che
materia, carne senza vita cui l’anima dona soffio vitale. Allo stesso modo psyché significa
‘respiro’, dunque qualcosa di fisico, tanto che per Omero l’anima è l’occhio che vede,
l’orecchio che sente, il cuore che batte, non uno spirito che invade occhi, orecchie, cuore
per poi abbandonarli al momento di unirsi alle Idee nel mondo iperuranio che lo attende.
I termini psyché e sôma subiscono così una ri-attribuzione di significato ad opera di
Platone: il nuovo senso che egli affida a questi vocaboli è totalmente funzionale a
convalidare la tesi di trascendenza della verità e a permettere quindi di concepire l’accesso
ad essa (solo) grazie all’immaterialità dell’anima.
E’ nel Fedone, dialogo tramandato anche come “Sull’Anima”, che Platone
definisce in maniera sistematica la metafisica che influenzerà il pensiero di tutto
l’Occidente. Il Fedone è la storia di una morte, quella di Socrate, raccontata da Fedone,
appunto, allievo dello stesso Socrate, a Echecrate, pitagorico, il quale è ansioso di
conoscere i discorsi che il filosofo fece in carcere ai discepoli prima della
somministrazione del veleno che lo uccise. Attraverso il consueto personaggio di Socrate
(non nuovo ai dialoghi platonici), Platone cerca di dimostrare l’immortalità dell’anima,
usando come ‘espediente narrativo’ la serenità con cui Socrate attende la morte, certo che
solo questa permetterà alla sua anima, finalmente separata dal corpo, di accedere alla
verità, scopo ultimo della sua vita di filosofo.
Proprio all’inizio di questo dialogo il pensatore ateniese affronta il tema dei sensi,
quelli che per Omero, come detto sopra, sono parte integrante dell’anima, e che per lui, al
contrario, sono ingannevoli: <<come ci ripetono continuamente anche i poeti, noi non
udiamo né vediamo nulla di preciso>>
4
. I bisogni e gli istinti corporei, piuttosto,
3
Ibidem, p. 46.
4
Platone, Fedone, 65 b-c.
6
distraggono dalla pratica della filosofia e dunque il vero filosofo, amante del vero,
disprezza al massimo grado le costrizioni fisiche a cui è soggetto:
[…] finché possediamo il corpo e la nostra anima fa tutt’uno con quest’elemento malvagio, noi
non otterremo mai, in misura adeguata, il possesso di ciò che desideriamo, ovvero di quello che
diciamo essere il vero
5
.
I sensi del corpo, secondo Platone, non sono in grado di conoscere il Bello, il
Buono, il Giusto, il Vero, oggetti della ricerca della filosofia: <<il corpo tutto intero […]
quando è in relazione con l’anima […] la turba e non le permette di entrare in possesso
della verità>>
6
. Il problema sta dunque nel fatto che nel mondo terreno gli uomini,
‘intrappolati’ nel corpo, non possano cogliere gli enti nella loro purezza, ma solo ciò che è
mutevole, in divenire, imperfetto, per altro non in modo chiaro e distinto, ma spesso
ingannevole.
Da qui la necessaria premessa che esistano due mondi separati: uno immanente,
mutevole, transitorio, l’altro al contrario perfetto, incorruttibile, trascendente. È proprio dal
mondo delle Idee, l’Iperuranio, che prende il via la riflessione tesa a cercare una parte
dell’uomo che sia fatta della stessa sostanza delle Idee per potersi (ri)congiungere ad esse.
L’obiettivo ultimo di questa speculazione va ricercato nell’intenzione di far
conciliare le conclusioni di Parmenide – che Platone stesso indica come suo maestro e che
predicava la necessaria eternità e immutabilità di ogni cosa – con l'evidenza del divenire
che si riscontra nella realtà sensibile. Per rendere conto di entrambe le realtà, Platone
concepisce allora una fondamentale (sostanziale) differenza tra la verità (alétheia), quella a
cui deve tendere il filosofo, ovvero la conoscenza dei puri concetti, e l’opinione (dòxa),
che invece non è altro che la percezione fallace che guarda solo ai fenomeni sensibili,
mutevoli, corruttibili, materiali, quando non addirittura contraddittori.
