esso collegata al circuito globale. Le aree prive delle infrastrutture di base sono
ancora molto lontane dal sistema commerciale e finanziario internazionale. Ad
esempio, se la rete elettrica di un Paese, o parte di esso, è inaffidabile, non si è
connessi alla rete. Se il volume della produzione di un’azienda é troppo piccolo
per riempire i 55 metri cubi di un container, non si è collegati alla rete. Se i tribunali
funzionano così male che pochi stranieri sono disposti a crederti quando assicuri
loro che un bene è di loro proprietà, non sei collegato alla rete. Per i ogni
segmento povero dell’economia globale essere collegati al circuito globale è
un’immensa opportunità. Ma, prosegue De Long, è un’opportunità che richiede
che tutto, infrastrutture, economie di scala, amministrazione pubblica, gestione
aziendale e conoscenza all’estero delle capacità locali di produzione, funzioni
correttamente. Solo se tutte queste condizioni sono rispettate si può essere
connessi alla rete globale.
Essere in globalizzazione, dunque, vuol dire essere connessi alle diverse
dimensioni del flusso, o della rete globale. Come si è visto, la connettività pone dei
requisiti e rispondere a tali requisiti comporta dei costi di accesso. Allo stato
attuale, non tutti gli attori economici sono in grado di far fronte ai costi d’entrata.
La globalizzazione non è ne può essere equa: vi sono chiaramente dei vincitori e
dei vinti o, se si preferisce, dei connessi e degli sconnessi. In secondo luogo, stante
che le conseguenze di tale processo si manifestano e coinvolgono l’intero globo,
risulta che chi è sconnesso è coinvolto comunque nella globalizzazione e ne
subisce passivamente gli effetti. Non è questa la sede per stabilire se la
globalizzazione sia “guidata” da uno stretto numero di vincitori che sfruttano tale
processo per imporre i propri modelli (si veda l’esempio degli Equator Principles e
Basilea 2 fornito in Appendice) a chi connesso non è, né vi è spazio per dibattere
se i vinti possano in qualche modo influire sul flusso, inviando quanto meno degli
“stimoli di risposta” (feedback).
Quanto rileva in questa sede è analizzare le potenzialità della globalizzazione
come strumento di sviluppo. Connettere un paese al flusso della globalizzazione e
renderlo un attore del processo ne libera e moltiplica le potenzialità. Come si è già
detto la connessione comporta dei costi che i Paesi più poveri non sono
apparentemente in grado di sostenere.
Il vero interrogativo che ci si deve porre ora, non è come possa essere definita
la Globalizzazione ma piuttosto se ed in quali modi i Paesi in via si sviluppo possono
connettersi e avere successo una volta forniti gli strumenti e le conoscenze
adeguate.
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L’analisi che segue prende in esame il settore finanziario della Globalizzazione,
in particolare si sofferma sui movimenti di capitali e sulle potenzialità offerte dalla
finance for trade, approfondendo, là dove richiesto, le caratteristiche salienti delle
componenti del flusso globale.
Fonti:
- Internazionale 627, febbraio 2005, Roma.
- Internazionale 661, settembre 2006, Roma.
- Panorama 5, febbraio 2007, Milano
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Globalizzazione: garden varieties
Il termine Globalizzazione si riferisce genericamente alla crescente
interdipendenza degli attori globali, catalizzata da una continua integrazione
economica dovuta al commercio, agli aiuti ed investimenti esteri, e alla
migrazione internazionale di persone ed idee. La Globalizzazione, divenuta negli
ultimi tempi vera e propria buzzword, ha sollevato numerosi interrogativi e
generato altrettanti numerosi luoghi comuni e pregiudizi, talora privi di ogni
argomentazione razionale talvolta giustamente fondati. Il processo di
Globalizzazione è un fenomeno ineluttabile della storia umana? Tutti i Paesi
possono godere dei suoi effetti benefici? O comporta nuove forme di
ineguaglianza e sfruttamento?
Il bilancio relativo ai costi e benefici della Globalizzazione per i diversi gruppi di
Paesi e per le diverse tipologie di persone è uno degli argomenti maggiormente
discussi tra le problematiche relative allo sviluppo. Da esso traggono spunto non
solo numerosi scritti accademici ma anche violenti scontri nelle strade delle
maggiori metropoli globali.