Ogni ente terreno partecipa in diversa misura dell’idea che lo trascende – un
oggetto bello non è bello ‘in sé’, ma partecipa in parte dell’idea di bellezza, che al
contrario è pura, incontaminata, assoluta. È in questo modo che Platone intende rendere
conto della mutevolezza e del carattere corruttibile del reale a fronte de – e mantenendo
intatta – la necessaria eternità e immutabilità di ogni cosa.
Sono le Idee, quindi, i concetti, a prendere parte della verità – Platone chiama
infatti questo concetto che non muta ‘idea’, da eidòs, forma, poiché si tratta della forma
certa, autentica e immutabile della realtà – al contrario degli enti sensibili che sono solo
5
Ibidem, 66 b-c (corsivo mio).
6
Ibidem, 66 a-b.
7
dòxa, pur partecipando in parte del concetto trascendente che li origina. Gli enti sensibili,
perciò, ‘dipendono’ dal mondo delle Idee. Questo determina la fondamentale dicotomia
che, dividendo il mondo in verità e opinione, idee e oggetti sensibili, arriva infine alla
necessaria distinzione, all’interno dell’uomo, in anima e corpo:
L’anima [è] in sommo grado simile a ciò che è divino, immortale, intelligibile, uniforme,
indissolubile, immutabile e sempre identico a se stesso. Quanto al corpo, invece, esso è del
tutto simile a ciò che è umano, mortale, multiforme, non intelligibile, dissolubile e
continuamente mutabile in se stesso
7
.
Per dare all’uomo la possibilità di accedere alla verità, Platone deve inevitabilmente
concepire una parte dell’essere umano che possa partecipare delle idee, che sia fatta della
loro stessa sostanza, che sia “in sommo grado simile” a quelle, e che possa così accedere al
mondo iperuranio – cioè “oltre la volta celeste”, fuori dal tempo e dallo spazio, aldilà della
realtà sensibile e sperimentabile ogni giorno dall’uomo – dove queste dimorano, e la trova
nell’anima:
[…] se mai intendiamo conoscere con chiarezza qualche cosa, dobbiamo abbandonare il corpo
e contemplare, con la sola anima, le cose in se stesse
8
.
Anche l'anima è un'idea e, in quanto idea, anche l’anima abita l’Iperuranio, è perciò
immortale e immutabile.
Nel Fedro Platone, dopo aver dimostrato che l’anima, al contrario del corpo e degli
altri enti sensibili, non ha principio perché è principio, non è mossa perché è essa stessa
principio di movimento e di vita, arriva a dire:
[…] Infatti il corpo (sôma) cui il movimento è dato dall'esterno è inanimato (ápsychon), mentre
ciò che lo dà a se stesso da sé è animato (émpsychon), poiché questa è la natura dell'anima. Ma
se questo è vero, che quanto si muove da sé non è nient'altro che anima, allora necessariamente
l'anima è immortale e non venuta ad essere
9
.
L'anima, essendo dunque immortale, preesiste al corpo, conosce il mondo eterno
delle idee. Vivendo nel mondo delle idee, conosce la verità, ma quando si incarna in un
corpo, ente terreno, essa non è più Anima assoluta, ma è anima partecipante all'ente,
ovvero è parte dell'Anima assoluta. Per questo l'anima dell'uomo, giunta nel mondo
sensibile, non è più in grado di comprendere appieno i puri concetti, perché non è più se
7
Ibidem, 80 b.
8
Ibidem, 66 e.
9
Platone, Fedro, 245 d-e.
8
stessa interamente. Nonostante questo mantiene la facoltà di ricordare qualcosa. Qui
Platone non nega il suo tributo alle dottrine misteriche, all’Orfismo, alle religioni orientali,
immaginando che l’anima si ‘incarni’ in un corpo e viva in un ciclo di reincarnazioni che
ha come fine ultimo quello di liberarsi da ogni giogo terreno e conquistare la spiritualità
pura, scopo di ogni sapiente. Riaffiora in questo orizzonte anche il concetto di
‘reminescenza’: le anime, specialmente quelle dei saggi, che sono state più a lungo e più
vicine alle idee nell’Iperuranio, una volta giunte sulla terra, costrette nel corpo che non
permette loro di ‘volare’ e non permette al pensiero di arrivare a concepire i puri concetti,
ricordano però qualcosa, la riconoscono, perché l’hanno già veduta in precedenza.
L’anima, precisa Platone nel Fedro, è simile a una biga alata, guidata da un auriga e
trainata da due cavalli, uno bianco e uno nero. L’auriga rappresenta la parte razionale
dell’uomo, a cui è affidata la conduzione della biga, mentre i due cavalli incarnano le
passioni. Il cavallo bianco rappresenta la tensione verso il bene, il giusto e la sapienza:
spinge dunque verso l’alto; quello nero invece verso il basso: le passioni terrene, la
corruzione, il male. Sta all’auriga seguire un cavallo o l’altro. I cavalli, poi, sono
originariamente alati, ma nel momento in cui la spinta verso il basso del cavallo nero fa sì
che le ali si spezzino, le anime degli uomini precipitano sulla terra e non sono più in grado
di volare
10
.
Dunque il corpo non sarebbe altro che una pesante catena che tiene l’anima
dell’uomo sulla terra, che non permette alle ali di spuntare e al pensiero di volare “oltre la
volta celeste”; si caratterizzerebbe come la tomba di quest’anima che anela a
ricongiungersi alle idee, come sôma, nient’altro: cadavere, oggetto tra gli oggetti, senza il
soffio vitale dell’anima.
Attraverso il consueto procedimento che affida a un mito la spiegazione di una
teoria, per mostrarne l’evidenza, nel VII libro de La Repubblica, Platone racconta il celebre
mito della caverna per mostrare la condizione di prigionia degli uomini e la falsità delle
apparenze mondane:
[…] immagina degli uomini chiusi in una specie di dimora sotterranea a forma di caverna,
avente l'ingresso aperto alla luce e ampio per tutta la lunghezza dell'antro e quivi tali uomini
racchiusi sin da fanciulli, con le gambe e il collo in catene, sì da dover star fermi e guardar solo
dinanzi a sé, ma incapaci per i vincoli a muovere in giro la testa; e che la luce di un fuoco arda
dietro di loro, in alto e lontano, e che tra il fuoco e i prigionieri corra in alto una strada, lungo
la quale è costruito un muricciolo, come quegli schermi che hanno i burattinai per nascondere
le figure e sui quali esibiscono i loro spettacoli. [...] Credi tu anzitutto che di se stessi, e gli uni
degli altri, vedano altro, fuorché le ombre riflesse dal fuoco sulla parete dell'antro di fronte a
loro? [...] E per gli oggetti trasportati, non è lo stesso? [...] E se fossero in grado di discorrere
10
Cfr. Platone, Fedro, 251 c-252 b.
9
tra loro, non pensi tu che essi prenderebbero per realtà quel che appunto vedessero? [...] Per tali
persone insomma, la verità non può essere altro che le ombre degli oggetti artificiali. [...]
Esamina ora come potrebbero sciogliersi dalle catene e guarire dall'insensatezza. Ammetti cioè
che […] uno fosse sciolto e costretto d'un tratto ad alzarsi [...] cosa credi che direbbe se uno gli
dicesse che prima vedeva solo vane apparenze, e che ora invece vede più giusto qualcosa di più
vicino alla realtà, rivolto com'è egli a una realtà maggiore?
11
L’esistenza terrena dell’uomo non sarebbe che un incatenamento, una prigionia,
una visione ingannevole fatta di ombre e fantasmi che gli uomini considerano
erroneamente reali, mentre la verità abita solo nel mondo delle idee che l’uomo, una volta
sciolto dalle catene e “guarito dall’insensatezza”, è finalmente in grado di contemplare.