La maggior parte degli attivisti dei movimenti no-global è probabilmente
d’accordo nell’affermare che essi non contestano il crearsi di legami commerciali
e di cooperazione sempre più stretti. L’origine dello scontro è la pratica di una
Globalizzazione guidata dai singoli interessi delle imprese multinazionali, le
corporations. Le multinazionali sono accusate di favorire un processo che esclude
sia gli interessi dei Paesi più poveri sia le istanze rappresentate dagli strati più deboli
della popolazione nei Paesi industrializzati. Inoltre, i costi ambientali e sociali
tendono ad essere sottovalutati mentre i benefici economici della Globalizzazione
sono distribuiti in modo iniquo. In breve, secondo i suoi critici, il processo di
Globalizzazione nella sua forma attuale è insostenibile.
E’ l’unico modello possibile? La de-Globalizzazione è un’alternativa plausibile?
Una gestione maggiormente democratica e partecipativa può essere uno
strumento più efficace nell’affrontare i problemi attuali? Le domande sono molte,
ma non è la prima volta nella sua storia che l’umanità si trova ad affrontarle.
Breve storia del processo di Globalizzazione
La Globalizzazione non è un fenomeno nuovo. I ricercatori del settore
identificano tre ondate nel moderno processo di Globalizzazione, il primo coincide
convenzionalmente con il periodo che va dal 1870 al 1914. In questo lasso di
tempo, il valore delle esportazioni in rapporto al PIL quasi raddoppia arrivando
all’8% mentre gli investimenti esteri verso Africa, Asia e America Latina triplicano. Il
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flusso internazionale dei migranti conosce un aumento drammatico, con circa il
10% della popolazione mondiale che lascia l’Europa per il Nuovo Mondo, e la
Cina o l’India alla volta dei Paesi confinanti meno popolati. Tuttavia, questa prima
ondata di Globalizzazione è virtualmente annullata dalla Prima Guerra Mondiale,
dalla Grande Depressione e, infine, dalla Seconda Guerra Mondiale. Alla fine
degli anni ’40, infatti, la quota del commercio estero torna all’incirca agli stessi
livelli del 1870.
La seconda ondata corre dagli anni ’50 agli ’80 e coinvolge per lo più i soli Paesi
Industrializzati. I flussi commerciali e finanziari crescono tra Europa, America del
Nord e Giappone, confortati da diversi accordi multilaterali sulla liberalizzazione
del commercio adottati sotto gli auspici del GATT (General Agreement on Tariffs
and Trade). Allo stesso tempo, i PVS (Paesi in via di sviluppo) rimangono legati al
ruolo di esportatori di materie prime, isolati dal flusso internazionale di capitali.
Diverse ricerche scientifiche evidenziano come il reddito pro capite degli Stati
membri dell’OECD (Organization for Economic Cooperation and Development)
tenda a convergere, al contrario il divario reddituale tra i Paesi Industrializzati e
PVS cresce.
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Fonte: World Bank website.
La terza onda della Globalizzazione inizia negli anni ’80 e continua ancora oggi,
stimolata da due fattori principali. Da una parte il progresso tecnologico ha
abbattuto i costi di trasporto di comunicazione in modo tale da rendere
economicamente appetibile per un’azienda la localizzazione di diverse fasi della
produzione in diversi Paesi. L’altro fattore è la crescente liberalizzazione del
mercato delle merci e dei capitali: è sempre maggiore il numero di PVS che
sceglie di ridurre il grado di protezione delle proprie economie dalla concorrenza
e dai flussi internazionali, abbassando i dazi e diminuendo il ricorso alle barriere
non tariffarie, quali le quote, i limiti alle esportazioni e normative restrittive.
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Globalizzazione e liberalizzazione del commercio
Negli ultimi venti anni, ventiquattro PVS hanno approssimativamente visto
raddoppiare il peso della Bilancia Commerciale rispetto al PIL. Questo gruppo di
“nuovi Globalizzanti” include Paesi densamente popolati, come Cina ed India, e
in totale comprende tre miliardi di persone. D’altro canto, circa due miliardi di
persone vivono in PVS i cui flussi commerciali sono diminuiti rispetto a vent’anni fa.
I dati statistici suggeriscono che le economie emergenti maggiormente aperte
alla Globalizzazione hanno conosciuto una rapida crescita del PNL pro capite e
stanno gradualmente raggiungendo i Paesi industrializzati. Catching up è la
definizione data a tale fenomeno tipico, soprattutto ma non solo, delle tigri
asiatiche e della Cina. Tuttavia il resto dei PVS, tra cui molti Paesi dell’area sub
sahariana (SSA), non ha avuto successo nel tentativo di partecipare al processo di
Globalizzazione, e i tassi di crescita del reddito pro capite di tali Paesi sono stati
negativi.