In sostanza, l’irrilevanza e, anzi, la pericolosità del corpo, non è ciò che Platone
dimostra, ma ciò che la sua filosofia disgiuntiva e metafisica richiede, per rendere conto
del valore supremo dei concetti in sé, del mondo trascendente che supera, sottomette e
comanda il mondo terreno. L’ambivalenza del corpo – il suo essere riluttante a lasciarsi
guidare dall’auriga perché formato da due cavalli che hanno scopi opposti eppure vivono
l’uno accanto all’altro, il suo essere profondamente legato alla propria presenza nel mondo
– deve essere sottomessa all’equivalenza del valore della verità del mondo iperuranio. Se la
ricerca di un principio generale che possa dar conto della realtà, che possa spiegarla ‘una
volta per tutte’, è lo scopo della filosofia metafisica, il fine ultimo del pensiero platonico
non può essere che il rendere conto della mutevolezza del reale, fatta salva l’immutabilità
di ogni cosa predicata da Parmenide:
[…] La radice di questa idealizzazione va cercata nella possibilità di mettere in equivalenza
due cose differenti attraverso una comune misura che, per diventare operativa, deve cancellare
le differenze che proprio nei corpi hanno la loro espressione. Nel rifiuto platonico del corpo ciò
che emerge […] è la distruzione dell’ambivalenza simbolica dei corpi a vantaggio della
fondazione della loro equivalenza nell’idea-modello in cui si esprime il loro valore
12
.
11
Platone, La Repubblica, libro VII 514a-517a.
12
U. Galimberti, Il corpo, cit. p. 53.
10
1.1.2 Il corpo oggetto: la res extensa cartesiana
A proseguire e radicalizzare il dualismo cosmico e antropologico della metafisica
platonica, fondando un metodo meccanicistico in grado di spiegare con certezza il mondo e
quindi impregnando di sé ogni scienza dell’Occidente, ci ha pensato René Descartes
(1596-1650). La sua filosofia nasce dall’esigenza di trovare un metodo che possa spiegare
la realtà nel modo più oggettivo possibile: il Discorso sul metodo, nato inizialmente come
premessa introduttiva a una raccolta di saggi scientifici, ha poi acquisito una sua autonomia
testuale come ‘compendio’ del pensiero cartesiano, tanto da essere il suo scritto più noto.
Il principio metodologico da cui parte Cartesio si riassume nel voler mettere in
dubbio ogni cosa per poter trovare principi o fatti che invece si presentino alla mente come
chiari e indubitabili, assolutamente evidenti. La prima di queste deduzioni logiche prive di
dubbio e scevre di ogni sorta di messa in discussione, dotate insomma dell’evidenza
ricercata, è che, sebbene le cose che penso – per rimettere in discussione la conoscenza del
mondo Cartesio si mette in gioco in prima persona – non siano caratterizzate da certezza e
indubitabilità, il fatto stesso di pensare è indubbio, dunque la mia stessa esistenza è
strettamente correlata al pensiero:
[…] poiché i nostri sensi a volte ci ingannano, volli supporre che non ci fosse cosa quale essi
ce la fanno immaginare […] presi la decisione di fingere che tutte le cose che da sempre si
erano introdotte nel mio animo non fossero più vere delle illusioni dei miei sogni. Ma subito
dopo mi accorsi che mentre volevo pensare, così, che tutto è falso, bisognava necessariamente
che io, che lo pensavo, fossi qualcosa. E osservando che questa verità: penso, dunque sono, era
così ferma e sicura, che tutte le supposizioni più stravaganti degli scettici non avrebbero potuto
smuoverla, giudicai che potevo accoglierla senza timore come il primo principio della filosofia
che cercavo
13
.
Continuando il suo discorso, a Cartesio risulta con la massima evidenza che null’altro se
non la sua attività pensante caratterizza la sua esistenza, che potrebbe esserci anche senza
un corpo localizzato in un luogo e in un tempo specifici. Egli ha comunque ben chiaro che
si tratta, in questo caso, di pura potenzialità, che il suo è un dubbio metodico (cioè: “so che
è così, ma non potendolo dimostrare lo metto in discussione”) e non psicologico (“non so
se sia effettivamente così o no”). Infatti, prosegue,
[…] appena avessi cessato di pensare, ancorché fosse stato vero tutto il resto di quel che avevo
da sempre immaginato, non avrei avuto alcuna ragione di credere ch'io esistessi: da tutto ciò
conobbi che ero una sostanza la cui essenza o natura sta solo nel pensare e che per esistere non
ha bisogno di alcun luogo né dipende da qualcosa di materiale. Di modo che questo io, e cioè
la mente per cui sono quel che sono, è interamente distinta dal corpo, del quale è anche più
13
René Descartes, Discorso sul metodo [1637], in Opere filosofiche, Laterza, Bari, 1986, vol.I, p. 312.
11
facile a conoscersi; e non cesserebbe di essere tutto quello che è anche se il corpo non
esistesse
14
.
Da scienziato, ossessionato dall’idea di spiegare nella maniera più certa e
inconfutabile la realtà, Cartesio non trova metodo più calzante anche alla realtà mondana
che non sia la matematica. Questa scienza si è dimostrata perfetta per spiegare le quantità,
ma, si obietterà, non tutta la realtà è spiegabile quantitativamente. Cartesio, invece,
sostiene che le qualità non siano altro che “modi di manifestarsi delle quantità sui nostri
sensi”. Con questo Cartesio non vuol dire che si debbano usare formule algebriche per
spiegare ogni aspetto della realtà, dalla politica alla medicina, ma che il metodo
matematico, per lui fondato su intuizione, dimostrazione e sensazione, essendo il più
preciso e rigoroso di cui disponiamo, è quello da utilizzare per arrivare a spiegare ogni
cosa, fino all’esistenza di Dio e dell’anima.
Platone riecheggia anche in quella che per Cartesio è la dimostrazione
dell’esistenza di Dio: dubitando, il mio ego, che è sostanza pensante, res cogitans, intuisce
la sua imperfezione, ma per intuire quest’imperfezione deve avere in sé l’idea di perfezione
– un’idea mentale, non una rappresentazione reale, visto che nella realtà non posso vedere,
con gli ingannevoli sensi, nulla di perfetto – è perciò evidente, agli occhi del pensatore
francese, che la stessa intuizione, metodo (matematico) di inferenza immediata,
presupponga l’esistenza di altro da me e dal mondo che percepisco: ci deve essere un ente
che non sono io e che é perfetto che mi dia l' idea di perfezione. Per quanto il punto di
partenza sia differente – da una parte l’ego, dall’altra l’anima – risulta evidente quanto
questo discorso sia ricalcato sulla filosofia platonica, che chiama “reminescenza” quello
che Cartesio chiama “intuizione”. È chiaro, allora, che esistono due realtà: quella mondana,
apparente per Platone, dimostrabile, forse, ma metodologicamente sottoposta a dubbio, per
Cartesio, e una ultraterrena, iperurania o divina che sia. Il dualismo cosmico non risparmia
neanche l’uomo in se stesso: se l’unica certezza è che io sono res cogitans e la mia
essenza si risolve interamente in questo, l’unica cosa che si può dedurre da qui è che il
corpo, come tutti gli enti fisici, sia – se corpo ed enti fisici esistono, visto che l’unica cosa
che ho dimostrato con evidenza è la mia esistenza come essere pensante – res extensa, cioè
materia sottoposta alle leggi fisiche dell’estensione e del movimento, uniche caratteristiche
quantificabili e quindi verificabili, al contrario delle qualità delle quali non abbiamo
nessuna certezza.
14
Idem.