Ci sono buoni morivi per credere che i flussi commerciali e finanziari
internazionali contribuiscano a spiegare la diversa crescita economica tra i PVS
più o meno connessi al processo di Globalizzazione. Tuttavia, si può arguire che il
rapporto di causa-effetto possa essere inverso: i Paesi che hanno avuto maggior
successo nello sviluppo economico e nella crescita possono permettersi di una
maggiore apertura sui mercati internazionali e risultare maggiormente attraenti
per gli investitori stranieri. Infine, occorre ricordare che per i Paesi attivamente
impegnati nel processo di Globalizzazione, i benefici comportano comunque
nuovi rischi e sfide.
Per i Paesi che hanno liberalizzato il proprio settore commerciale un primo
vantaggio risiede nel maggiore accesso dei propri produttori sui più ampi mercati
internazionali. Per un’economia nazionale tale accesso comporta un’opportunità
per trarre giovamento della divisione internazionale del lavoro, allocando le
proprie risorse là dove sono maggiormente produttive, specializzandosi nella
produzione e nell’esportazione dei beni competitivi e importando il resto.
Soprattutto, i produttori nazionali sfrutteranno i vantaggi comparati del proprio
Paese sul mercato globale per aumentare la loro efficienza, e i consumatori
godranno una scelta più ampia tra diverse varietà di beni locali o importati e a
prezzi minori. Questo almeno in via teorica.
Ancora, i Paesi coinvolti nel commercio internazionale hanno l’opportunità di
beneficiare di nuove tecnologie che “fuoriescono” (spillover) dai partner
commerciali, ad esempio attraverso la conoscenza tecnica incorporata nei beni
importati. Gli spillover tecnologici sono particolarmente utili per i PVS in quanto
forniscono l’opportunità di recuperare il terreno perduto nei confronti dei Paesi
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industrializzati, almeno in termini di accresciuta produttività. Vedremo nel seguito
del lavoro quali sono i limiti che incontra la precedente affermazione.
Tuttavia, aprendosi al commercio internazionale, un’economia affronta rischi
considerevoli associati alla dura concorrenza sui mercati internazionali. Da un lato,
si può sostenere che la concorrenza internazionale genera la pressione necessaria
a prevenire la stagnazione economica e tecnologica, stimola i produttori locali a
migliorare la qualità delle proprie merci e a ridurre i costi di produzione.
Per contro, è grande il rischio di vedere molte imprese, quando non addirittura
interi settori economici, spinte fuori dal mercato perché deboli, poco competitive
e incapaci di adattarsi alle nuove regole del gioco. Inoltre, il capitale fisico e il
capitale umano precedentemente impiegato in tali settori è difficilmente
trasferibile ed utilizzabile in attività più produttive e ciò per diverse ragioni, tra le
quali la mancanza di ulteriori investimenti, la carenza di informazioni relative ai
mercati e di nuove tecnologie e altre ancora.
Nel contempo, il fallimento delle imprese e il conseguente aumento del tasso di
disoccupazione impoveriscono le persone fisiche e rallentano la crescita
dell’economia nazionale. Questi sono solo alcuni dei motivi che spiegano la forte
opposizione che incontrano le misure di liberalizzazione commerciale, anche nei
Paesi ad alto reddito e meglio preparati ad affrontare la concorrenza
internazionale.
Non sorprende dunque che i governi dei PVS, e talora anche dei Paesi
industrializzati, innalzino delle barriere protettive temporanee per consentire ai
propri attori economici di organizzarsi e prepararsi in modo tale da reggere meglio
la pressione della concorrenza estera (su tale base si innestano le teorie della
cosiddetta industria nascente). Al fine di proteggere i produttori nazionali, i governi
cercano di smorzare la concorrenza introducendo quote alle importazioni, o più
spesso, esigendo dazi e imponendo tariffe per rendere i beni esteri più cari e meno
convenienti per i consumatori.
Non è raro, inoltre, cha a tali barriere si aggiungano degli aiuti di stato destinati
a sostenere i produttori locali. In quest’ultimo caso lo svantaggio economico che si
ripercuote sul consumatore è duplice: non solo pagherà un prezzo maggiore per
un bene di qualità inferiore o uguale, ma ne sosterrà la sua produzione mediante
le tasse versate all’erario statale. Ironicamente sono proprio i Paesi industrializzati
che ricorrono a tali espedienti: la PAC europea o il sostegno statunitense ai
coltivatori nazionali di cotone sono forse i casi più eclatanti.