12
Con nomi diversi, allora, nel Seicento ci si ritrova davanti a una riproposizione del
platonismo: due realtà cosmiche radicalmente diverse e in opposizione tra loro e la loro
proiezione sull’uomo, fatto di una sostanza – l’unica vera e indubitabile – che lo identifica,
cioè la res cogitans, che risponde al principio del cogito ergo sum ed è in grado di intuire
la perfezione dell’idea di Dio, e di res extensa, cioè il corpo, oggetto delle sue cogitazioni
come ogni altro ente della realtà sensibile. Il corpo viene quindi ridotto a oggetto,
spiegabile, analizzabile e misurabile secondo criteri quantitativi, gli unici che la
matematica, solo metodo certo, sia in grado di spiegare.
Resta da capire come corpo e anima possano ‘fondersi’ – anche se
ingannevolmente, in una falsata, come si è visto, percezione umana – nell’esistenza
dell’uomo, nella sua vita quotidiana; in che luogo del corpo, insomma, l’anima, la res
cogitans, possa esercitare la sua influenza sul ‘pezzo di carne’ che compone la res extensa
dell’uomo. Al pensatore, così, anche per mediare quest’esasperato dualismo,
[…] sembra di aver stabilito con evidenza che la parte del corpo in cui l’anima esercita
immediatamente le sue funzioni non è affatto il cuore, e nemmeno tutto il cervello, ma solo la
parte più interna di questa, che è una certa ghiandola molto piccola, situata in mezzo alla sua
sostanza, e sospesa sopra il condotto attraverso cui gli spiriti delle cavità interiori comunicano
con quelli delle posteriori […]
15
.
Ma la ghiandola pineale, questa “certa ghiandola molto piccola” che sembra risolvere le
incongruenze cartesiane, non basta a ricomporre la separazione operata, perché in questo
modo il corpo rimane una res, una ‘cosa’ inanimata su cui l’anima, la res cogitans, l’ego si
‘innesta’, passando attraverso un minuscolo organo situato nella parte più interna del
cervello, permettendo così una circolazione di “spiriti” senza i quali la res corporea
rimarrebbe appunto senza vita. Individuando – per Cartesio, stabilendo “con evidenza” –
questa specie di ‘ponte’ o ‘contatto’ tra l’anima e il corpo, non è possibile giungere a una
ricomposizione della frattura, permane piuttosto la distinzione, con una possibilità, del
resto innegabile, di collegamento tra le due parti in causa.
Con Cartesio e con la sua ferrea logica, con il suo indubitabile metodo matematico,
la scienza si attesterà sulla concezione del corpo come ‘cosa’, necessariamente da
oggettivare per analizzare, misurare, quantificare, esattamente come la psicologia,
dall’altra parte, si attesterà su un’autonomia dello psichico cercando comunque di spiegarlo
in base alla logica disgiuntiva che ha astratto l’anima psicologica o spirituale esattamente
come s’è fatta un’astrazione dell’oggetto-corpo.
15
R. Descartes, Le passioni dell’anima [1649], in Opere filosofiche, cit., vol.IV, Parte I, articolo 31, p. 22.
13
1.2. La declinazione cristiana erede della dicotomia platonica
Confrontandosi nuovamente con il senso comune, la dicotomia corpo/anima,
nell’accezione che riduce il corpo agli stimoli (spesso peccaminosi) della carne, e invece
innalza l’anima a una funzione auto-disciplinante, assume inevitabilmente una
connotazione religiosa. Osservandola più da vicino, però, una visione così semplicistica
nella sua netta contrapposizione si fonda su una serie di contraddizioni, quando non
fraintendimenti.
Per quanto il cristianesimo prescriva il sacrificio del corpo nella vita terrena per
guadagnarsi l’immortalità dell’anima nel Regno dei Cieli, nel linguaggio biblico è assente
il dualismo greco di anima e corpo. La tradizione biblica ha una visione unitaria dell’uomo,
oltretutto a forte accentuazione corporea, ma concepisce un dualismo cosmico che
contrappone la vita alla morte, la carne allo spirito, il peccato all’alleanza e alla
redenzione.
Dato che la tradizione biblica non dispone di vocaboli per indicare quello che la
tradizione greca, e poi latina, chiameranno ‘corpo’, ‘anima’ e ‘spirito’, <<questi significati
sono da addebitare alla traduzione greca antica dei Settanta
16
che deviò l’antropologia
biblica su quei binari dicotomici o tricotomici in cui il corpo, l’anima e lo spirito
compaiono come entità diverse e in contrasto fra loro>>
17
. L’antica tradizione biblico-
semita si esprimeva infatti in termini corporei: è il corpo che traccia lo spazio di vita
dell’uomo, delle sue attività, delle sue potenzialità, subordinato, certo, alla volontà, alla
potenza e alla gloria di Dio.
I termini ‘fraintesi’, o che comunque hanno subito uno stravolgimento semantico
illuminati dalla filosofia platonica che è subentrata nel momento in cui l’Antico
Testamento è stato tradotto in greco, sono principalmente – seguendo il ragionamento di
Galimberti – nefes, bâsâr e leb
18
. Nefes, tradotto dai Settanta con psyché e dai latini con
anima, indica in realtà il carattere costitutivamente indigente e bisognoso dell’uomo, <<per
cui l’uomo non ha una nefes, ma è nefes>>
19
. Letteralmente, quando l’Antico Testamento
parla di nefes, si riferisce alla gola, al collo, allo stomaco, vale a dire agli organi corporei
16
La Bibbia dei Settanta, comunemente indicata come LXX, è la più vecchia versione greca del Vecchio
Testamento della Bibbia; il titolo "settanta" si riferisce alla tradizione secondo la quale questa era l’opera di
70 traduttori (o di 72 in alcune tradizioni).
17
U. Galimberti, Il corpo, cit., p. 57.
18
Per un’analisi particolareggiata cfr. U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, Feltrinelli, Milano, 1979,
in particolare cap. 2: “La religione biblica e la maledizione della carne”, pp. 85-111.
19
U. Galimberti, Il corpo, cit., p. 58.
14
che presiedono alla fame, alla sete e agli altri bisogni primari dell’uomo. Dal significato
letterale si passa poi a quello metaforico per cui la nefes è desiderio, aspirazione, brama di
cose non propriamente commestibili ma comunque vitali (come terra e figli) e dunque il
suo significato finisce con il coincidere con la vita stessa.
Allo stesso modo, bâsâr indica sì carne caduca e impotente rispetto alla potenza
(ruah) di Dio, ma questa carne non è in sé negativa rispetto alla positività dell’anima, come
nell’idea greca post-platonica, ma diventa positiva o negativa a seconda della sua fedeltà o
infedeltà all’alleanza con Dio. È questa infedeltà al patto con Dio che determina il peccato
nel momento in cui l’uomo, indigente, bisognoso, impotente, decide di fidarsi delle sue
sole forze senza tenere conto della volontà divina, ed è per questo che il peccato,
accidentale e non sostanziale, finisce, nella traduzione greca, per saldarsi completamente
all’idea della carne, <<non perché la carne è cattiva come si pensava nel mondo greco, ma
perché la tradizione veterotestamentaria aveva fatto della carne il simbolo della pretesa
umana all’autonomia e all’indipendenza da Dio>>
20
.
Infine il leb, <<che copre un arco di significati che va dal sentimento del cuore […]
alla ragione […], alla volontà che si decide per Dio o contro Dio>>
21
, risiede nel cuore,
poiché conosce e ragiona non grazie a capacità raziocinanti, ma perché si dispone
all’ascolto (naturalmente del Verbo divino). Dunque per l’Antico Testamento la
conoscenza non è qualcosa che l’uomo può raggiungere grazie alle capacità razionali della
sua mente, ma qualcosa che ottiene in dono se con il cuore si dispone all’ascolto. Perciò il
cuore – dunque un organo – e non la mente, è la sede della razionalità, razionalità che si
realizza grazie alla massima apertura alla Parola.
Inoltre, come già il bâsâr, anche il leb non è in sé buono (o cattivo), ma lo diventa a
seconda se si decida per o contro Dio, se si scelga di chiudere la propria razionalità
all’ascolto della Parola – in questo risiede il significato di ‘stoltezza’ nell’Antico
Testamento – o se si accetti con la buona disposizione del cuore di ricevere il Verbo divino
e lasciarsi guidare da esso.