In via generale, gli economisti non sono contrari alle misure restrittive del
commercio, purché siano temporanee. Nel lungo corso, tali scelte possono
rivelarsi economicamente pericolose perché permettono ai produttori nazionali di
essere inefficienti e talora possono degenerare in una stagnazione economica.
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Quando possibile, investire per migliorare la competitività delle industrie chiave
nazionali dovrebbe essere considerata un’alternativa alle politiche
protezionistiche.
Nonostante l’incessante avanzare della Globalizzazione e delle liberalizzazioni
compiute, i mercati oggi non sono completamente “liberi”. Sebbene i PVS
abbiano tagliato le tariffe sulle merci estere del 50% negli ultimi venti anni
(passando dal 15% al 7%), le tariffe ancora in vigore costituiscono un serio ostacolo
all’espansione delle relazioni commerciali tra i diversi PVS. I Paesi industrializzati
dispongono di tariffe sulle importazioni mediamente minori (2-2,5%), ma
estremamente più alte (frequentemente sopra il 100%) esattamente in quei settori
in cui i PVS sono più competitivi, ovvero i prodotti agricoli e i manufatti ad alta
intensità di manodopera, il tessile ad esempio. Conseguentemente, secondo le
stime della World Bank, i PVS sono soggetti a tariffe del doppio più alte rispetto a
quelle cui sono soggetti i Paesi industrializzati. Sempre secondo la World Bank, una
riduzione delle tariffe sui prodotti agricoli e tessili da parte dei Paesi industrializzati
incrementerebbe di mezzo punto percentuale la crescita economica annua dei
PVS, nel lungo termine, ed entro il 2015 eleverebbe 300 milioni di persone al di
sopra del livello di povertà.
Fonti:
- Bonaglia F., Goldstein A., Globalizzazione e sviluppo, Il Mulino, 2003.
- Bordo M. D., Globalization in Historical Perspective, Business Economic, 2002.
- Osterhammel J., Petersson N. P., Storia della Globalizzazione, Il Mulino, 2005.
- The World Bank Group website, www.worldbank.org.
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Globalizzazione: flussi di capitale
I flussi di capitali tra diversi Paesi rappresentano uno degli aspetti più evidenti del
processo di globalizzazione. In particolare i flussi dai Paesi industrializzati ai PVS
hanno assunto grande rilevanza, dal momento che l’integrazione delle economie
emergenti con i mercati internazionali di capitale è divenuta una caratteristica
sempre più importante della Globalizzazione negli ultimi vent’anni.
I flussi finanziari diretti verso i PVS assumono tipicamente tre forme: gli
investimenti di compagnie private estere, detti anche flussi di capitale privato, le
rimesse dei lavoratori emigrati, e l’aiuto dei governi esteri, cui spesso ci si riferisce
come assistenza ufficiale allo sviluppo (Official Development Assistance, ODA).
ODA
Dalla Seconda Guerra Mondiale fino ai primi anni ’90, la fonte principale di
finanziamento estero disponibile per i PVS è rappresentato dall’ODA fornita dai
governi dei Paesi ad alto reddito in forma di derrate alimentari, interventi umanitari
in situazioni d’emergenza, assistenza tecnica, operazioni di peacekeeping e il
finanziamento della costruzione di infrastrutture. I Paesi donatori sono motivati dal
desiderio di fornire supporto ai loro alleati politici e ai partner commerciali, di
espandere i loro sbocchi per le esportazioni, e di ridurre la povertà e il numero di
conflitti militari che minacciano la sicurezza internazionale. Alla fine della Guerra
Fredda e all’iniziare delle riforme ispirate dall’economia di mercato nell’Europa
dell’Est e in Asia Centrale, anche gli Stati che in precedenza seguivano i principi
dell’economia pianificata iniziano a ricevere aiuto economico con l’obiettivo
precipuo di favorire le riforme di mercato. Tuttavia, la rapida crescita dei flussi di
capitale privato verso i PVS e il declino continuo dell’ODA hanno portato
quest’ultimo al terzo posto come fonte di finanziamento, preceduto dagli
investimenti diretti esteri (FDI) e addirittura dalle rimesse degli emigrati.
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