Nella concezione biblica dell’uomo non c’è dunque alcuna opposizione disgiuntiva né traccia
di dualismo antropologico, ma massima distanza e assoluta differenza tra l’onnipotenza (ruah)
di Dio e l’indigenza (nefes), la caducità (bâsâr), l’incerto muoversi (leb) dell’uomo, che solo
da Dio può ottenere l’ordine della sapienza e la forza della volontà […] per la tradizione biblica
non c’è un’anima naturalmente buona e un corpo naturalmente cattivo, perché le cose visibili e
corporee sono creazione divina allo stesso modo di quelle invisibili, e […] Dio trova buono
tutto ciò che crea, per cui il male non è nel corpo, ma nella separazione dell’uomo da Dio, nella
20
Ibidem, p. 60.
21
Idem.
15
pretesa della sua nefes, del suo bâsâr, del suo leb di vivere senza la ruah di Dio. […]
antropologicamente l’uomo non è carne, ma corpo, cioè carne vivificata da Dio […]
22
.
L’opposizione vita/morte si gioca allora nella vicinanza o meno alla ruah di Dio,
nell’ascolto della sua Parola, in assenza della quale tutto è carne (bâsâr), cioè caducità e
impotenza; ma questo non significa che l’uomo unisca in sé due mondi, quello dello spirito
e quello della carne, ma solo che disponga di due possibilità: allearsi o meno alla volontà
divina, seguire il Verbo di Dio o affidarsi alla propria carne che, non più vivificata dalla
ruah divina, è l’esatta definizione della morte.
Nella traduzione greca, invece, così impregnata di platonismo, il corpo non ha più
la possibilità di ‘incorporare’ la ruah divina ed essere così buono, esente dal peccato, ma
assume esclusivamente e totalmente il significato di ‘carne’, bisognosa, indigente, caduca e
peccaminosa, e il suo opposto diventa l’anima che quasi automaticamente, per sua propria
costituzione e sostanza, se è in grado di separarsi dai bisogni e dai desideri del corpo, può
accedere alla saggezza e alla vita eterna nel Regno dei Cieli.
Oltre alle accezioni, come si è visto ambivalenti, che l’Antico Testamento dà di
vita, carne e ragione, a testimonianza della sua visione unitaria dell’uomo, contrariamente
alla luce dicotomica che la filosofia platonica ha gettato su di esso, c’è da dire che in
questa religione rivelata – e solo in questa – il Messia, il figlio di Dio, per essere più vicino
agli uomini, per salvarli dal peccato originale, si è incarnato. È questo il più grande dei
misteri del cristianesimo: attraverso suo figlio Gesù Cristo, Dio stesso (uno e trino, Padre,
Figlio e Spirito Santo) si è fatto carne, corpo, è diventato quel corpo vivificato che sviluppa
(e predica) la Parola di Dio nel mondo. Dio stesso ha assunto su di sé, ha vissuto i bisogni,
l’indigenza, la caducità dell’essere umano, ma non per questo si è fatto peccatore, poiché il
corpo non è in sé cattivo, gli enti sensibili (usando una terminologia platonica) non sono in
sé ingannevoli e apparenti – anche perché tutte creature di Dio, per il quale tutto ciò che da
lui è stato creato è buono – ma semplicemente ha sperimentato la difficoltà dell’esistenza
umana, per la quale seguire le indicazioni di Dio richiede impegno e sacrificio – tanto che
anche Cristo subisce le Tentazioni.
Cristo, infine, con la sua morte riallaccia la circolazione simbolica tra vita e morte
che il pensiero greco post-platonico ha invece inserito nella serie di opposizioni
dicotomiche che sottomettono l’ambivalenza all’equivalente generale. Al contrario del
Socrate che si incontra nel Fedone platonico, che non ha paura della morte perché solo
22
Ibidem, pp. 61, 63.